lunedì 3 aprile 2017

POTENZIALITÀ E LIMITI DEL REDDITO DI BASE*- Giovanna Vertova**

*Etica & Politica / Ethics & Politics, XIX, 2017, 1.   http://www2.units.it/etica/
**Dipartimento di Scienze Aziendali, Economiche e Metodi Quantitativi Università di Bergamo.
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                                                                                                     Quesito 1.
In Italia, nonostante l’assenza di misure universali di sostegno al reddito abbia per molti anni tenuto fuori il paese dal dibattito europeo, ultimamente si sono moltiplicate iniziative regionali (per esempio il reddito di dignitàpugliese o il reddito di autonomia piemontese) o amministrative, proposte di legge (quella del Movimento 5 Stelle e quella di SEL, per esempio), iniziative popolari. Anche il ministro Poletti ha recentemente annunciato l’introduzione di un “reddito di inclusione” a livello nazionale. In molti casi la discussione ha riguardato dispositivi molto distanti, nell’impianto e nella filosofia, dal reddito di base incondizionato, presentando caratteri di familismo ed eccessiva condizionalità. In Svizzera, invece, si è recentemente svolto un referendum per l’introduzione di un reddito di base incondizionato su scala nazionale. A cosa è dovuto, a suo parere, il ritardo italiano – ammesso e non concesso che di “ritardo” effettivamente si tratti? Come è possibile tradurre politicamente un dibattito teorico che dura ormai da decenni? 

G. Vertova:
Trovo abbastanza bizzarro che la prima domanda di un dibattito sul reddito di base (RdB) non riguardi la validità della proposta, quanto il ritardo nella discussione teorica e nella pratica politica italiana. Lo trovo ancora più bizzarro quando si invita al dibatto una persona che, in più di una occasione, ha sollevato critiche, sia teoriche che politiche, al RdB1 . Forse sarebbe stato intellettualmente più stimolante chiedere ai partecipanti una analisi di tale proposta. Mi prendo, quindi, la libertà di riassumere, molto velocemente, le mie perplessità, prima di rispondere.

Prima di tutto è necessario chiarire di cosa si sta parlando, perché il dibattito sia teorico che politico, soprattutto in Italia, è molto confuso: reddito di esistenza, di base, minimo garantito, di dignità, di autonomia, di inclusione, salario sociale, vengono usati come sinonimi delle diverse proposte, come semplici etichette che nascondono, in realtà, cose molto diverse. Il RdB è una proposta molto chiara e specifica: il pagamento regolare di un reddito (in moneta, non in natura, come è, in genere, il welfare), su base individuale (non familiare, come sono spesso i sostegni al reddito in Italia), universale (per tutti, indipendentemente dalla condizione lavorativa) e incondizionato (non vincolato a un requisito lavorativo o alla volontà di offrirsi nel mercato del lavoro)2 . Questa nuova forma di welfare viene presentata dai sostenitori come “la” proposta di politica economica per superare la precarietà e la disoccupazione dilagante, in questa nuova fase di accumulazione capitalistica e, a maggior ragione, oggi, in questo periodo di crisi.

Le giustificazioni teoriche della proposta3 la qualificano immediatamente. La ricerca della giustizia redistributiva (Rawls), della libertà dalla povertà e dal ricatto del lavoro (Rodotà), o della riappropriazione dei frutti della cooperazione sociale (Negri) evidenziano come il RdB sia una proposta di redistribuzione (del reddito ed, eventualmente, della ricchezza). Non va a intaccare le cause della disuguaglianza di reddito e ricchezza, della precarietà del lavoro, della povertà e delle condizioni di vita insostenibili. Vorrebbe, semplicemente, mitigarne gli effetti nefasti. Misure come il RdB possono, forse, rendere più sopportabile precarietà e disoccupazione nel breve periodo, ma non le eliminano. Semmai le cristallizzano e le congelano, soprattutto quando tali misure sono pensate isolatamente, come la panacea di tutti i mali, al di fuori di un pacchetto di proposte più onnicomprensivo, teso a intaccare non solo gli effetti ma anche le cause di precarietà e disoccupazione. Presentata singolarmente, sganciata da altre rivendicazioni, la proposta del RdB si trasforma in un riformismo dal volto umano: si accetta il capitalismo così come è, generatore di disoccupazione e precarietà, cercando di miglioralo. Ecco perché questo tipo di proposta può trovare sostenitori appartenenti a diversi schieramenti politici. Certo, anche il welfare è una forma indiretta di redistribuzione del reddito. Che differenza c’è, quindi, tra il RdB e il welfare? La risposta corretta è: dipende da come è declinata la proposta del primo.

Diverse sono le implicazioni sia teoriche che politiche del RdB, a seconda di come è esplicitato: un livello di reddito che permette effettivamente di scegliere tra offrirsi o non offrirsi sul mercato del lavoro (cioè di uscire dalla “gabbia del lavoro salariato”); o un livello che diventa una integrazione a un reddito lavorativo (per chi lavora) o un sussidio (per gli altri). Il primo tipo, che definisco incompatibile, deve essere decisamente superiore al salario medio e permettere effettivamente di vivere senza lavorare. Il secondo tipo, che chiamo compatibile, non permette di vivere senza lavorare, ma offre semplicemente una integrazione al reddito (a chi già lavora) o un sussidio (agli altri), universalizzando il numero dei beneficiari. Assumendo la teoria marxiana del valore, secondo la quale si può distribuire solo quello che è stato prodotto4, il RdB incompatibile produce una frammentazione, a livello globale, della classe lavoratrice. Se la classe lavoratrice dei paesi ricchi può permettersi di vivere senza lavorare (o, almeno, di fare questa scelta), chi produrrà la ricchezza da distribuire? La classe lavoratrice dei paesi poveri. I paesi ricchi possono redistribuire RdB, prodotto (e, andrebbe detto, estratto) dai lavoratori dei paesi poveri. La classe lavoratrice dei paesi avanzati può permettersi di vivere senza lavorare perché, per loro, lavora la classe lavoratrice dei paesi poveri. Non è il mio modo di intendere il superamento del capitalismo e, men che meno, un capitalismo dal volto umano. Nel caso di un RdB compatibile, contro le intenzioni dei proponenti, si presenta il forte rischio di spingere tutta la struttura salariale verso il basso, dovuto all’effetto Speenhamland5. I capitalisti hanno tutto l’interesse a ridurre i salari, visto che la classe lavoratrice percepisce già una forma di reddito. L’impresa assume, riducendo il salario; il lavoratore, inizialmente, ottiene lo stesso reddito di prima, ma in una spirale di deterioramento. Con il RdB come “pavimento” il salario può essere ridotto sempre di più. Questa dinamica crea una massa amorfa di persone che sopravvive e un crollo della capacità contrattuale di tutta la classe lavoratrice. Si corre così il pericolo dell’instaurarsi di un compromesso malsano: i capitalisti offrono bassi salari e lavori precari e i lavoratori li accettano perché, intanto, c’è il RdB.

