domenica 29 gennaio 2017

Il ruolo del progresso tecnologico in un sistema di produzione capitalistico*- Francesco Piccioni

* Da:  Automazione e disoccupazione tecnologica  http://contropiano.org/   (Relazione di Francesco Piccioni al Forum “il piano inclinato degli imperialismi”, organizzato dalla Rete dei Comunisti a Bologna il 7 marzo 2015)
I primi tre articoli: http://contropiano.org/documenti/2017/01/15/automazione-disoccupazione-tecnologica-divario- 


I cento anni più veloci della Storia

A 100 anni quasi esatti dall’Imperialismo di Lenin un aggiornamento, anche a livello delle categorie, appare necessario, ma decisamente non facile. Lo chiede la realtà che abbiamo di fronte, che riesce sempre più difficile descrivere nei soliti modi. Bisogna ricordare, infatti, che la dialettica materialistica non è per nulla una particolare griglia di lettura da sovrapporre ai dati empirici, ma è interna alla cosa stessa. Va insomma riconosciuta nel suo tratto fondamentale per cogliere ciò che – nella trasformazione continua – resta stabile e ciò che invece svanisce. Vale il paragone con le leggi che regolano la fisiologia umana: sono in linea generale decisamente stabili, ma cambia molto – soprattutto nella pratica quotidiana – se l’organismo si trova più vicino alla nascita oppure alla morte.

Al tempo de L’imperialismo erano passati appena trenta anni dalla morte di Marx, caratterizzati dalla stagnazione e poi dalla crisi della prima globalizzazione, e già Lenin individuava – sulla scia di altri studi contemporanei – una forma capitalistica decisamente “nuova”, tale da cambiare molti parametri decisivi per la lotta di classe e                                                                                                                           soprattutto per la lotta politica rivoluzionaria.

Difficile pensare che i 100 anni più veloci della storia dell’umanità siano trascorsi senza effetti tali da dover essere riconosciuti anche su piano teorico. Eppure i marxismi del ‘900 sono stati particolarmente immobili su questo fronte – sostanzialmente fermi alle dinamiche descritte dal primo libro de Il Capitale e inchiodati alla necessità di giustificare teoricamente le scelte tattiche dei diversi partiti comunisti – lasciando alla fin fine il compito dell’innovazione ad avventurieri del pensiero, eretici di assai diversa onorabilità, pezzenti a caccia di abiti rubati.

Ma da quale punto di osservazione si deve procedere?

Si parte sempre dal ricordare, giustamente, che imperialismo è una fase di sviluppo del capitalismo, e non ha nulla a che vedere con l’“aggressività militare”delle potenze capitalistiche (anche se, certamente, contribuisce a “eccitarla”, specie in periodi di crisi come l’attuale). Questo significa che una fase è a sua volta fatta di passaggi, di transizioni, in cui emergono sul proscenio figure del capitale che prima esistevano solo come potenzialità interna, mentre configurazioni che sembravano perenni decadono lasciando il posto alle successive.

Rispetto ad allora abbiamo di fronte almeno due differenziazioni forti. La prima, evidente già da quaranta anni, è la ridotta forza degli Stati davanti a conglomerati imprenditoriali di dimensioni globali. Anche gli Stati Uniti, per dire lo Stato apparentemente più forte, intrattengono un rapporto ambivalente con le multinazionali “basate” o originarie di quel paese; ed è difficile dire fin dove “lo Stato” imponga le sue regole (per esempio: fiscali) e fin dove invece subisca le “pressioni” delle multinazionali, o meglio fin dove ne assecondi i desiderata. La stessa Unione Europea, di là della retorica, appare come una costruzione funzionale a fare dell’area una “riserva di caccia” dei capitali più forti, con notevoli ambizioni nella competizione globale.

Molti paesi, invece, la quasi totalità, non possiedono più strumenti con cui “normalizzare” l’operare di gruppi industriali o finanziari che arrivano, chiedono, investono e disinvestono a proprio totale arbitrio. Basterà ricordare che uno solo di questi finanzieri globali, George Soros, ha per esempio ammesso di aver sborsato cinque miliardi per il golpe in Ucraina. Ed è stata una cifra sufficiente a raggiungere il risultato.

La seconda differenza è ancora più evidente, ma non molto inquadrata a livello teorico – se non per apodittiche “svolte epocali” sempre fumose e molto malleabili – per quanto riguarda l’impatto che ha lo sviluppo tecnologico sul piano concreto, ovvero su come la tecnologia incide sulla situazione materiale, sui profitti, sulla composizione e l’autopercezione delle classi (e soprattutto del lavoro dipendente), sulla dimensione delle figure sociali che ne risultano, sulla dinamica stessa del conflitto di classe. Eppure bastano poche notizie spot per cogliere la portata di un rovesciamento – questo sì “epocale” – di prospettiva.

Non è semplice addentrarsi nell’analisi globale di questa dinamica, poiché i dati sono spesso dispersi o aggregati su base nazionale oppure ancora per singoli settori; comunque a distanza temporale considerevole dall’inizio dei processi. Le note che seguono sono dunque alquanto “impressionistiche”, con poche cifre. Ma mi sembrano sufficienti ad aprire un filone di ricerca senza il quale è difficile procedere alla costruzione di un blocco sociale adeguato alla visione e alla dimensione dell’avversario.

