martedì 24 gennaio 2017

Edward Hallett Carr, storia e rivoluzione*- Matthijs Krul

Link all’intervista in inglese Notes & Commentaries

Quella che segue è la trascrizione di un’intervista al celebre storico britannico E. H. Carr come pubblicata dalla New Left Review nel 1978, col titolo “La sinistra oggi”. Carr, uno dei primi seri specialisti della storia russa e sovietica (forse un po’ datato ma ancora utile e leggibile), all’epoca aveva ottantasei anni. Pur non essendo mai stato comunista, egli si identificava chiaramente con la sinistra politica, dedicando gran parte dei suoi sforzi accademici a combattere la storiografia conservatrice e liberale (Whig). Ciò nonostante, per una significativa parte della sua carriera non fu un accademico, lavorando presso il Foreign Office, ed in seguito come vicedirettore del Times, due organi non certo noti per la loro vicinanza alla sinistra. Questo gli consentì di avere una prospettiva ampia e non settaria sugli eventi.

Il discorso di Carr tocca questioni ancor’oggi rilevanti per il comunismo, a dispetto del fatto che l’articolo qui riprodotto abbia ormai più di trent’anni. Per molti versi, esso è rappresentativo della disillusione della sinistra post-stalinista. Disillusione allora talmente profonda in alcuni comunisti, e frutto dello scontro tra la realtà e le loro aspettative, da spingerli a trarre conclusioni opposte e divenire rabbiosi esponenti della destra. Carr, d’altra parte, non seguì tale percorso, conservando una prospettiva più distante e dunque maggiormente obiettiva, nonché meno isterica. Ancor più importante, egli non solo fu in grado di separare il grano dal loglio nell’esperienza comunista, e ciò nonostante l’enorme pressione accademica e politica esercitata contro di lui (persino Orwell lo considerava pericoloso), ma ebbe anche la capacità in età avanzata di analizzare correttamente gli sviluppi politici ricorrendo al metodo di Marx. Meglio di tanti comunisti, in particolare i cosiddetti “eurocomunisti”, esaminò  gli sviluppi nelle relazioni economiche che avevano avuto luogo dopo la morte di Marx e, in particolare, dopo la Seconda guerra mondiale, indicando, inoltre, la sempre più aristocratica e compromessa condizione della classe operaia nelle nazioni più sviluppate, se comparata con quella dei paesi caratterizzati da un’industria, e dunque, un proletariato sottosviluppati. Senza timore di trarre le conclusioni necessarie, diede un forte impulso ad una migliore comprensione storica di tale fenomeno, il quale a posteriori diverrà generalmente accettato come una delle decisive rotture storiche del XX secolo.

La fama di Carr non è legata esclusivamente alla sua eccellente analisi della storia economica sovietica, campo nel quale è stato un pioniere insieme a R. W. Davies, bensì è dovuta in egual misura al suo lavoro storiografico Sei lezioni sulla storia. Un libro generalmente considerato come l’espressione maggiore della scrittura storiografica moderna, una presa di distanza dalla vecchia storia Whig, così come da un certo positivismo sterile e conservatore (à la Namier). In esso viene inaugurata un’epoca in cui il mestiere dello storico, in maniera crescente, è stato visto come un particolare modo di selezionare e disporre gli elementi storici, che si vogliano o meno definire questi ultimi “fatti storici”; e nel fare ciò, ha aperto la strada, sostenendole, a quelle modalità di scrittura storiografica che hanno enfatizzato inediti trattamenti di materiali esistenti e ignorati, allo scopo di condurre alla ribalta segmenti sino ad allora oscuri della storia, quali la storia sociale, quella delle donne, del quotidiano e così via. Il clima generale instaurato dall’ascesa della New Left e dall’influenza del gruppo degli storici vicini al PCGB, particolarmente in Gran Bretagna, ha senz’altro avuto un ruolo. Altro aspetto importante del contributo fornito da Carr alla storiografia, nel libro in questione come in altri, è la sua rivendicazione dell’idea di progresso nella storia, come prerequisito necessario al fine di rendere la disciplina storica un’impresa, in primo luogo, comprensibile ed utile. Il tutto senza invocare il deus ex machina del Geist o concezioni analoghe, cosa di per sé degna di nota, per quanto anche un prodotto della peculiare avversione britannica nei confronti della filosofia della storia. Gran parte di questa intervista e da vedersi sotto questa luce, compresi i riferimenti al lavoro succitato. Poiché è essenziale difendere l’idea di progresso nella storia senza cadere nella trappola del progressismo o idealismo whig, Edward Hallett Carr è stato un grande storico anche solo per quest’unico motivo.


Ormai ha completato la sua “Storia della Russia sovietica”, la quale copre gli anni dal 1917 al 1929 in quattordici volumi, e domina l’intero campo di studi della prima esperienza dell’URSS. A partire da un ampio sguardo retrospettivo, come giudica il significato della Rivoluzione di ottobre – tanto per la Russia, quanto per il resto del mondo?