Spesso, in un’ottica tipicamente keynesiana, si giustifica il RdB come una “regolazione istituzionale” per rendere stabile il cosiddetto post-fordismo (un sostegno ai consumi delle famiglie, nella speranza che questi facciano crescere l’economia), così come la crescita salariale in relazione alla produttività avrebbe stabilizzato il fordismo dei Trent’anni gloriosi. Peccato che la crescita postbellica si deve alle componenti autonome della domanda aggregata (investimenti privati delle imprese, spesa pubblica, esportazioni nette positive), in un contesto macroeconomico più stabile di quello attuale e in un situazione internazionale irripetibile, di capitalismo da guerra fredda. Contrariamente al mito fordista, i consumi sono stati trascinati e, quando le lotte nella produzione hanno morso, il modello è saltato.

In merito alla fattibilità pratica di tale proposta, due sono i problemi che vorrei evidenziare, uno di carattere economico e l’altro politico. Prima di tutto l’annosa questione del suo finanziamento. Il neoliberismo imperante ha riformato il sistema di tassazione di tutti i paesi avanzati, rendendolo molto poco progressivo. In assenza di una riforma fiscale, che reintroduca un sistema veramente progressivo, e combatta elusione ed evasione, il RdB finanziato dalla tassazione generale diventa una semplice partita di giro tutta interna alla classe lavoratrice: i lavoratori occupati pagano il RdB a coloro che non hanno lavoro. Non mi sembra una misura il cui costo sia equamente distribuito tra le classi sociali. La questione politica è non meno importante. Il neoliberismo è riuscito pienamente a indebolire, sia politicamente che sindacalmente, la classe lavoratrice6 . I movimenti dal basso esistono, ma sono piccoli e frammentati. In questa situazione di debolezza temo che questa proposta getti le basi per uno scambio con la sinistra “moderata” (o anche con la destra “sociale”): accettazione, più o meno dichiarata, della flessibilità in cambio di qualche sostegno al reddito, probabilmente condizionato.

Quest’ultimo punto mi permette di rispondere alla domanda. Sì, è vero: il dibattito italiano sul RdB è in ritardo rispetto ad altri paesi (così come lo è, peraltro, su tanti altri argomenti). Va, tuttavia, ricordato che, anche in quei paesi dove il dibattito è di più vecchia data, non è mai stato introdotto un RdB incompatibile7, ma solo compatibile e, spesso, condizionato. È il passaggio dal welfare state al workfare state8 tipico del neoliberismo attuale. Workfare è un termine coniato dalla letteratura anglosassone per indicare un sistema di welfare assistenziale che viene concesso, tuttavia, sotto certe condizioni (per esempio, seguire dei corsi di formazione o di aggiornamento, aver svolto determinati lavori utili o sociali, etc.). L’idea centrale è che gli individui rimangono disoccupati per via di una benefit trap (trappola dei benefici) o di incentivi inadeguati (come sono considerati i sussidi alla disoccupazione). Il workfare, quindi, vincola i sostegni al reddito alla dimostrazione di una volontà di lavorare, qualsiasi sia il lavoro e/o il salario offerto. È la stessa logica ortodossa che ha segnato il passaggio da politiche volte al full employment (piena occupazione) a quelle volta alla employability (“occupabilità”): nel primo caso, lo stato keynesiano si preoccupava che la forza lavoro trovasse un’occupazione; nel secondo, lo stato neoliberista si preoccupa che gli individui abbiamo le giuste caratteristiche per trovarsi un lavoro e poi sarà il mercato a conciliare domanda e offerta di lavoro.

Proposte di politica economica “di classe” dovrebbero essere a tutto tondo, concentrandosi su tutti gli elementi che determinano le attuali condizioni di lavoro e di vita. Al contrario la proposta del RdB è sempre presentata a sé stante: si propone il RdB come la soluzione di disoccupazione e precarietà, mantenendo inalterati gli altri elementi del sistema. Una politica economica “di classe” con l’obiettivo della riunificazione di un mondo del lavoro sempre più debole e frammentato deve essere, necessariamente, più onnicomprensiva e non limitarsi alla richiesta di “un reddito per tutti e tutte”. È da qui che dovrebbe partire il dibattito.

Quesito 2.
Di fronte al declino della soggettivitaà “lavorista” su cui si è costruita la mediazione costituzionale novecentesca e a una produzione sempre più eterogenea, il welfare assicurativo di matrice fordista si dimostra inadeguato a garantire le protezioni sociali necessarie a un numero sempre più ampio di soggetti. Si assiste, contemporaneamente, all’emersione di nuove forme di lavoro cooperativo – nell’ambito della cosiddetta sharing economy – che coniugano l’ampia inclusività dell’accesso e della gestione con una proprietà privatistica ed escludente, che ha favorito una rimodulazione delle dinamiche di accumulazione capitalista. Che ruolo può avere il reddito di base in questo quadro? Preso singolarmente, può esso costituire una risposta all’insicurezza sociale, ponendo le basi, al contempo, per una nuova idea di cittadinanza inclusiva e plurale? 