Sul piano della tecnologia produttiva, appunto, 100 anni fa Henry Ford aveva da pochissimo (1908) ingegnerizzato la sua prima catena di montaggio, rendendo finalmente tangibile per tutti il concetto marxiano di «sussunzione del lavoro al capitale». Era il lavoro manuale, l’unico serializzabile ai tempi, quando le concentrazioni umane con a disposizione energia elettrica e caldaie a vapore erano alquanto rare sul pianeta, la rivoluzione industriale fondata sul petrolio metteva appena le sue basi, la produzione di beni durevoli di consumo per un pubblico di massa era limitata a ben poca roba, ancora grande era il ruolo della produzione artigianale, delle “cose fatte a mano”.

Ford aveva però messo a punto il concetto fondamentale del capitalismo novecentesco, nonché il meccanismo produttivo capace di renderlo realtà quotidiana “normale”: produrre merci che potevano essere acquistate dall’operaio che le produceva. Non solo per il rapporto tra prezzo e quantità di reddito, ma anche come rafforzamento del legame reciproco tra impresa e classe operaia all’interno di un determinato territorio chiamato nazione. Lo sviluppo tecnologico era dunque strettamente legato all’immagine di un paese particolare, era un suo elemento propulsivo, il collante di una popolazione, la giustificazione delle sue pretese egemoniche.

L’immagine delle prime catene “fordiste” è però rimasta nella storia, per esempio del cinema, anche per altre ragioni: esse introducevano per la prima volta la possibilità di dare al processo di produzione un ritmo totalmente inumano, tale da distruggere fisicamente la forza lavoro degli uomini messi alla catena. Diventavano esempi di dove poteva arrivare lo sfruttamento capitalistico, andavano a costituire pezzi d’immaginario anticapitalista, ma erano tutto sommato indicativi di settori particolari, di “pezzi di mondo” da cui si poteva restar lontani oppure in cui tentare di infilarsi per scatenare conflitto. Il “fuori” da quei mondi era comunque infinitamente più grande. Quasi confortevole.

Oggi abbiamo – già da alcuni anni, peraltro – catene di montaggio che prescindono quasi completamente dal lavoro umano, ridotto a mera funzione di controllo a monte e a valle, o di eventuali blocchi e guasti. Proprio nel settore automobilistico – merce-pivot dello sviluppo industriale del ‘900 – questo sviluppo appare quasi una precondizione perché i produttori possano “competere”. Come spiegava Sergio Marchionne nel 2009, ancora prima di adottare il modello Pomigliano, “il costo del lavoro rappresenta ormai il 5-6% dei costi industriali”. Come dire che non incideva già quasi per nulla sul fatturato, che comprimerlo era in fondo questione marginale. Come si è visto, ciò non significava escludere che si potessero adottare strategie industriali miranti a ridurlo ancora, magari solo per ottenere una manodopera più “addomesticata”.

Diciamo che oggi si può produrre un numero infinitamente superiore di automobili, ma gli operai necessari sono infinitamente meno. Il limite assoluto di questa tendenza – produrre merci senza operai, destinate a un pubblico generico e senza alcuna connotazione, né sociale né nazionale, anonimo – è già realtà in alcuni segmenti della filiera produttiva (nel caso dell’automobile: in carrozzeria, verniciatura, presse). Il legame circolare produttore-lavoratore-consumatore è definitivamente rotto con riferimento a un territorio comunque esteso.

Girano molte immagini, ormai, di queste catene di montaggio totalmente automatizzate (INSERIRE foto della Kia Motors di Zelina, in Slovacchia). Ma forse è ancora più indicativa la dichiarazione fatta nello scorso ottobre dal capo del personale della Volkswagen, Horst Neumann: «Nei prossimi 15 anni andranno in pensione 32mila persone; non verranno rimpiazzate». Un robot fa lo stesso lavoro, con maggiore precisione, a velocità superiore, non si stanca, non protesta, non sciopera. Al massimo si rompe, ma questo accade assai più spesso all’essere umano. Soprattutto costa meno. «Nell’industria automobilistica tedesca il costo del lavoro è superiore ai 40 euro all’ora, nell’Europa dell’est sono 11, in Cina 10», scrive Neumann. «Oggi il costo di un sostituto meccanico per lavori di routine in fabbrica si aggira intorno ai cinque euro. E con la nuova generazione di robot diventerà presumibilmente ancora più economico. Dobbiamo essere in grado di sfruttare questo vantaggio economico».

Altro esempio: alla Elektronikwerke Siemens di Amberg, in Boemia, le catene di montaggio scorrono all’interno di teche di vetro, al riparo da polvere e altri “accidenti” fortuiti, per stampare centraline di controllo utilizzate poi per guidare altri processi produttivi automatizzati, compreso quello della stessa Elektronikwerke. Dalle linee escono 50.000 pezzi al giorno, 12 milioni l’anno, grazie a pochissimi lavoratori in camice, quasi tutti ingegneri, che lavorano usando AutoCad al computer. Le centraline, infatti, possono essere personalizzate sulle necessità del cliente e sul tipo di processo produttivo, agendo su un numero non infinito di parametri già previsti e programmati. E va tenuto nel debito conto il fatto che questi milioni di pezzi sono il cuore del controllo automatico su altrettante linee di montaggio, impacchettamento, trasporto. L’indice di errore, con questo tipo di linea produttiva, è stato ridotto da 500 a 11 casi per milione di operazioni. Il lavoro umano è qui ristretto alle funzioni di progettazione e controllo, oppure amministrazione e marketing.

