domenica 18 giugno 2017

Al di là del terrore. Per una nuova antropologia*- Roberto Finelli**

*Da:  http://dialetticaefilosofia.it/
**Filosofo italiano   http://host.uniroma3.it/docenti/finelli/
Leggi anche:   https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/10/per-unetica-del-riconoscimento-paolo.html

1. Una smaterializzazione della vita 

 Com’è noto, uno dei testi più arcaici e fondativi della nostra modernità – nel senso di ciò che concerne l’αρχή, il principio – descrive la nostra società come una «immane raccolta di merci».

 Ebbene io credo che oggi la merce più rara, e di conseguenza più preziosa, sia divenuta, non una merce materiale, come il petrolio o come l’oro depositato nei caveaux delle banche centrali, bensì una merce immateriale e psichica, qual è la capacità di approfondimento interiore e di autoriflessione. E’ la capacità cioè di sentirsi - e di ritrovare nel proprio sentire emozionale il senso-guida della propria vita e il luogo ultimo, non confutabile da altri, della verità - che è venuta, a mio avviso, fondamentalmente meno, lasciando generalizzarsi e farsi coscienza comune un’attitudine alla superficie, al frammento, al percuotimento e alla seduzione dell’esteriore, che impedisce e vieta il darsi di eco e sonorità interiori, fino alla profondità corporea del nostro sentire.

 Come a dire che nell’ultimo trentennio della nostra epoca s’è vissuto, in particolare nei paesi del ricco Occidente, un enorme processo di smaterializzazione e di decorporeizzazione emozionale del nostro vivere, che altri hanno voluto chiamare anche, con termini ritengo meno adeguati, di «umanità liquida». Giacché il farsi liquidi e senza centro non coglie bene quanto e come l’esperienza dello svuotamento emozionale, ch’è divenuta configurazione psichica di massa, si sia accompagnata e dissimulata, nello stesso tempo, con l’investimento isterico e compensatorio della superficie, con la sopravalutazione eterodiretta delle paillettes e dei lustrini che spesso incorniciano il frammento, con la seduzione di una silhouette visiva, che nel contorno di una bellezza senza contenuto, cattura e mortifica lo sguardo di chi la subisce.

 Tale catastrofe dell’emozione s’è fatta esperienza riflessa, sul piano della coscienza colta e intellettuale, in quel complesso di teorie filosofiche, letterarie, estetiche, architettoniche, narrative, letterarie ma anche massmediologiche e legate alla formazione di un sapere diffuso, che sono state raggruppate sotto il termine di “postmodernismo” e che hanno costituito le forme del pensiero dominante nella cultura del pensiero occidentale degli ultimi decenni. Usando una categoria dell’antica metafisica filosofica si potrebbe dire, per sintesi, che la cultura postmodernista ha raccolto tutti gli orientamenti che hanno presunto di risolvere l’Essere in Linguaggio, ovvero che hanno ritenuto di poter di sciogliere e risolvere la realtà in un complesso di reti comunicative. Ritendendo cioè l’esperienza umana, individuale e collettiva, si costituisse essenzialmente di una trama di atti linguistici e simbolici, capaci di dar luogo ad una serie interminabile di atti ermeneutici: a muovere dall’assunto - apparso a un certo punto indiscutibile e parola d’ordine per entrare nella koiné intellettuale - che la realtà non possa mai essere attingibile nella sua fattualità e in una sua posssibile evidenza pratico-emozionale ed extralinguistica.

 Il simbolico-comunicativo, s’è sostenuto infatti, media e copre ogni possibile realtà “materiale”, creando un mondo virtuale di documenti solo letterari che consentono un’interpretazione infinita, in cui ciò che prevale e dà senso è sempre e solo una relazione intersoggettiva, una esposizione all’Altro, senza rimando possibile a una strutturazione infrasoggettiva e materialistico-emozionale del senso.