G. Vertova: 
Anche in questo caso, prima di rispondere, mi sento obbligata a fare delle precisazioni, in quanto la domanda sottende un’analisi che non condivido: si chiede se il RdB, preso singolarmente, può costituire una risposta all’insicurezza sociale in un contesto dove la soggettività “lavorista” è declinante e il welfare assicurativo di matrice fordista inadeguato. L’idea di un declino della soggettività lavorista, tipica del periodo fordista e individuata nel lavoratore maschio, eterosessuale, in catena di montaggio, è propria di una lettura dello sviluppo capitalistico a stadi, dove ogni stadio è caratterizzato da una figura centrale di riferimento. Così come si sarebbe passati dal capitalismo concorrenziale dell’Ottocento a quello oligopolistico/monopolistico del Novecento (anche se andrebbe qualificato: primo Novecento negli USA e secondo Novecento in Europa), per giungere al capitalismo cognitivo odierno; allo stesso modo l’operaio di mestiere avrebbe lasciato spazio all’operaio massa e, infine, all’operaio sociale, e poi al lavoratore cognitivo, o, secondo altri, al lavoro autonomo di seconda generazione9, flessibile e precario. Tutto ciò sarebbe causato dalle trasformazioni del lavoro: da un lavoro prevalentemente manuale produttore di beni materiali a uno cognitivo produttore di beni immateriali. Indicatori di questo passaggio sarebbero le statistiche sull’occupazione che mostrano una riduzione dell’occupazione nel settore manifatturiero (deindustrializzazione) e un aumento in quello dei servizi (terziarizzazione). Oltretutto questa terziarizzazione sarebbe portatrice di lavori intellettuali, tecnologici, cognitivi, altamente qualificati, svolti dai knowledge workers (lavoratori della conoscenza), figura centrale del capitalismo cognitivo10.

Questa analisi mi convince poco. In un’ottica marxiana, la visione a stadi dello sviluppo capitalistico implica una meccanica successione temporale tra l’estrazione del plusvalore assoluto (sussunzione formale) a quella del plusvalore relativo (sussunzione reale), che, appunto, porterebbe a individuare un tendenza (e quindi un soggetto sociale di riferimento), rispetto alla quale le altre forme di lavoro sono considerate residuali11. Ammessa ma non concessa la correttezza di questa analisi, vale la pena ricordare che sarebbe valida solo per un francobollo del pianeta, cioè per le aree economicamente e tecnologicamente più avanzate. Peccato che i restanti nove decimi del pianeta siano composti da lavoratori salariati e, spesso, coatti, che subiscono una estorsione di plusvalore assoluto senza precedenti, permettendo lo sviluppo del terziario dei paesi avanzati. Sarebbe, quindi, forse, più opportuno interrogarsi sulla relazione tra i diversi tipi di sfruttamento, sulle modalità con cui quantità enormi di plusvalore assoluto, prodotte nei paesi arretrati, sorreggano produzioni iper-tecnologiche e terziarizzazione qui da noi. Andrebbe anche ricordato che anche qui da noi, come negli altri paesi avanzati, l’estrazione di plusvalore assoluto si interseca con l’estrazione di plusvalore relativo. Inoltre solo una lettura superficiale dei dati statistici può portare a pensare che l’aumento di occupazione nei servizi sia il risultato di un aumento dei lavori intellettuali e tecnologicamente avanzati. La terziarizzazione dei paesi avanzati non si nutre solo di lavori altamente qualificati: i servizi spaziano dal progettatore di pagine web all’addetto alle pulizie. Anche nel terziario esistono lavori a bassa qualifica e a basso salario. Infine, la ricerca spasmodica di un soggetto sociale, centrale e rappresentativo della fase attuale, sostituisce vuote astrazioni all’inchiesta concreta. Il mondo del lavoro è sempre eterogeneo: lo era ai tempi di Marx e lo è oggi, anche se in grado maggiore. Va da sé che ogni rivoluzione tecnologica crea nuovi prodotti, nuovi processi di produzione, nuovi mestieri, nuove modalità di estrazione del lavoro vivo, aumentando così la differenziazione della composizione di classe: ieri la ferrovia spiazzava la diligenza, oggi le email la posta cartacea12. Tuttavia, ridurre forzatamente all’unità un mondo plurale nega, alla base, l’esigenza della riunificazione tra soggetti del lavoro differenti e con pari dignità. In ogni fase del capitalismo, il centro della valorizzazione e dell’accumulazione è il lavoratore produttivo di plusvalore: il lavoratore eterodiretto capitalisticamente comandato, “materiale” o “immateriale” che sia il lavoro erogato. Non si tratta di una figura tecnologicamente o concretamente definita, che abbia a che vedere soltanto con la catena di montaggio o con il contratto giuridico di lavoro salariato tra acquirente e venditore della forza-lavoro (che comunque rimane prevalente): può essere lavoratore comandato dal capitale e produttivo di plusvalore tanto l’operaio di Melfi quanto l’operatore di call center, quanto i lavoratori soggetti a una subordinazione ibrida al capitale non nella forma del contratto di lavoro salariato. Invece di cercare, ossessivamente, di individuare una figura centrale inesistente, sarebbe più utile indagare l’intersezione tra le “nuove” e le “vecchie” modalità di sfruttamento di una classe lavoratrice molto più eterogenea che in passato.

Fatte queste precisazioni, arrivo alla risposta: non credo che, preso singolarmente, il RdB possa fornire una risposta all’insicurezza sociale. Una premessa è qui necessaria. Non capisco perché il RdB venga proposto sempre in contrapposizione ad altre rivendicazioni: si propone il RdB come risposta all’insicurezza sociale, mantenendo inalterate tutte le altre componenti del sistema che concorrono a creare tale insicurezza. L’insicurezza sociale non si risolve solo con una trasferimento monetario, come è il RdB, ma soprattutto con condizioni lavorative più sane e con un welfare in beni/servizi veramente universale e funzionante. Ridurre l’insicurezza sociale a una questione meramente monetaria cancella un po’ di problemi. Prima di tutto, l’annosa questione del livello di questo ipotetico RdB: se incompatibile o compatibile (come da me definiti nella risposta al quesito 1). Quasi tutti i paesi avanzati che prevedono una tale misura distribuiscono un RdB compatibile (quindi una mera integrazione al salario), che non elimina l’insicurezza sociale; la mitiga e la rende, forse, più sopportabile nel breve periodo. Questo perché l’insicurezza sociale non è solo una questione monetaria. Si ragiona come se il RdB da solo dia accesso ai beni/servizi e alla scelta del lavoro. Ma è chi comanda finanza e domanda autonoma che definisce livello e composizione della produzione, consumo reale, quantità e qualità del lavoro.