I tecnici elettronici di 50 anni fa, nello stesso tipo di fabbriche, maneggiavano transistor delle dimensioni di un ragno, ne saldavano le “zampe” a circuiti stampati dal disegno visibile ed elementare. Oggi se ne stampano alcune decine di milioni su chip delle dimensioni di un centimetro o anche meno. A ogni salto in avanti dimensionale – di transistor per millimetro – basta cambiare la macchina.

Potremmo andare avanti a lungo, ma questi casi bastano a tracciare le linee fondamentali: il “vantaggio economico” spinge l’automazione dei processi produttivi, l’aumento della capacità di output quotidiana, l’eliminazione di lavoro umano. Si possono produrre miliardi di pezzi di qualsiasi tipo con poco o nulla personale. Ma la riduzione generalizzata e universale del personale riduce al contempo anche la massa dei candidati acquirenti di quelle merci. È inutile però chiedere conto al singolo imprenditore di questa contraddizione sistemica: per lui “il mercato” sono tutti gli altri fuori dalla sua linea produttiva. È insomma un presupposto dato, non il risultato di una evoluzione che dipende anche da lui. È il punto di vista del singolo capitale, non del capitale.

Il limite teorico si vede già qui: si possono produrre merci senza la forza lavoro umana, ma le merci vanno vendute su un mercato fatto di esseri umani.

Henry Ford aveva risolto il problema di standardizzare la prestazione lavorativa individuale su una media dettata dalla velocità della macchina (quasi mai tirata oltre il limite costituito dalla fragilità della forza lavoro umana, peraltro).

Il passo avanti epocale è stato fatto: l’uomo non serve più in molte fasi della produzione fisica e ora anche intellettuale. E’ ancora indispensabile, invece, ma in misura proporzionalmente sempre più ridotta, per tutte le fasi a monte (progettazione, ingegnerizzazione, scrittura di un software dedicato, ecc) e a valle (stoccaggio, packaging, distribuzione, vendita, manutenzione, pubblicità). La velocità del ciclo produttivo, al tempo del just in time, risente quasi soltanto dei tempi tecnici di lavorazione semiautomatizzata di merci fisiche. Pesano di più, insomma, i saliscendi della domanda, i tempi e le modalità di trasporto, che non i limiti fisiologici dell’essere umano (compresa la sua residua capacità conflittuale).

Dal punto di vista marxiano non si nota alcuna grande novità teorica: è la funzione del progresso tecnologico, ovvero dell’aumento esponenziale e inarrestabile della composizione organica del capitaleL’investimento viene speso in proporzione sempre maggiore in direzione del capitale costante (macchine, energia, materie prime e componenti semilavorati), sempre meno per assumere lavoratori dipendenti (capitale variabile, asintoticamente tendente a zero).

Si noti anche la conseguenza di questo processo sull’estrazione di plusvalore per unità di prodotto: l’industria più avanzata ne estrae sempre meno dai propri dipendenti, e il saggio del profitto cala in modo pauroso. Solo lo scambio sui mercati – tra merci prodotte da un capitale ad alta composizione organica e altri prodotti con modalità tecnologiche più arretrate – fa sì che il plusvalore complessivo estratto venga ripartito in modo squilibrato e asimmetrico anche tra capitalisti, premiando le filiere produttive più efficienti, veloci, massive, anche se meno produttive di plusvalore per unità di prodotto. L’esempio del rapporto tra la Germania attuale i paesi dell’Unione Europea definiti Piigs dovrebbe essere sufficiente.

Si noti, infine, anche la conseguenza occupazionale: sempre meno lavoratori dipendenti dalle grandi imprese in proporzione al capitale investito e al profitto ricavato.

Quel che cambia, dunque, non è la formulazione astratta, ma il fatto che oggi ci troviamo non all’inizio del suo operare nella realtà, ma molto più vicini al punto limite; oltre l’eliminazione della forza lavoro umana, infatti, c’è solo la “semplificazione” interna al sistema della macchine, ma a quel punto la formula della composizione organica dà sempre lo stesso risultato, visto che dal lato del capitale variabile c’è sempre uno zero o una cifra tendente a zero.

Non tutti i processi lavorativi sono automatizzabili, certamente, e quindi la forza lavoro umana sarà ancora ampiamente usata in molti settori “ancillari” rispetto alla produzione di merci. Ma quelli che non lo sono – a parte le operazioni “creative”, sul piano scientifico o artistico – spesso sono anche economicamente non serializzabili (quasi tutto il settore della ricezione turistica, la sanità, ecc).

Ciò che va tenuto d’occhio e indagato è dunque la dimensione su cui questi concetti si esercitano. E, ricordiamo sempre, dal punto di vista della dialettica materialistica la quantità si trasforma in qualità, e viceversa. Non è insomma vero che, se passiamo da cento casi a dieci miliardi, “praticamente non cambia niente”. Se ti si avvicina un cane randagio gli lanci un pezzo di pane e quello scodinzola contento. Se se ne avvicinano cinquanta, è meglio che tu abbia un albero robusto su cui arrampicarti…

Informatica, comunicazione, automazione

Questa è insomma l’origine della “disoccupazione tecnologica”, una costante del procedere del capitale che generò a suo tempo addirittura una corrente di pensiero operaio (il luddismo). Ma sappiamo anche che il modo di produzione capitalistico ha più che compensato – nel corso dell’ultimo secolo – questa relativa minor occupazione nella grande industria sviluppando altri settori produttivi a getto continuo. La “seconda rivoluzione industriale”, che ha sancito il passaggio a un’economia trainata fondamentalmente dal petrolio anziché dal carbone (a far data da Henry Ford, grosso modo), oltre che dalla chimica e dall’elettricità, ha cancellato milioni di posti di lavoro, creandone però un numero enormemente più alto man mano che il modo di produzione capitalistico conquistava nuove aree. Lo stesso è accaduto con la meccanizzazione dell’agricoltura, a far data dal secondo dopoguerra, che ha spinto o sta finendo di spingere miliardi di esseri umani verso le città e altre occupazioni, spesso meno faticose e in media meglio pagate.