 Di qui una visione dell’esperienza umana tutta costruita sulla dimensione orizzontale-comunicativo-linguistica con l’esclusione di quella verticale, infrasoggettiva, e pronta, per l’assenza di tale radicamento interiore, a decostruire l’identità più propria nella relazione mimetica, gruppale e fusionale con l’altro da sé. Anzi, di contro ai vecchi e tradizionali valori della modernità – ma ormai ben logori e consumati – quali i princípi e le categorie di sintesi e di sistema, di totalità e di organicità, ancor più disposta a valorizzare la pregnanza dell’episodico e del frammentario. Al fine di esaltare una filosofia del conoscere e dell’agire, insomma, fecondata dall’alleggerirsi dell’esperire, dal superficializzarsi del mondo, dal godimento etico ed estetico del particolare, dell’immediato, e che, dunque, lasciasse dietro di sé quella che il vecchio Hegel aveva chiamato la «fatica del concetto».

 Non che, a dire il vero, il pensiero debole dell’ultimo trentennio non abbia avuto ragioni legittime nel criticare quello che, nel suo complesso, è stato il pensiero forte della modernità, connotato dal prevalere di curvature sistemiche, rigide assai spesso fino al totalitarismo. Infatti le forme dell’identità moderna, sia teoriche che pratiche, sia individuali che collettive, si sono in genere definite, a mio avviso, attraverso meccanismi di scissione, che hanno visto escludere il particolare dall’universale, l’alterità dall’appartenenza, l’individuazione dalla socializzazione, l’emozionale dal razionale, l’esistenziale dal collettivo. Tanto che anche i cosidetti movimenti di trasformazione e di emancipazione degli anni ’70, con qualche significativa eccezione per il pensiero femminista della differenza di genere, hanno sofferto di un’insufficienza antropologica di base, per la quale, malgrado l’opposto dichiarare il valore dell’esistenza del singolo e della sua irripetibilità e irriducibilità di vita, l’individuale è stato invece costantemente sacrificato rispetto al perentorio affermarsi d’istanze di organicità e di comunitarismo, persistenti nel pensare e nell’agire secondo lo schema arcaico ed espulsivo dell’«amico-nemico».

 Ma per fuoriuscire dalla gabbia d’acciaio costruita dal discorso della modernità, e troppo serrata nella forzatura del polemos, l’ideologia del postmoderno ha praticato null’altro che il medesimo spirito di scissione: solo rovesciandolo di segno. Perché ha finito appunto con l’esaltare ogni attitudine antisistemica ed ogni valorizzazione del differenziarsi e del moltiplicarsi dei piani del vivere, di contro alla svalutazione radicale di ogni funzione della sintesi e del permanere: giungendo a celebrare con quel suo massimo intellettuale, qual è stato verosimilmente J. Derridà, il risolversi del pensare nel «decostruire», nello smontaggio cioè raffinato ed estenuato di ogni istanza d’identità nel moltiplicarsi della differenza. Fino a proporre una concezione evenemenziale dell’individuo, concepito come una serie inesauribile di eventi, di puri avvenimenti: quali esiti sempre diversi del fascio di relazioni, che, nello svolgersi vario dei momenti del vivere, ogni volta lo attraverserebbero e lo formerebbero.

2. La sovradeterminazione dell’esteriore.

 Da tale estremizzazione ed esasperazione delle filosofie ed antropologie della postmodernità è nata, trasferito dai maîtres a penser fino al piano massmediatico della diffusione ideologica e dell’opinione comune, l’esortazione, e l’obbligo insieme, alla smaterializzazione dell’esistere e alla negazione, come luogo privilegiato del senso del vivere e del sentire, del bíos del proprio corpo emozionale. Così l’affermazione dell’artificiale e del virtuale, del linguistico e del simbolico, privilegiando l’universo comunicativo e vietando che vi fosse un principio extralinguistico del senso, ha messo in scena un’antropologia di pressocché totale ispirazione culturalista e relazionale che ha rifiutato di coniugare insieme naturale e culturale, biologico e psichico, visti nella loro evidente connessione ma anche nella loro distinzione ed eterogeneità. Come se, insomma, il percorso dell’Occidente che da Platone e Aristotele, attraverso Agostino, Cartesio, Kant, ed Hegel, fino a Nietzsche e a Freud ha viaggiato nel verso dell’interiorizzazione, nel passaggio cioè da un criterio esterno ed oggettivo di bene e di vero ad uno soggettivo ed interiore, si fosse capovolto, tornando a fare dell’esteriore e del comune, del pubblico e dell’unanimamente condiviso, l’unico principio e misura di ciò che è propriamente umano.