L’insicurezza sociale è creata da un mercato del lavoro precario, dove la forza-lavoro è costantemente sotto coercizione, perché la vera funzione dalla precarizzazione è quella di stabilire un permanente potere di ricatto che rende poco contestabile il comando del capitale dentro il processo di valorizzazione. Così sono peggiorate tutte le condizioni di lavoro, non solamente il salario. Faccio un esempio: si ipotizzi che un lavoratore precario riceva un RdB a integrazione del suo salario e che il suo rapporto di lavoro sia del tipo jobs on call. Questo lavoratore dovrà vivere 24 ore al giorno a disposizione di chi lo chiama per lavorare, senza potersi permettere di rifiutare alcuna chiamata (perché oggi arriva, domani chissà), senza poter quindi contestare le condizioni lavorative, pur ricevendo un RdB. Non mi sembra un’idea brillante. Inoltre, l’insicurezza sociale è creata dalla mancanza di un vero welfare (in beni/servizi), universale e funzionante, e dalla sua costante privatizzazione. Faccio un esempio paradossale a scopo di chiarimento: ipotizziamo che l’Italia sia in grado di distribuire anche un RdB incompatibile, ma che, allo stesso tempo tutto il welfare in beni/servizi venga privatizzato. Quanto RdB dovremmo distribuire affinché una persona possa pagarsi la sanità privata, tutto il ciclo di istruzione privato, l’utilizzo di strade o treni privati, dell’illuminazione, etc. affinché possa vivere senza insicurezza? Un welfare di beni/servizi completamente privatizzato si adegua, ovviamente, alle leggi di mercato con prezzi decisi delle imprese private. E quando i prezzi aumentano? Basterà il RdB per garantirne l’acquisto?

Personalmente ritengo la proposta del RdB accettabile solamente se inserita in un quadro più ampio. Prima di tutto, andrebbero discusse la messa al lavoro, il contenuto del lavoro, il “cosa, come, quanto e per chi si produce”, accompagnando la discussione con proposte di riduzione della giornata lavorativa e di aumenti salariali. Inoltre, andrebbe rivendicata la cancellazione di tutta legislazione che ha introdotto precarietà e flessibilità, e delle riforme pensionistiche che hanno allungato la vita lavorativa riducendo, contemporaneamente, le pensioni. Infine, ma non meno importante, andrebbe ripensato tutto il sistema del welfare (sia i trasferimenti monetari, all’interno dei quale si colloca il RdB, che l’offerta di beni/servizi), rendendolo veramente universale e gratuito (penso, per esempio, alla sanità, all’istruzione, a una mobilità sostenibile, al diritto all’abitazione, a tutti i servizi sociali che hanno una connotazione di genere, etc.), accompagnandolo a una revisione del sistema fiscale, per renderlo più equo e più progressivo, combattendo veramente elusione ed evasione. Queste proposte eviterebbero fasulle contrapposizioni tra “redditisti”, da un lato, e “lavoristi” e “salarialisti” dall’altro, e permetterebbero l’apertura di un vero dibattito sulle condizioni di lavoro e di vita oggi.

Quesito 3.
Il declino della sovranitànazionale, negli ultimi anni, è andato di pari passo con una verticalizzazione della governance, a livello europeo. Il paradigma dell’austerity, dettato dalla troika a trazione tedesca, si è tradotto nella norma fondamentale di governo, fino a deformare le costituzioni nazionali e a incidere sulle politiche nazionali dei paesi “colpevoli” e “incapaci” in quanto indebitati. Possono ancora le proposte di reddito di base fondarsi sul piano nazionale? Oppure, di fronte a una governance trans-nazionale sempre più verticistica e violenta, è necessario assumere lo spazio europeo come terreno costituente? In questo scenario, evidentemente complesso, come si trasforma il ruolo delle soggettività politiche all’interno dei singoli stati? 

G. Vertova:
Anche in questo caso, prima di rispondere, sono obbligata ad alcune precisazioni: si parla di declino della sovranità nazionale, verticalizzazione della governance, paradigma dell’austerità. Innanzitutto, il dibattito teorico sul declino della sovranità nazionale, che equivale a parlare del ruolo dello statonazione e della globalizzazione, è vasto e presenta posizioni molto contrastanti13. I due estremi sono rappresentati dai “globalisti”, convinti che le multinazionali e la finanza senza frontiere abbiano eroso la possibilità dello stato-nazione di incidere sul sistema economico; e dagli “scettici”, persuasi che lo stato-nazione possa ancora svolgere un ruolo nel sistema economico. Tra  questi due estremi ci sono una miriade di posizioni intermedie. Personalmente ritengo che lo stato-nazione svolga ancora un ruolo importante, ma diverso rispetto a quello svolto nel periodo cosiddetto fordista. Certo, oggi lo statonazione ha un controllo meno esclusivo sui processi economici e sociali che si dipanano nel territorio nazionale, ma questo non vuol dire che non sia un attore cruciale nell’economia internazionalizzata. Da stato-nazione di stampo keynesiano, teso al raggiungimento di un compromesso tra capitale e lavoro, alla piena occupazione e alla creazione di un welfare per tutelare le classi sociali più deboli, si è giunti allo stato-nazione di tipo neoliberista, preoccupato della competitività della “azienda-paese”. Le politiche economiche sono motivate dalla impellente necessità di far sopravvivere o prosperare le imprese nazionali nel grande gioco del capitalismo globale, indipendentemente dai costi sociali ed ecologici. Vale la pena sottolineare che, come giustamente esplicita la domanda, la questione della sovranità nazionale è tipicamente europea. Nulla di simile è accaduto negli Stati Uniti (come si potrebbe sostenere il contrario, quando la macchina da guerra statunitense si mette regolarmente in moto per difendere gli interessi delle multinazionali statunitensi del petrolio?); né in Giappone o nel Regno Unito (paesi che detengono ancora lo strumento della politica monetaria); tanto meno nella Cina emergente (dove la sovranità nazionale è detenuta militarescamente dal Partito). Anche sulla questione della governance a livello europeo bisognerebbe fare alcune qualificazioni. La verticalizzazione più forte è stata quella relativa alla politica monetaria con la creazione della Banca Centrale Europea, unica istituzione formalmente sovranazionale14. Ma sarebbe un errore credere che l’assetto politico e istituzionale europeo sia sovra-nazionale. Al contrario, è un luogo di scontro dei fortissimi interessi dei singoli capitalismi nazionali, nel quale, ovviamente, vince lo stato-nazione con più potere (oggi, la Germania). Il potere legislativo ed esecutivo sono detenuti da istituzioni15 ancora definite su basi nazionali e, spessissimo, sono gli interessi nazionali a determinare la promulgazione di regolamenti, direttive, raccomandazioni, pareri e altro. Infine, va detto chiaramente che oggi il paradigma dell’austerità non è un vincolo economico, ma politico, come ieri lo erano il Trattato di Maastricht e il Patto di Stabilità: un alibi per poter imporre “con le mani legate” quelle politiche di classe che sarebbero state comunque portate avanti16. Sono stati i capitali nazionali, e gli Stati, a volere questa delega di potere per ragioni attinenti ai rapporti di classe.