I problemi veri sono iniziati con la terza rivoluzione industriale, incentrata su comunicazioni e informatica.

Quest’ultima ha aperto la via alla rapida sussunzione del lavoro intellettuale da parte delle macchine. Il che ha bruciato anche la possibilità di creare nuovi lavori, perlomeno in una dimensione sufficiente a coprire almeno le “perdite”.

Riassumiamo brevemente modalità e diffusione di questa sussunzione:

a) il lavoro intellettuale umano è scomponibile essenzialmente secondo due modalità principali: 1) l’applicazione di procedure già elaborate, grosso modo secondo lo schema dei processi deduttivi, per l’affrontamento di problemi già noti e risolti e 2) la risoluzione di problemi nuovi o irrisolti, con l’obiettivo di formulare nuove procedure operative, secondo lo schema dei processi induttivi.

b) la stragrande maggioranza del lavoro intellettuale umano, ovvero nella stragrande maggioranza degli esseri umani e comunque nella quasi totalità delle operazioni intellettuali quotidiane, è dedicata all’apprendimento o applicazione di procedure già note (dal campo tecnologico a quello amministrativo); un’area immensa che si estende man mano che il progresso scientifico (compresa ovviamente la “scienza dell’organizzazione”) risolve nuovi problemi o elabora soluzioni migliori di quelle già note.

c) la totalità delle operazioni di applicazione di procedure può essere ridotta ad algoritmi di qualsiasi complessità in base a tre sole operazioni logichesequenza, iterazione, selezione; in altri termini a istruzioni basate su un ordine successivo di operazioni (sequenza), ripetute fino al raggiungimento di un obiettivo x (iterazione), con scelte predeterminate delle strade da prendere in presenza di certe condizioni (“se… allora…”).

d) la scrittura di algoritmi basati su queste tre operazioni costituisce tutto il lavoro dell’informatica.

e) ogni attività seriale – sia di tipo classicamente industriale, sia nel lavoro una volta detto “di concetto” (impiegatizio, amministrativo, ecc) è stata negli ultimi 30 anni riscritta dalle applicazioni informatiche; e il processo non è affatto concluso (si pensi a quante decine di milioni di dipendenti pubblici potranno essere sostituiti in tutto il mondo una volta che l’informatizzazione delle pubbliche amministrazioni sarà effettivamente completata, con la messa al lavoro di una (frazione minima di) generazione “nativa digitale”, senza dunque problemi di adattamento a modalità di lavoro del tutto informatizzate.

f) ogni attività lavorativa, dunque, ha visto drasticamente ridotta la quantità di lavoro umano per unità di prodotto, incrementando quindi i livelli di disoccupazione per ragioni tecnologiche.

Altrettanto centrale è stato lo sviluppo delle tecnologie della comunicazione, strettamente interconnessa peraltro con lo sviluppo informatico per quanto riguarda l’evoluzione dell’automazione. Questo sviluppo è andato in almeno due direzioni fondamentali, con corollari interessanti:

a) centralizzazione e secretazione delle tecnologie top di gamma e delle modalità stesse con cui vengono sviluppate. Per un lato, si tratta di una evoluzione “normale” nella storia del capitalismo, visto che la dimensione minima degli investimenti nel settore cresce in modo esponenziale di anno in anno (non sembra un caso – ad esempio – che gli unici sfidanti credibili per i big della telefonia mobile, Apple e Samsung, siano aziende cinesi come Xiaomi e Huawei, mentre ex primedonne come Nokia e Motorola hanno perso persino la visibilità del marchio, assorbite rispettivamente da due software house come Microsoft e Google). Per quanto riguarda invece la secretazione, non si tratta soltanto della normale “difesa dei brevetti dallo spionaggio industriale”, ma di una vera e propria sottrazione militare delle conoscenze fondamentali alla disponibilità persino delle università. Per capirci, sempre più spesso docenti universitari in materie tecnologicamente rilevanti, di frontiera, sperimentali, ecc, vengono “sussunti” dal Pentagono (negli Usa) e da organismi equivalenti in altri paesi.

b) la diffusione universale dei device e dei linguaggi relativi ha creato una palesemente falsa percezione di “autonomia e padroneggiamento” delle tecnologie proprio quando invece si è stati ridotti sotto controllo totale, 24 ore su 24, sia nei contenuti delle nostre comunicazioni che negli spostamenti, fino al nostro stesso modo di ragionare.

In una parola: quanto più gli strumenti tecnologici sono il risultato prodotto da un investimento scientifico e finanziario di alto profilo, tanto meno “la massa” conosce i principi di funzionamento di ciò che usa. E quindi ne viene usata. Ancora una volta possiamo far venire in soccorso l’esempio automobilistico. Cinquant’anni fa un qualsiasi guidatore possedeva anche un minimo di conoscenze meccaniche utili a trarlo d’impaccio in caso di problemi; oggi siamo a un passo dall’“auto che si guida da sola”, monitorata (controllata) per via di gps, centraline e sensori, col passeggero – non più guidatore, a quel punto – che in caso di panne può solo chiamare il soccorso. Anzi, neanche quello.