 Ora è proprio in tale progressivo affievolimento della dimensione verticale e infrasoggettiva dell’essere umano, fino al perseguimento di una sua vera e propria catastrofe, a fronte della valorizzazione estenuata ed estenuante della intersoggettività, della «chiacchiera», per dirla con Martin Heidegger, quando il discorso si priva appunto del suo luogo più profondo ed originario del senso, - è proprio in tale rifacimento virtuale e postumano dell’umano – che si colloca, a mio avviso, oggi la radice di una condizione generalizzata di fragilità, pronta nel corso dell’esistenza d’ognuno, e in particolare delle giovani generazioni, ad assumere le configurazioni più varie della difficoltà e dell’angustia del vivere. E’ in tale svuotamento dell’interiore e, per compenso, in tale sovradeterminazione dell’esteriore, imbellettato e vaniloquente, che si genera l’atonia, l’assenza di emozioni e passioni profonde, di un’umanità – si ripete soprattutto giovanile – disusa a trovare nell’intensità dell’affetto la guida ultima del più proprio, e incomparabile, progetto di vita.
Si rileggano in tal senso le pagine sempre illuminanti di Kierkegaard sul peccato per eccellenza, principio di tutti i peccati, qual è il non volere, in quanto assenza di un apparato mentale capace di scegliere e appunto d’intensamente volere.

 A/tonia, s’è detto: ancor prima della paura e dell’angoscia, che ne sono conseguenze e derivati. Perché se fossero affetti che precedono, affetti primari - in una sorta di fenomenologia dell’emotività contemporanea - sarebbero comunque esperienze fortemente emozionali, in grado di generare, verosimilmente, prese di coscienza e motivazioni alla trasformazione. Laddove qui è proprio l’accensione del tono, del suono interiore, che non si dà, lasciando ed esponendo il potenziale soggetto ad essere solo oggetto assoggettato alla voce, al desiderio, alla seduzione, come alla norma e al terrore indotti ed imposti dall’altro/da/sé. Giacché appunto l’esposizione invasiva e fusionale all’altro/da/sé – o come viene spesso detto, con termine inappropriato e inadeguato, al simbolico – si dà solo quando il soggetto umano non riesce ad essere simbolo a sé medesimo, quando cioè è incapace di quel processo di soggettivazione che lo fa entrare in un rapporto mai esaurito di senso con il proprio sentire, con il fondo del proprio corpo emozionale: ossia con quell’altro/di/sé che non è mai afferrabile e definibile, nel senso del conoscere e del rappresentare, ma sempre potenzialmente attingibile, appunto solo attraverso il sentire, nel suo essere rappresentante e simbolo del corpo nella mente.

 Tale catastrofe dell’interiorizzazione, tale atrofia di un apparato per pensare, per dirla con le parole di W. Bion, che non riesce a pensare le sue più proprie emozioni, perché è invaso e strutturato solo dalla chiacchiera dell’altro, appare essere dunque, almeno a mio avviso, il tratto più drammatico della trasformazione antropologica che l’umanità occidentale, e in modo particolare le giovani generazioni, sta vivendo. Una trasformazione, che, attraverso una superficializzazione dell’esperire, distrugge il senso della storia, della continuità con le generazioni precedenti, dell’esistenza stessa del passato e genera un narcisismo estenuato, mite, senza passione, estraneo all’idea stessa di lavoro psichico e volto, senza profondità, non a vivere ma a meramente registrare la datità del mondo.