Fatte queste precisazioni, la mia risposta è: certo che no. Tuttavia, non solamente il RdB; anche le rivendicazioni del mondo del lavoro e quelle sul welfare dovrebbero essere portate a livello europeo. Si eviterebbe così la creazione di una spaccatura geografica delle condizioni di vita e di lavoro della classe lavoratrice. Quel “pacchetto” di politiche economiche, che ho indicato nella risposta al quesito 2, dovrebbe essere rivendicato su base europea, con l’obiettivo di unificare una classe lavoratrice, oggi, frammentata dal capitale e dall’intervento politico. La geografia economica di ispirazione marxista17 insegna che lo spazio rappresenta un valore d’uso nel processo di accumulazione. Il capitale “usa” lo spazio in tutti i suoi processi. Il processo di produzione strettamente inteso (il momento della creazione del plusvalore) necessita di una organizzazione spaziale della società: capitale e lavoro devono “incontrarsi” in qualche luogo per dar vita al processo di produzione. Successivamente, il processo di circolazione necessita di infrastrutture funzionali alla circolazioni delle merci (per esempio, il sistema dei trasporti, le comunicazioni reali e virtuali, etc.). Infine, anche il processo di riproduzione della forza-lavoro è spazialmente determinato, attraverso la creazione di infrastrutture sociali (per esempio, gli ospedali, le scuole, etc.). Tutti questi processi richiedono una struttura territoriale coerente, funzionale al processo di accumulazione capitalistica. Tuttavia, il capitale non basta. L’intervento politico è fondamentale per la creazione e il mantenimento della struttura territoriale. In questo modo, il capitale e l’intervento politico sono in grado di creare una gerarchizzazione dei luoghi, dei territori, dei paesi, che determina condizioni di lavoro e di vita, che variano a secondo delle loro specificità.

E, mentre il capitale si sposta su scala globale, le rivendicazioni “di classe” si incartano su scala locale. In Italia a quasi tutte le legittime rivendicazioni dei movimenti dal basso manca un collante politico e/o sindacale che riesca a spostarle almeno sul piano nazionale, se non, meglio, europeo. Addirittura alcune di esse si pongono in una ottica meramente localista: la moneta locale; o RdB regionale concesso solo ad alcune categorie di persone (precari, etc.). Il neoliberismo e la crisi odierna sono grandi sfide per la classe lavoratrice che, al momento, sembrano essere vinte dalla classe avversa18. Bisognerebbe quindi domandarsi quanto l’incapacità di creare movimenti sociali e politici transnazionali, a livello almeno europeo, non abbia contribuito a questa vittoria. Così come precedentemente tale incapacità non abbia contribuito alla creazione di questa integrazione europea, che tutto è tranne che amica dei lavoratori e delle lavoratrici. Il capitale è sempre stato molto bravo nel divide et impera: nel neoliberismo, le differenziazioni territoriali (locali, regionali o nazionali che siano) sono un’arma in più.

Quesito 4.
Nella sua forma “classica”, o fordista, il welfare aveva stabilito una particolare relazione con il sistema produttivo: quest’ultimo fungeva da elemento centrale (creazione diretta e distribuzione primaria di ricchezza) mentre il primo agiva da ente periferico (azione ridistribuita finalizzata alla tutela individuale e collettiva in caso di fallimento del progetto economico). A sua volta il sistema produttivo si basava sulla centralità del salario in quanto istituzione-chiave della mediazione sociale, cioè sul lavoro subordinato come architrave dell’accesso alla cittadinanza e sulla piena occupazione come obiettivo di fondo della politica economica. Crediamo sia importante sottolineare come l’elasticità, la forza centripeta dell’istituzione-salario richiedesse alcune condizioni per risultare funzionale, una delle quali è la divisione sessuale del lavoro – denunciata in modo convincente dall’economia politica femminista – e quindi da un lato l’invisibilizzazione del lavoro domestico femminile e dall’altro il disciplinarmente del lavoratore salariato maschio. Coma ha ben messo in luce Silvia Federici (1972), la lotta per il salario al lavoro domestico aveva un duplice obiettivo: in primo luogo mostrare la rilevanza del lavoro femminile extra-salariale per la valorizzazione capitalistica, cioè renderlo visibile, denaturalizzarlo. In secondo luogo salarizzare il lavoro domestico significava scardinare irrimediabilmente il sistema delle compatibilità capitalistiche. In una situazione, come quella attuale, in cui il lavoro di riproduzione (femminile e non) si sovrappone sempre più al lavoro produttivo classicamente inteso, è possibile pensare al reddito di base come risposta all’internalizzazione della variabile di genere nella valorizzazione capitalistica? Se sì, si tratta della conquista di un grado di libertà superiore in un processo ormai irreversibile, oppure di una nuova modalità, ancor piùintensa, di sfruttamento? 

G. Vertova:
Un paio di qualificazioni sulla domanda sono, anche in questo caso, necessarie, visto l’impianto teorico sotteso. Si parla della “centralità del salario” come “architrave dell’accesso alla cittadinanza”, termine molto vago  che può indicare tante cose diverse. Mi permetto, quindi, un paio di osservazioni. L’accesso alla cittadinanza è stata prima di tutto garantita dal diritto di voto universale per uomini e donne, che nulla aveva a che fare con la condizione lavorativa (ricordando, ovviamente, la pesante questione di genere19). Anche il Sistema Sanitario Nazionale, istituito nel 1978, è parte centrale dell’accesso alla cittadinanza; così come lo è stata l’istruzione pubblica. Non parlerei quindi di “accesso alla cittadinanza”, garantito dal lavoro salariato, ma di accesso al welfare assicurativo, che era, effettivamente, concesso sulla base della condizione lavorativa.