Il circuito interrotto

La tendenza alla sostituzione di lavoro umano con le macchine non è mai stata affatto in contraddizione con il dato empirico per cui gli addetti all’industria aumentavano. Localmente si potevano verificare crisi occupazionali anche gravissime, mentre si metteva in moto il passaggio da una modalità produttiva all’altra o la delocalizzazione da un territorio all’altro; ma nel complesso del “mercato globale” l’occupazione andava aumentando. Nell’arco dell’ultimo trentennio (dagli anni ‘80 all’inizio della crisi finanziaria attuale) gli “attivi nell’industria” sono praticamente triplicati (da 200 a 600 milioni circa). Una esplosione occupazionale “specificamente capitalistica” che è stata resa possibile solo da un cataclisma geopolitico – il crollo del “socialismo reale” – e quindi dalla messa a disposizione di quasi due miliardi di esseri umani da tempo sottratti all’analfabetismo, quindi “ri-occupabili” in tempi brevi, anche per funzioni produttive medio-elevate (e fin lì non contabilizzati tra le “forze di lavoro” per conto del capitale). In parte fenomeno reale, dunque, che ha prodotto un’esplosione nell’estrazione di plusvalore assoluto e relativo, in parte “fenomeno statistico”, perché una buona parte di questi neoindustrial workers erano già addetti alla produzione, ma in un altro sistema andato distrutto come per effetto di una guerra vera e propria. La distruzione creatrice ha quindi fatto rinviare di un trentennio la resa dei conti tra il capitale e i suoi limiti interni e, per la prima volta nella storia, anche esterni.

Una curiosità “culturale”: mentre avveniva questa epocale trasformazione di centinaia di milioni di contadini o “operai socialisti” in operai industriali nel capitalismo, qualcuno – qui da noi – teneva banco parlando di scomparsa della classe operaia, interpretando la diminuzione relativa alle nostre latitudini (dovuta in gran parte alla delocalizzazione verso aree “emergenti”) come fenomeno universale.
Sono gli stessi che hanno capito al contrario la rivoluzione informatica inventando la presunta centralità del “lavoro cognitivo” proprio mentre questo veniva meccanizzato, frantumato, in definitiva “sussunto” per tutta la sua componente non creativa.

Si potrebbe ironizzare sull’abbaglio perenne di questi teorizzatori del mantra “il capitale lavora per noi, lasciamolo fare”, se non ci toccasse constatare quanto abbiano contribuito a lobotomizzare le capacità e le energie cognitive dei movimenti antagonisti degli ultimi trenta anni, praticamente uccidendoli nella culla ogni qual volta ne appariva al proscenio uno nuovo.

Più di trent’anni dopo, il combinato disposto tra informatizzazione e comunicazione non conosce soste e supporta la spinta alla più completa automazione della produzione, sia materiale che virtuale o presuntamente “immateriale”. Ma sta disegnando un nuovo confine. Quello tra quantità di forza lavoro presente in settori che diventano tecnologicamente superati e quantità di forza lavoro occupabile in nuovi settori.

Difficile dare cifre globali, converrà concentrarsi su singoli studi che illustrano la dinamica in un ambiente tutto sommato ristretto, come un paese avanzato e non avviato alla decadenza. Un recentissimo report, relativo alla sola Gran Bretagna, è stato prodotto dall’università di Oxford e dalla società Deloitte (http://www2.deloitte.com/uk/en/pages/press-releases/articles/deloitte-one-third-of-jobs-in-the-uk-at-risk-from-automation.html ) per dare al governo inglese scenari attendibili sul “fabbisogno formativo” nei prossimi venti anni.

La Gran Bretagna è un paese relativamente fortunato, sul piano occupazionale, visto che – con una popolazione complessiva pressoché identica a quella italiana – può vantare 30 milioni di occupati contro i meno di 22 milioni e mezzo del nostro paese. La previsione dello studio è abbastanza semplice: per effetto dell’aumento dell’automazione in generale, nei prossimi venti anni oltre 10 milioni di persone (35% degli attivi) vedrà svanire il suo tipo di occupazione. Soltanto il 40% delle attuali occupazioni è considerato a basso rischio (il 51% a Londra, per effetto della più grande piazza finanziaria d’Europa). In compenso, già ora il 73% delle aziende prevede di aumentare l’organico complessivo, visto che i progressi tecnologici richiedono nuove competenze e grandi cambiamenti nel tipo di lavoro.

La domanda è in fondo semplice: il totale delle nuove assunzioni può eguagliare il totale dei licenziamenti?

Lo studio si preoccupa di indicare quali competenze andranno perdendo utilità (“lavori che richiedono servizi di lavorazione ripetitivi, impiegatizi e di supporto”, ovvero “lavoro d’ufficio e in genere amministrativo; vendite e servizi; trasporto; costruzione ed estrazione mineraria o petrolifera; produzione in genere”). E individua alcune skills del prossimo futuro, in modo da facilitare il governo inglese nella programmazione dei sistemi formativi adeguati: “ruoli che richiedono competenze digitali, gestione e capacità creative”.