3. Un altro inconscio.

 Solo che noi stessi non saremo, a nostra volta, così ingenui e volti solo all’apparire invece che all’essere, da pensare che tale sommovimento epocale - tale catastrofe dell’emozione - sia stata l’opera e la conseguenza, solo ed essenzialmente di un movimento di idee, ossia di visioni filosofiche e intellettuali, discorsivamente argomentate alla luce del pensiero cosciente e razionale. Una modificazione così radicale del modo, più diffuso e comune, di vedere e percepire la vita, di esperire se stessi e l’altro, deve includere il concorso di accadimenti storici più complessi e più impegnativi, quanto alla messa in opera di fattori meno consaputi e più impersonali.

 E’ alla materialità dell’economico che infatti si deve attribuire, in particolare negli ultimi decenni, la maggiore efficacia e potenza, quanto a trasformazione e produzione di realtà, quanto a capacità cioè di dar forma al modo di vivere e di pensare della maggioranza degli esseri umani. Tanto più, da quando con l’implosione del cosidetto comunismo reale, sono crollati i muri e i confini che impedivano ad un unico modello di prassi economica, ad un’unica logica di produzione e di accumulazione di ricchezza, di allargarsi e di estendersi fino a farsi economia-mondo. Giacché proprio la mondializzazione sembra essere la configurazione più adeguata e matura di un economico che pone a suo principio una ricchezza astratta e la sua illimitabile, e non, confinabile accumulazione: una ricchezza la cui natura, essendo essenzialmente quantitativo-monetaria, non può avere come suo fine principale che quello di aumentare ed accumulare la propria base di quantità. Per dire cioè che proprio la globalizzazione sta ponendo in evidenza quanto l’enorme massa di merci, che ogni giorno produce e mette in movimento l’economia mondiale, rimandi - malgrado la sua fantasmagoria di oggetti e prodotti, di moltitudine di valori d’uso diversi e legati ad una bisognosità umana molto differenziata - ad una soggettività fortemente identitaria: una soggettività, impersonale ed astratta, che impone i suoi obbligati percorsi e protocolli di accumulazione, la sua logica di crescita, in qualsiasi campo concreto si trovi ad investire e ad operare.

 Come se, insomma, la mondializzazione dell’economico sia giunta ad esplicitare che s’è costituito ormai un altro agente inconscio produttore di realtà, ovviamente ben diverso dalla natura e dalle funzioni dell’inconscio psichico: un inconscio socioeconomico appunto, di carattere impersonale, che impone la sua logica univoca ad un mondo della vita, connotato da differenze di cultura, di ambiente geografico, di storia e di relazioni sociali, ma tutte riattraversate e riscritte dalla valenza omologante, sul mercato mondiale, degli automatismi economici.

 Sembra cioè che la relazione tra mondo dell’economico e mondo del vitale oggi vada sempre più letta nel verso di una relazione «contenuto-contenitore», secondo cui la logica astratta e meramente quantitativa dell’economico pervade il mondo della vita, lo svuota assimilandolo alle sue funzioni, e ne lascia, in pari tempo, sopravvivere una mera silhouette di superficie. In un processo, appunto, di svuotamento del concreto ad opera dell’astratto e, contemporaneamente, per compensazione, di sovradeterminazione, di sovrainvestimento eccitatorio della superficie: quasi che l’accadere fosse determinato e agito dai soggetti individuali e concreti della superficie, con i loro bisogni e i loro gusti, mentre il vero soggetto rimane operoso nel profondo, con la sua logica autoriferita ed esclusiva. Tutto ciò per dire che, verosimilmente, oggi la globalizzazione ha messo in atto un processo, non solo di unificazione e omologazione dei vari stili di vita, ma anche di superficializzazione ed esteriorizzazione del mondo della vita, per il quale nella coscienza più diffusa s’è venuto celebrando il culto del frammentario, del multiverso, dell’istantaneo, purché abbellito di colori fluorescenti e di brillanti pajettes: di tutto ciò che insomma non richiede radici e profondità, che non rimanda a relazioni e causalità complesse, che vive più del verosimile e dell’artefatto che non del vero, e che, nella singolarità irripetibile del suo significare, non abbia più nulla a ricordare e a far uso delle grandi dimensioni, sistemiche e totalizzanti, del moderno.