La domanda prosegue sulla questione di genere, sottolineando come la divisione sessuale del lavoro fosse una condizione necessaria per la centralità del lavoro salariato. Mi sembra che questa analisi sia un po’ troppo sbrigativa. È vero che il processo di accumulazione capitalistico degli anni cosiddetti fordisti si basava generalmente su una forza-lavoro maschile, con una forte divisione sessuale del lavoro (“l’uomo in fabbrica, la donna a casa”). È, tuttavia, altrettanto vero che uno dei punti di forza del capitale è quello di sapere utilizzare al meglio forza-lavoro necessaria per specifici processi di produzione: uomini giovani e forti per la catena di montaggio; donne giovani e piacenti in quei lavori dove l’esteriorità è una valore d’uso non indifferente (ricordo, comunque, che oggi come allora ci sono donne che lavorano in catena di montaggio). Quindi, la divisione sessuale del lavoro non era allora, come non lo è oggi, solo il risultato del processo di accumulazione capitalistico; ma anche del patriarcato. Era socialmente accettato il male breadwinner family model (modello del maschio capofamiglia che porta a casa la paga): era considerato “naturale” che il lavoro domestico venisse svolto dalla donne e che gli uomini dovessero lavorare per mantenere la famiglia.

Infine, ma forse più importante per le implicazioni con il RdB, la domanda ripropone il dibattito sul salario al lavoro domestico, sottolineando come questa proposta avesse due obiettivi: (i) de-naturalizzare e rendere visibile il lavoro per la riproduzione sociale; (ii) scardinare il sistema delle compatibilità capitalistiche. Per amore di verità, andrebbe ricordato che se nel femminismo degli anni Settanta c’era grande convergenza sul primo punto, non altrettanto si può dire sul secondo. Per sommi capi le argomentazioni delle femministe critiche20 erano: (i) il lavoro domestico non rappresenta un “modo di produzione” marxianamente inteso e, quindi, (ii) non è produttore di valore e non risponde alla teoria del valore; (iii) nella “produzione domestica” i rapporti sociali sono, sì, asimmetrici e basati su relazioni di potere (il patriarcato), ma non sono assimilabili ai rapporti capitalistici di produzione (che si basano su relazioni di potere legate alla collocazione sociale nel processo di produzione). Per tutti questi motivi, le femministe critiche ritenevano che la proposta avrebbe rappresentato l’accettazione della status quo della divisione sessuale del lavoro domestico, rimborsandolo con un salario. Visto che la maggior parte del lavoro domestico era svolto dalle donne, implicitamente si accettava che le donne avrebbero continuato a fare le “casalinghe”. Inoltre, poiché il dibattito femminista aveva anche ampiamente dimostrato che la diversa partecipazione di uomini e donne al mercato del lavoro era inficiata proprio dal lavoro domestico e dalle responsabilità familiare, accettare lo status quo nella divisione sessuale del lavoro riproduttivo implicava l’accettazione dello status quo anche nella divisione sessuale del lavoro produttivo: le donne avrebbero continuato a svolgere il lavoro domestico, retribuito ora da un salario, tale lavoro avrebbe fortemente condizionato loro partecipazione al lavoro produttivo, mantenendo la lavoratrice in condizioni di maggiore debolezza rispetto al lavoratore.

Per venire ora alla domanda, ho bisogno di fare una precisazione. È vero che il lavoro di riproduzione si sovrappone sempre più al lavoro produttivo, ma il RdB viene proposto a tutti, su base individuale e incondizionatamente (almeno questo dovrebbe essere il senso della proposta). Quindi, come ho già sostenuto nella riposta alla domanda 1, il RdB congela la situazione esistente, poiché non contesta l’uso della forza-lavoro all’interno del sistema di produzione. La stessa critica si può applicare a quella parte di lavoro domestico non inglobato dal mercato. Un RdB per internalizzare la variabile di genere, senza aprire una discussione sulla divisione di genere del lavoro domestico, non farà altro che cristallizzare l’esistente. Si creerà, anche in questo caso, un compromesso malsano: le donne che svolgono il lavoro domestico non pagato ricevono il RdB, all’interno di una struttura sociale che non mette mai a tema questa divisione di genere del lavoro riproduttivo. Inoltre, il congelamento della divisione di genere del lavoro di riproduzione implica, necessariamente, quello della divisione di genere nel lavoro produttivo, poiché, ieri come oggi, la partecipazione delle donne al mercato del lavoro produttivo è fortemente condizionata dalle responsabilità familiari. Ciò si traduce nell’accettazione delle disparità di genere che esistono, ancora oggi, nel mercato del lavoro21: una segregazione occupazionale orizzontale (le lavoratrici si concentrano in certi tipi di lavori, secondo lo stereotipo di genere per il quale esistono “lavori da donna” e “lavori da uomini”) e verticale (le lavoratrici fanno fatica ad accedere alle posizioni apicali); una disuguaglianza contrattuale pesante (se è vero che i contratti precari sono, oggi, abbastanza equamente distribuiti tra uomini e donne, non si può dire lo stesso del lavoro part-time, contratto che le donne spesso “subiscono”, visto l’alta percentuale di part-time involontario tra le lavoratrici); una disuguaglianza retributiva (il cosiddetto gender pay gap) che non verrebbe superato da un RdB uguale per tutti e tutte; e, come risultato delle precedenti, una disuguaglianza pensionistica (le lavoratrici ricevono pensioni minori rispetto ai lavoratori anche per via della loro maggiore discontinuità nel mondo del lavoro spesso causata dal lavoro di riproduzione). Un RdB come risposta alla “questione di genere” dimostra ancora più chiaramente come questa proposta, presa singolarmente, non faccia altro che mantenere lo status quo.