Vaghi, eh? Necessariamente, bisogna ammettere, perché nella loro descrizione dei cambiamenti produttivi è prevista una notevole rotazione delle “professionalità” ricoperte nell’arco di una sola vita. Al punto che il tempo indispensabile a formarsene una può essere tanto lungo da veder svanire nel frattempo il settore di applicazione. Un esempio? Inutile apprendere come fabbricare oggetti che presto saranno producibili con stampanti 3D, meglio specializzarsi nella manutenzione delle stampanti stesse.

La domanda che ci punge la lingua è semplice: quanti posti di lavoro sono effettivamente creabili in questi settori "completamente nuovi"? E in quanti anni? Quei dieci milioni di persone che nei prossimi dieci-venti anni perderanno il lavoro (solo in Gran Bretagna, alcune centinaia di milioni nel pianeta), dunque la possibilità di sopravvivere in un mondo competitivo e senza disponibilità di disporre autonomamente di mezzi di produzione, che fine faranno? Sono certamente persone di scarsa specializzazione, oggi anche over-30 o 40, impossibili da "reinventare" come "creativi" dell’informazione o della finanza. Che fine faranno i loro figli, che certo non potranno essere mandati nelle università che preparano a quei "mestieri del futuro" (le rette aumentano dappertutto, specie in Gran Bretagna, sollevando proteste e manifestazioni studentesche)?

La disoccupazione tecnologica è qui, e aumenterà a dismisura. I "nuovi lavori" non potranno coprire la disoccupazione crescente per almeno tre motivi sostanziali.

Il salto reso possibile dalla "automazione integrale della produzione" non è neppure paragonabile, per quantità di lavoro umano risparmiato, alla "meccanizzazione dell’agricoltura" (che è fenomeno di questo dopoguerra, non di "due secoli fa"). Le dimensioni della "liberazione dal lavoro" sono perciò di dimensioni colossali. E non ci sembra realistico un futuro fatto di miliardi di informatici, avvocati, artisti, finanzieri, infermieri, ecc. Basta fare un piccolo raffronto storico. Negli Stati Uniti e in qualunque altro paese capitalistico avanzato, per tentare di uscire dalla “Grande Depressione”, negli anni Trenta furono finanziate gigantesche opere infrastrutturali (ferrovie, strade, aeroporti, porti, dighe, ecc). Ogni paese metteva così al lavoro milioni di sterratori dotati di pala e piccone, qualche migliaio di artificieri muniti di esplosivo per aprirsi la strada nelle o sotto le montagne, ecc. Oggi le stesse operazioni si possono fare con qualche “talpa”, alcune decine di macchine per il movimento terra, un po’ di ingegneri… Al massimo qualche migliaio di persone. Anche la ricetta keynesiana (“scavare buche per riempire buche”) non può più funzionare.

La seconda ragione è più immediata. Se anche questa "sostituzione" fosse realistica sui tempi medio-lunghi, in ogni caso gli addetti ai "vecchi mestieri" – che nonsono affatto, in genere, anche "lavoratori anziani" – non saranno riciclabili nei nuovi. E l’arco della vita umana è indubbiamente più lungo dei tempi di applicazione della tecnologia alla produzione.

Di più. Non si vedono all’orizzonte nuovi settori produttivi in grado di assorbire – com’era avvenuto nelle precedenti rivoluzioni industriali – l’eccesso di popolazione “liberata” dai settori in via di superamento. Tutto ciò che vi è di sicuramente nuovo – dalle nanotecnologie alle biotecnologie, ecc – è anche disperatamente una produzione di nicchia dal punto di vista occupazionale. Neanche l’informatica sfugge a questa legge. I tempi eroici dei garage nella Silicon Valley sono finiti per sempre; oggi una start up del settore si può occupare al massimo di scrivere app per i sistemi operativi dei colossi, mentre questi vanno concentrandosi in poche unità in grado di monopolizzare o quasi il mercato globale. Pochi addetti, grandi investimenti, altissima preparazione scientifica, grandi ritorni di profitto, scarsa o nulla implementazione in una produzione di massa. Come alla Elektronikwerke Siemens di Amberg, insomma.

La terza ragione è ancora più definitiva: non ci sono più aree significative del pianeta – per estensione territoriale e dimensioni di popolazione – da mettere in produzione per il capitale. Non a caso, la globalizzazione ha da un decennio ceduto il passo alla frammentazione in aree continentali fra cui monta una competizione dagli aspetti inquietanti dalle dinamiche piuttosto “antiche”.

Una quantità crescente di popolazione globale, in ogni caso, si profila come eccedente le necessità produttive e al tempo stesso – e proprio per questo – “consumatore debole”, redditualmente non in grado di assorbire l’offerta di merci. Un esempio concreto può venire dalla situazione creatasi nel mercato immobiliare Usa, nel decennio scorso: grande capacità produttiva, ma domanda solvibile al di sotto della quantità dell’offerta. Per risolvere il blocco, è risaputo, si fece ricorso ai mutui subprime, o ninja (not income, not job or asset), creando un mercato di acquirenti certamente insolventi nel medio periodo. E quindi le premesse del domino di catastrofi finanziarie da cui non si riesce più ad uscire.

Un secondo esempio viene ancora dagli Stati Uniti. È noto che la politica monetaria “espansiva” della Federal Reserve, iniettando migliaia di miliardi di dollari nel circuito finanziario, ha finito per sostenere in qualche misura anche l’occupazione di quel paese, creando un buon numero di nuovi posti di lavoro. Ma se si scende nel dettaglio, disaggregando i dati, si scopre che i “nuovi lavori” sono nella stragrande maggioranza lavori a bassa competenza, basso salario, altamente volatili. Un esercito di commessi, cucinieri, addetti marginali alle strutture sanitarie e/o alberghiere, ecc. Consumatori deboli, appunto, che anche quando hanno un lavoro comprano poco o nulla oltre l’indispensabile, spesso non in grado di acquistare e mantenere un’automobile.