 Ma tale esteriorizzazione del mondo della vita, tale suo svuotarsi di contenuto e di senso, per farsi solo maschera di superficie è proprio la conseguenza di un vettore astratto e tendenzialmente unificante di realtà qual è la tipologia di ricchezza che s’è collocata nel cuore della maturità matura, come accumulazione ed espansione di una quantità monetaria e finanziaria, che, essendo «quantità», quale che sia il mondo concreto in cui s’incorpora e che attraversa, non può che crescere su sé medesima, come una «cattiva infinità» che nella sua perversione appunto non riesce mai a finire.

 Per cui si può pensare che principalmente in tale funzione dilatata dell’economico contemporaneo - e della sua materialità astratta che smaterializza il mondo – sia da ritrovare il luogo par excellence di genesi dell’ideologia postmodernista di cui si diceva all’inizio e di quella teorizzazione dell’umanità decentrata e desoggettivizzata che ne è derivata. Quasi a riattualizzare uno slogan del vecchio Marx che, se errava con la sua dottrina del materialismo storico a voler vedere in tutta la storia sempre il dominio dell’economico sullo spirituale, forse non aveva tutti i torti nel correggere, nella sua maturità quella visione dogmaticamente unilaterale, affermando che è essenzialmente nel moderno, e non nelle epoche storiche che lo hanno preceduto, che possa valere la centralità di un economico che tende a costruire l’intera vita sociale a sua immagine e somiglianza.

4. Nuove utopie. 

 Ma dunque come sfuggire alle necessità di un economico che è esso medesimo a produrre e, nello stesso tempo, domandare e richiedere un’individualità debole, flessibile, formata secondo competenze essenzialmente linguistico-comunicative? Un’individualità cioè, capace di dialogare con i computers e le varie macchine dell’informazione, da cui è pronta a ricevere programmi e sapere già codificato, ma che proprio perciò è incapace di riflessività e profondità interiore, e di trovare quindi nell’intensità della propria emozione l’indicazione e il senso del suo più proprio progetto di vita? E cosa obiettare a tutti coloro che celebrano la nostra società futura come supposta società della conoscenza, come società immateriale che avrebbe concluso le epoche storiche della fatica e del lavoro materiale, quando la conoscenza di cui trattiamo ha come contropartita il disconoscimento del più proprio Sé, quando il conoscere cioè non è, in pari tempo, un ri-conoscere?

 Provare a costruire un discorso in positivo e delineare una via di fuga di questa condizione drammatica appare, in vero, assai difficile: al limite di un’immaginazione utopica e del tutto al di là da venire. Ma se qualcosa si può delineare io credo debba andare nel verso della prefigurazione di un’etica e di una cultura del riconoscimento/riconoscersi: quale complesso cioè di istituzioni, di modalità e di pratiche della relazione che pongano, come loro produzione specifica di ricchezza, la cura dell’asse verticale della soggettività umana: quale possibilità cioè di una comunicazione feconda, al più basso grado di terrorismi interiori e di autocensure, tra mente logico-discorsiva e mente corporeo-emozionale.

 S’è detto «etica» e non «psicoanalisi», poiché la mutazione antropologica, nel senso della superficializzazione del mondo e dell’individualità umana, è epocale, di massa ed è dunque connotata da una diffusione che non può essere affrontata solo nei termini di una relazione analitica. Eppure etica d’ispirazione psicoanalitica dovrebbe essere chiamata un’utopia istituzionale del riconoscimento, perché in quanto etica dovrebbe estendersi alla generalità dell’umano e in quanto psicoanalitica dovrebbe proporsi, appunto come fine, una cultura dell’individuazione e la possibilità per ciascuno, attraverso il riconoscimento degli altri, di accedere al riconoscimento di sé. Perché, come insegna la psicoanalisi, non si accede alle vie dell’inconscio se qualche mentore, qualche Virgilio non ci accompagna e ci sottrae alle paure ed angoscie del nostro sentire. Se cioè non ci sottrae all’identificazione gruppale, familista, sociale, che in genere prevale sulla fragilità iniziale delle nostre vite, per consegnarci, in modo adeguato al confronto con la forza e l’autorevolezza delle nostre emozioni.