Quesito 5.
Nella domanda precedente abbiamo accennato all’invisibilizzazione del lavoro domestico femminile come condizione dell’elasticità per così dire onnivora dell’istituzione-salario. Una seconda condizione è la noncontabilizzazione della variabile ecologica nell’analisi economica. Infatti, a differenza dei fattori della produzione (capitale e lavoro), l’ambiente naturale è stato pensato in termini di simultanea gratuità e inesauribilità, finendo ai margini della riflessione sulle politiche di welfare – almeno fino agli anni Ottanta. Claus Offe (1997) ha mostrato come come il nesso produttivista tra sicurezza sociale e sviluppo economico – cementato dal duplice obiettivo della crescita continua e della piena occupazione – non solo implichi un impatto dirompente sull’ambiente naturale ma freni fortemente politiche volte alla protezione ambientale in quanto inclini a privilegiare la preservazione delle risorse rispetto alla crescita. In una situazione, come quella attuale, in cui la lotta al cambiamento climatico e al deterioramento ecologico in generale non può essere ulteriormente procrastinata, è possibile pensare al reddito di base come liberazione dal dogma della crescita e come architrave di un welfare post-produttivista? 

G. Vertova:
Non stupisce che, anche in questo caso, prima di rispondere alla domanda, voglia fare alcune precisazione sul discorso sottinteso. Si sostiene che, durante il periodo cosiddetto fordista, il nesso produttivista tra sicurezza sociale e sviluppo economico, cementato dal duplice obiettivo della crescita continua e della piena occupazione, abbia portato ad accantonare le preoccupazioni per la questione ambientale.

Prima di tutto, a livello teorico, Keynes ha dimostrato che, quando le componenti private del capitalismo (investimenti delle imprese e consumi delle famiglie) non erano sufficienti per riassorbire la disoccupazione, doveva intervenire direttamente lo stato con spesa pubblica (sino a spingersi a una “socializzazione degli investimenti”) e creazione di posti di lavoro (che Minsky, sulla scorta del New Deal, avrebbe voluto addirittura diretta, da occupazione di ultima istanza), per garantire piena occupazione e crescita economica. Il discorso cruciale, semmai, avrebbe dovuto essere che tipo di spesa pubblica. Tendenzialmente, nei paesi europei, la teorizzazione keynesiana si è tradotta politicamente nella creazione di posti di lavoro pubblici con finalità sociali (welfare state): produzione di valori d’uso per la collettività piuttosto che di valore per il capitale. Negli Stati Uniti, invece, lo stesso impianto teorico si è tradotto nel cosiddetto “keynesismo militare”. In secondo luogo, la storia di quegli anni non può essere riassunta, semplicisticamente, dal nesso produttivismo versus ambientalismo. Molte battaglie del movimento operaio degli anni ’60 e ’70, iniziate all’interno della fabbrica, sulle condizioni di lavoro, non si concentravano solo ed esclusivamente su questioni salariali, ma anche sulla questione della salute nel luogo di lavoro, in una ottica, diremmo oggi, ambientalista. Inoltre, quando queste rivendicazioni sono state portate fuori dalla fabbrica, hanno contribuito a mettere in discussione la distruzione ambientale, tipica della produzione capitalistica22.

Fatte queste precisazioni, mi sembra difficile che il RdB, preso singolarmente, possa risolvere la questione ambientale. Come ho già spiegato nella risposta alla domanda 1, quantità e qualità della produzione è decisa dal capitale, e il RdB non le mette in discussione: al di là delle buone intenzioni, si cancella la discussione sul “cosa, come e quanto produrre” per rifugiarsi nel consumo. Si accettano le produzioni ecologicamente insostenibili, rimandando alla volontà e/o coscienza dei consumatori, relativamente più ricchi in quanto percettori del RdB, la scelta di acquistare merci ecologicamente sostenibili. Cosa peraltro fattibile se e solo se il capitale decide di produrre queste merci. Da questo punto di vista, la proposta keynesiana della socializzazione degli investimenti unita alla preoccupazione ambientalista di creare valori d’uso a basso impatto ambientale mi sembra decisamente più valida, soprattutto se coniugata con la riduzione dell’orario di lavoro e una messa in discussione della composizione della spesa pubblica. Quello che serve, quindi, è anche un cambiamento del modello di sviluppo, non solo una libertà nel consumo.

Inoltre, la liberazione dal dogma della crescita è un obiettivo che pone non pochi problemi. Il RdB come risposta al dogma della crescita può funzionare se e solo se il livello di tale reddito permette effettivamente di vivere senza lavorare (quello che ho chiamato incompatibile nella risposta alla domanda 1. Rimando, quindi, ai problemi che ho già sollevato). Il lavoratore può rifiutarsi di vendere la propria forza-lavoro per vivere (o sottrarsi dal vederla per le produzioni ecologicamente incompatibili) e tali produzioni cessano. Ovviamente, ragionando su scala nazionale, ma anche su quella europea, tutto ciò non impedisce al capitale di continuare a produrre merci ecologicamente insostenibili, con la forza-lavoro di paesi dove il RdB non è una possibilità, e di venderle in quei mercati dove i consumatori non hanno la presunta libertà di scelta che darebbe il RdB. Nel caso, invece, di un RdB compatibile, il dogma della crescita non entra nemmeno in discussione. Esiste sempre la necessità di vendere la propria forza-lavoro per vivere e, quindi, la qualità e quantità dell’occupazione e della produzione è decisa dal capitale. Non si esce, pertanto, dal nesso crescita economica-occupazione. Personalmente ritengo che il vero problema non sia quello della crescita illimitata, ma di mettere in questione il modello di crescita odierno, ecologicamente incompatibile.