Una quantità abnorme di consumatori deboli diventa molto rapidamente un “costo sociale” che preme sugli istituti assistenziali, pubblici o privati che siano. E sappiamo bene che in tutto l’Occidente – che nel campo dell’assistenza sociale, ai tempi del “modello keynesiano”, aveva raggiunto livelli mai visti nella storia – la spesa pubblica è in via di rapida riduzione proprio per quanto riguarda questo tipo di voci. Ne consegue che non si può neanche pensare a un’espansione dell’occupazione nel settore dei “servizi alla persona”. È lo stesso problema posto dall’invecchiamento della popolazione nei paesi avanzati, con costi crescenti – e ormai messi all’indice nelle politiche economiche stile Troika – che nessuna fiscalità generale può più coprire.

In sintesi:

a) l’occupazione nel settore primario (agricolo) non è implementabile, anzi tende a ridursi (la totalità delle superfici coltivabili è già messa in produzione pressoché per intero e il numero degli addetti, globalmente, è in drastico calo; quelli che restano al lavoro bastano a sfamare l’umanità intera al di là delle sue necessità vitali);

b) il settore industriale sta correndo a tappe forzate verso l’automazione senza che siano emersi comparti “alternativi” capaci di assorbire l’eccesso di manodopera;

c) lo stesso processo – informatizzazione/automazione – mira ad eliminare almeno il 60% del lavoro “intellettuale seriale”, quindi grandi porzioni del terziario più o meno avanzato;

d) il pianeta è tutto sottoposto al modo di produzione capitalistico e non esistono altri “quasi mondi” da inglobare;

e) i bisogni sociali complessivi (dalla messa in sicurezza del territorio alle cure alla persona, dalla difesa dell’ambiente ai trasporti collettivi, ecc.) sono classificati nella voci “costi da ridurre”, in cui le aree di business sono limitate ad una clientela solvibile, in percentuale sul totale, sempre meno estesa oppure a pochi settori che gli stati sono obbligati a dismettere (tipo le utilities, ma anche in questo caso sostituendo il più possibile lavoro vivo con macchine).

Naturalmente stiamo ragionando fin qui all’interno dei parametri capitalistici. La riduzione della quantità di “lavoro necessario” per la riproduzione fa a cazzotti con l’appropriazione privata della ricchezza prodotta perché il risparmio di lavoro reso possibile dall’automazione si traduce in disoccupazione di massa anziché in riduzione dell’orario di lavoro. L’aumento dei bisogni sociali – dalle “cure alla persona” alla semplice sopravvivenza dignitosa, quindi abitazione, reddito contro lavoro, ecc – fa a cazzotti con la considerazione della vita umana come un “costo”.

La prospettiva imperialista è insomma piuttosto chiara: la “liberazione dal lavoro umano” si traduce in sovrapproduzione di capitale variabile, inutilizzabile per la valorizzazione del capitale. L’eliminazione di questa eccedenza, al pari del capitale in generale, diventa una asettica “necessità”, ovvero un sanguinoso “sfoltimento”. E i tempi lunghi su cui potrebbe procedere semplicemente tagliando il welfare (meno pensioni, sanità, ammortizzatori, alloggi, ecc) sembrano decisamente troppo lunghi rispetto alle urgenze poste dalla crisi.

Conclusioni

Ricordando che queste sono soltanto annotazioni “impressionistiche”, da cui far decollare una ricerca vera e propria, si può provare ad abbozzare qualche ipotesi interlocutoria, più che conclusiva.

La prima e più semplice è che anche il progresso tecnologico applicato alla produzione spinge per risolvere con la guerra l’eccesso di capitale (sia il costante che il variabile, così come per il fisso e il circolante) che non riesce a trovare – o produrre – valorizzazione. Sempre ricordando che solo la pluralità di possessori dell’arma atomica ha fin qui impedito che se ne facesse uso (dopo gli “esperimenti intimidatori” di Hiroshima e Nagasaki).

Detta così, sembra quasi una ripetizione di vecchie certezze. Di nuovo c’è, come si è cercato di spiegare, la dimensione della distruzione di capitale “necessaria” per far ripartire l’accumulazione. Lo stesso scarto immenso tra investimento in macchinari e quello in dipendenti si ripropone all’inverso al momento del “disinvestimento” distruttivo. Tra le guerre napoleoniche e la seconda guerra mondiale c’è una differenza che sfugge ai paragoni facili. Il prossimo turno di “distruzione creatrice” potrebbe facilmente produrre l’impossibilità di nuova creazione, andando a coincidere col ritorno all’età della pietra; a meno che qualcuno non accetti pacificamente di autodistruggersi (fin qui è avvenuto soltanto una volta: ammainando la bandiera rossa sopra il Cremlino e lasciando campo aperto ad oligarchi e irruzione del capitalismo neoliberista).

La dimensione di queste dinamiche è immensamente superiore a quelle descritte un secolo fa, quando l’imperialismo era tutto sommato richiuso nella sfera d’azione di alcuni Stati nazionali. Oggi ci si misura come minimo su aree continentali, con la complicazione – non solo teorica – di filiere produttive “senza nazione”, non obbedienti dunque al richiamo delle piccole patrie.