 Un’etica del riconoscimento dovrebbe cioè mirare ad una possibile, ed intima, connessione tra la formazione di una coscienza individuale e la maturazione di una coscienza pubblica e civile, nel senso che la possibilità, sempre difficile e contrastata, del riconoscersi in un proprio ineguagliabile ed irripetibile Sé dovrebbe essere oggetto permanente e prioritario di una cura pubblica e generalizzata, attraverso un percorso di formazione capace di mediare la trasmissione della cultura con pratiche e relazioni del riconoscimento. Imprescindibile sarebbe in tal caso il coinvolgimento di quell’agenzia di socializzazione fondamentale che è la scuola, nei suoi vari ordini e gradi fino all’Università inclusa, ripensati e riorganizzati alla luce appunto di un’antropologia che dell’intreccio tra un verticale intrapsichico ed un orizzontale intersoggettivo facesse il suo principio costituzionale, la sua regola aurea. Ma con l’implicazione che tutto ciò non potrebbe che significare il superamento e l’abbandono di quell’antropologia della penuria che ha connotato fin qui la storia dell’umanità, nell’aver sempre identificato la ricchezza nell’accumulo di beni e servizi volti al soddisfacimento di un essere umano costituito anzitutto da bisogni materiali.

 Oggi io credo - attraverso il confronto, sempre più indispensabile ed inevitabile, con la cultura della psicoanalisi - etica e politica, scienze umane e filosofia, possono giungere a ragionare di un nuovo materialismo che includa nei bisogni originari e imprescindibili dell’umano, accanto alla bisognosità più esplicitamente fisica e biologica, il bisogno dell’esser riconosciuti, pena l’assenza dell’accendersi della stessa vita psichica. Così come possono giungere a meditare su quella complicazione ed arricchimento psicoanalitici del concetto moderno di libertà, per cui libertà non è più solo la libertà liberale «di» (pensiero, religione ..) o la libertà comunista «da» (bisogni e necessità materiali), ma, oltre a queste, una libertà, postliberale e postcomunista, da intendersi come l’assenza, al più alto grado possibile, di quei divieti e di quelle censure, di quel terrorismo interiore che fa divieto al soggetto umano di comunicare con il suo più profondo e proprio Sé.

 Solo una cultura civile e politica che si rifondasse a muovere da tale nuovo materialismo, da tale nuova antropologia, sarebbe forse in grado, io credo, di proporre un economico, e con esso un paradigma di ricchezza, ulteriore a quello moderno e contemporaneo. Solo una cultura etica e filosofica che riconoscesse il grande debito accumulato dalle acquisizioni e dalle conquiste teoriche e cliniche maturate dalla psicoanalisi, nel corso ormai di un secolo, potrebbe, a mio avviso, proporre un’ideale di trasformazione all’altezza della drammaticità dei problemi contemporanei. Anche se, va considerato, il narcisismo dei filosofi e dei maitres a penser, nel tenere distinti i campi del sapere quali luoghi del dominio e dell’autoritarismo del proprio logos, è sempre in agguato.

 Ma questa è la speranza, di poter contrapporre a un vecchio e consunto paradigma di ricchezza, che sta diffondendo disperazioni, terrori e tremori, un nuovo paradigma di ricchezza e fecondità antropologica.

 Se tutto ciò potrà mai avvenire, sottraendosi alla dimensione del mero sogno e del mero congetturare utopico, solo un Dio, cioè il tempo dell’ad/venire, ce lo potrà dire.

NOTE 

K. Marx, Il capitale, Libro primo, trad. it. di D. Cantimori, Editori Riuniti, Roma 1973, p. 47.

A.M. Sassone, E si trasformò in un orecchio. Il corpo sonoro e le riflessioni sull’onda, «Consecutio temporum. Hegeliana, Marxiana, Freudiana», n. 1, 2011, www.consecutiotemporum.org

F. Jameson, Postmodernismo. Ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, trad. it. di M. Manganelli, Fazi, Roma 2007.

Charles Taylor, Radici dell’io. La costruzione dell’identità moderna, trad. it. d R.Rini, Feltrinelli, Milano 1993.

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