Note

1 Rimando al dibattito sul il manifesto nell’estate del 2006, aperto con il mio articolo “Le tante trappole del reddito garantito” (4 giugno 2006) e chiuso da un mio articolo “Reddito e salario: si parte dal lavoro e dal conflitto” (15 agosto 2006). Per una elaborazione più esaustiva, rimando al mio articolo “Nuovo capitalismo e frammentazione del lavoro”, pubblicato in Essere Comunisti, anno II, n. 6 (marzo-aprile), 2008.
2 Fonte: www.basicincome.org/basic-income.
3 Si vedano le Note di contesto in: E. Leonardi – G. Pisani, Materiali preparatori. Note di contesto e Questionario, in questo stesso numero di Etica & Politica.
4 L’interpretazione operaista, poi degenerata in quella post-operaista, ha fatto un feticcio del “frammento sulle macchine” nei Grundrisse di Marx. Non solo ne è stata tratta una filosofia a disegno della storia (dalla sussunzione formale a quella reale), ma la si è poi degradata a sequenza di figure sociologiche del mondo del lavoro (operaio di mestiere, operaio massa, operaio sociale, lavoratore cognitivo cosiddetto immateriale, immediatamente “produttivo”, perno del cognitariato, e così via). Il tutto all’insegna di notevoli confusioni concettuali e interpretative. Il brano di Marx è non poco problematico: si presenta come una troppo facile teoria del crollo quando lo stadio delle macchine evolve nel primato del general intellect, a causa della riduzione del tempo di lavoro diretto contenuto nelle merci che ne consegue. Ne Il Capitale Marx stesso chiarirà che la riduzione del tempo di lavoro individuale non è affatto in contrasto con l’aumento del tempo di lavoro totale; il quale è anzi sistematicamente spinto dalla lotta di concorrenza dei molti capitali e della simbiotica espansione dell’estrazione di plusvalore assoluto e di quello relativo. Come spesso capita, l’errore di ieri, che aveva una sua grandezza, si riproduce ai nostri giorni in forme degenerate e impoverite. Nel discorso post-operaista di oggi, dove si proclama spesso l’esaurimento del valore-lavoro, si fa grande confusione tra, da un lato, la produttività di valore d’uso, di ricchezza (cui certo contribuisce il general intellect, e che è però appannaggio del capitale che include in sé il lavoro concreto) e, dall’altro, la produttività di valore e di denaro (che resta funzione esclusiva del lavoro astratto, il lavoro vivo eterodiretto dal capitale). E si afferma l’esaurimento del lavoro salariato, quando esso ancora si espande su scala planetaria. Si pretende che la cooperazione sociale del lavoro sia un parto autonomo che “attualisticamente” muoverebbe il capitale, e non, invece, l’esito della forma determinata  dell’inclusione del lavoro dentro il capitale. Si confonde l’attività di produzione e di consumo: se è vero che il consumatore oggi partecipa più che in passato alla definizione del valore d’uso sociale della merce (la figura del prosumer), ciò non ha nulla a che vedere con una generica produttività della “vita” in quanto tale, tesi che ha raggiunto vette di involontaria comicità. E si potrebbe proseguire. Su tutto ciò si vedano le condivisibili critiche di Riccardo Bellofiore e Massimiliano Tomba in due loro scritti a quattro mani: la postfazione al bel volume di Steve Wright, L’assalto al cielo. Per una storia dell’operaismo (Edizioni Alegre, Roma 2008); e il capitolo “The “Fragment on the Machines” and the Grundrisse. The Workerist Reading in Question, nel volume Beyond Marx. Theorising the Global Labour Relations in the TwentyFirst Century, a cura di Marcel van der Linden e Karl Heinz Roth (Brill, Chicago 2014, pp. 345-367).
5 La Speenhamland Law viene analizzata da Polanyi ne La grande trasformazione (Einaudi, Torino 1984, capitolo settimo): essa introduce un sistema di sussidi da aggiungere ai salari, in relazione al prezzo del pane. Polanyi sostiene che questo sistema: “introduceva una innovazione sociale ed economica come quella del «diritto al vivere»”. E prosegue: “Nessuna misura fu mai più universalmente popolare. I genitori venivano liberati dal peso economico dei loro figli e i figli non erano più dipendenti dai genitori; i datori di lavoro potevano ridurre i salari a volontà e i lavoratori erano al sicuro dalla fame sia che lavorassero sia che non lavorassero” (sottolineature mie). Più avanti, prosegue: “Alla lunga il risultato fu agghiacciante. […] Poco a poco la gente della campagna fu immiserita”.
6 Per una storia del neoliberismo in un’ottica di classe, si veda: D. Harvey, Breve storia del neoliberismo, Il Saggiatore, Milano 2007.
7 I paesi che hanno una misura di RdB incompatibile si contano sulle dita di una mano monca. Per quanto ne so, l’Alaska.
8 Per una critica al workfare, si veda: Unsocial Europe. Social Protection of Flexploitation?, di Anne Gray, Pluto Press, 2004.
9 Cfr. S. Bologna e A. Fumagalli (a cura di), Il lavoro autonomo di seconda generazione: scenari del postfordismo in Italia, Feltrinelli, Milano 1997.
10 Cfr. C. Vercellone (a cura di), Capitalismo cognitivo. Conoscenza e finanza nell’epoca postfordista, Manifestolibri, Roma 2006.
11 Rimando alla nota 2.
12 Per una analisi di lungo periodo delle rivoluzioni tecnologiche, si veda: C. Freeman e F. Louça, As Time Goes By: From the Industrial Revolutions to the Information Revolutions, Oxford University Press, 2001.
13 Si veda P. Hirst e G. Thompson, Globalization in Questions, Polity Press, London 1996 (trad. it. La globalizzazione dell’economia, Editori Riuniti, Roma 1997).
14 Augusto Graziani, commentando lo Statuto della BCE, aveva messo in dubbio la sua indipendenza dai governi nazionali. A questo proposito, si veda il suo articolo: The Euro: an Italian perspective, in “International Review of Applied Economics”, 16(1), 2002.
15 I parlamentari europei sono votati su base nazionale; il Consiglio è formato dai Ministri dei governi degli stati membri, competenti per la materia in discussione; i membri della Commissione vengono nominati dal Parlamento, con una preoccupazione informale che più o meno tutti gli stati membri siano rappresentati.
16 A questo proposito si veda R. Bellofiore, La crisi globale, l’Europa, l’euro, la Sinistra, Asterios Editore, Trieste 2012.
17 Cfr. D. Harvey, The Limits to Capital, Blackwell Publisher, Oxford 1982.
18 Cfr. L. Gallino, Lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, Roma-Bari 2012.
19 Il suffragio universale maschile è stato introdotto nel 1918. Le cittadine dovranno aspettare il 1945.
20 Cfr. S. Himmelweit e S. Mouhn, Domestic labour and capital, in pubblicato sul “Cambridge Journal of Economics”, 1977, vol. 1, pp. 15-31
21 Si veda il mio capitolo “Il mercato del lavoro in un’ottica di genere”, in La costruzione del genere: norme e regole, a cura di Barbara Pezzini, Sestante Edizioni/Bergamo University Press, 2012.
22 Cfr. D. Sacchetto e G. Sbrogió (a cura di), Quando il potere è operaio. Autonomia e soggettività politica a Porto Marghera (1960-1980), Manifestolibri, Roma 2009.


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