Da questo punto di vista, la dinamica onnivora dell’automazione crea un nuovo limite per il capitale stesso, che agisce in modo similare al progressivo esaurimento delle risorse petrolifere e all’esplodere della crisi ambientale (che sono però limiti “esterni”, fisici).

Qui il paragone scientifico è con le leggi che regolano la resistenza meccanica dei materiali. Al crescere delle dimensioni della struttura, pur incrementando nella misura opportuna le dimensioni delle parti portanti, oltre un certo punto si verifica comunque un cedimento.

Ma il dato a prima vista più rilevante è che il livello attuale di automazione della produzione – comunque si passi ad una fase successiva – è ormai irreversibile. Un vero e proprio nuovo standard da cui non si potrà più prescindere. Anzi, un punto di partenza. La contraddizione sarà tra chi detiene e controlla questo livello tecnologico e chi ne è ormai escluso (per dimensione dei capitali, qualità della ricerca, capacità di “fare sistema” tra componenti spesso molto distanti del processo produttivo). Non mancheranno mai, anche dentro sistemi complessivamente arretrati singole isole di eccellenza (l’esempio più noto è la qualità delle facoltà di matematica e fisica in paesi come India e Pakistan). Ma la differenza è data dalla capacità di “fare arcipelago” intorno alle concentrazioni di gruppi multinazionali con base territoriale, ovvero quelle che chiamiamo oggi “aree imperialistiche”.

Se la partecipazione al processo produttivo da parte della forza lavoro umana entra – come pare stia avvenendo – dentro la fase finale, ci sono conseguenze importanti per la soggettività che si propone il superamento del modo di produzione capitalistico. Innanzitutto sul piano della conoscenza e della possibilità della classe di controllare il processo produttivo stesso.

Qualche raffronto sembra necessario. La fabbrica “fordista” – ancora all’inizio degli anni ‘70, per quanto riguarda in particolare l’Italia – era conosciuta e padroneggiata dalla classe operaia, dal pezzo di ferro che entrava nello stabilimento fino al prodotto finale. L’intero ciclo della manifattura avveniva sotto i suoi occhi e poteva senza troppo sforzo immaginarsi capace di sostituire il ruolo del padrone con quello della classe associata, ferma restando naturalmente la necessità di avere dalla propria parte i “quadri tecnici”, dagli ingegneri in giù.

La stessa fabbrica, oggi, è sostanzialmente un luogo sconosciuto nella sua complessità. Vi si assemblano componenti provenienti dai quattro angoli del pianeta e della cui produzione nulla si sa; grosse parti della catena sono automatizzate e quindi materia per gli ingegneri; la classe operaia conosce solo singole parti della produzione, la cui magna pars si realizza prima dell’arrivo al montaggio.

Questo vuol dire che la conoscenza del ciclo è ormai un problema di conoscenza scientifica; un compito che ricade quasi per intero sul soggetto politico della trasformazione e a cui la classe-in-sé può dare un contributo molto più limitato che in passato. In un certo senso è qui la tomba definitiva della “spontaneità rivoluzionaria”. Ed è anche rispetto a quelle figure tecnico-scientifiche-professionali che si pone, per il soggetto della trasformazione, il problema delle “alleanze di classe” (altro che la “piccola borghesia” rovinata dal procedere del progresso tecnologico e/o dalla crisi!). Con la complicazione, rispetto a un secolo fa, quando la Rivoluzione Sovietica stabilì – prima e dopo la conquista del potere – una relazione stretta con l’equivalente di questo tipo di figure (dagli ingegneri agli ambasciatori): il legame con “la nazione” e le retoriche conseguenti sono ora, specie per questo tipo di figure, assai meno forti d’allora.

In terzo luogo, la sovrabbondanza di forza lavoro in cerca di occupazione non implica affatto il crearsi di “moltitudini” indifferenziate al proprio interno, come la notte in cui tutte le vacche sono nere. Ricordavamo prima la pletora di occupazioni in varia misura “ancillari” rispetto alla produzione vera e propria, che costituisce e costituirà comunque una massa di occupati con potere contrattuale debolissimo, commisurato alle “competenze” – necessariamente limitate – richieste. Un esempio? Vi dice nulla lo sterminato numero di programmi tv incentrati sull’arte del cucinare?

La stratificazione sociale metropolitana già ora ci permette di distinguere molte e diverse figure sociali (dai “neet” ai precari di ogni ordine, grado ed età), con un rapporto assai differenziato con la realtà dello sfruttamento salariato, quindi anche con visione del mondo, immaginario, ideologie profondamente differenziate. Una stratificazione che complica terribilmente il compito della “ricomposizione del blocco sociale” e del “blocco storico”, ma che trova – non paradossalmente – proprio nel carattere “lunare” del comando capitalistico un punto unificante di grande forza.


Per ultimo, ma è quasi uno scadere nell’utopia, la concentrazione selvaggia della produzione seriale nelle macchine riapre la vecchia contrapposizione tra progressiva riduzione del “lavoro complessivamente necessario” alla riproduzione della società e intensificazione dello sfruttamento per quella ridotta parte di forza lavoro che viene effettivamente impiegata. Al limite estremo della produzione senza operai diventa visibile per tutti la possibilità della riduzione del tempo di lavoro individuale al minimo necessario. Ma, per l’appunto, questa “evidenza” chiama in causa l’esistenza o meno di una soggettività all’altezza di questa gigantesca opportunità. Inutile spendere parole per dire a che punto si trova, almeno in questa parte del pianeta. 


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