Iniziamo dal suo significato per la Russia stessa. Non richiede un grande sforzo oggi soffermarsi sulle conseguenze negative della Rivoluzione. Per diversi anni, e sopratutto negli ultimi mesi, esse hanno costituito un tema ossessivo nei libri pubblicati sull’argomento, nei giornali, nella radio e nella televisione. Il pericolo non sarebbe dunque quello di stendere un velo sulle enormi macchie del bilancio della Rivoluzione, sui costi umani e sulle sofferenze, sui crimini commessi in suo nome. Il pericolo, semmai, sarebbe quello di dimenticare tutto, e di passare sotto silenzio le sue immense conquiste. Mi riferisco in parte alla determinazione, all’impegno, all’organizzazione  e al duro lavoro che negli ultimi sessant’anni hanno trasformato la Russia in un grande paese industriale e in una superpotenza. Chi, prima del 1917, avrebbe potuto predire tutto ciò? Ma oltre a questo, mi riferisco alla trasformazione, avvenuta a partire dal 1917, nella vita della gente comune: la trasformazione della Russia da paese nel quale oltre l’ottanta percento della popolazione era composta da analfabeti o semianalfabeti in uno la cui popolazione urbana supera il sessanta percento, oltre ad essere totalmente alfabetizzata e in rapida acquisizione degli elementi della cultura urbana. La maggior parte dei membri di questa nuova società sono nipoti di contadini; alcuni pronipoti di servi. Costoro non possono che essere consapevoli di ciò che la Rivoluzione ha fatto per loro. E queste cose sono state realizzate  rigettando i principali criteri della produzione capitalistica – i profitti e la legge del mercato – sostituendovi un piano economico complessivo volto a promuovere il bene comune. Per quanto molto di quanto realizzato possa essere rimasto al di sotto delle promesse, ciò che è stato fatto in URSS negli ultimi sessant’anni, nonostante le spaventose interruzioni dall’esterno, rappresenta un notevole progresso verso la realizzazione del programma economico del socialismo. Naturalmente, sono consapevole che chiunque parli delle conquiste della rivoluzione può essere bollato come stalinista. Ma non sono disposto a prestarmi a un simile ricatto morale. Dopo tutto, uno storico inglese può lodare i risultati del regno di Enrico VIII senza che ciò implichi tollerare la decapitazione delle mogli.

La sua “Storia” copre il periodo nel quale Stalin ha stabilito il proprio potere autocratico in seno al Partito bolscevico, sconfiggendo ed eliminando le successive opposizioni, gettando le fondamenta di quello che in seguito sarebbe stato definito stalinismo, inteso come sistema politico. Sino a che punto ritiene che la sua vittoria fosse inevitabile nel PCUS? Quali erano i margini di scelta negli anni Venti?

Di solito tendo ad evitare il nodo dell’inevitabilità nella storia, poiché conduce ben presto in un vicolo cieco. Lo storico si pone l’interrogativo del “perché?”, compresa la questione di come mai, tra i diversi percorsi disponibili in un dato momento, uno in particolare sia stato intrapreso. Se vi fossero stati antecedenti diversi, i risultati sarebbero stati differenti. Non nutro molta fiducia nella cosiddetta “storia controfattuale”. Mi viene in mente il proverbio russo che ama citare Alec Nove: “Se la nonna avesse avuto la barba, sarebbe stata nonno”. Riarrangiare il passato per adattarlo alle proprie predilezioni e punti di vista è un’occupazione assai piacevole. Ma, d’altra parte, non sono sicuro sia molto proficua.

Se, tuttavia, mi si chiede di avanzare delle supposizioni, dirò questo. Lenin, se avesse vissuto nel corso degli anni Venti e Trenta nel pieno possesso delle sue facoltà, avrebbe dovuto affrontare gli stessi problemi. Egli era perfettamente consapevole che un’agricoltura meccanizzata su larga scala era la prima condizione di qualsiasi progresso economico. Non credo avrebbe trovato soddisfacente “l’industrializzazione a passo di lumaca” prefigurata da Bucharin. E non credo avrebbe fatto troppe concessioni al mercato (si tenga a mente la sua insistenza sul mantenimento del monopolio del commercio con l’estero). Sapeva che non si andrebbe da nessuna parte in assenza di un qualche effettivo controllo e direzione del lavoro (si tengano presenti le sue osservazioni circa la “direzione individuale” nell’industria e anche a proposito del “taylorismo”). Ma Lenin non solo era stato allevato in una tradizione profondamente umana, ma godeva di enorme prestigio, autorità morale e capacità di persuasione; e simili qualità, assenti negli altri leder, lo avrebbero spinto a minimizzare e mitigare gli elementi di coercizione. Stalin non aveva alcuna autorità morale (in seguito cercò di costruirsela nei modi più crudeli). Non comprendeva altro che la coercizione, e sin dal principio vi ricorse apertamente e brutalmente. Sotto Lenin la transizione non sarebbe stata del tutto liscia, ma non vi sarebbe stato niente di paragonabile a ciò che effettivamente si è verificato. Lenin non avrebbe tollerato la falsificazione dei dati, cosa in cui Stalin indulgeva costantemente. In presenza di fallimenti della politica o della pratica del partito,egli li avrebbe apertamente riconosciuti e ammessi come tali; non avrebbe, come Stalin, esaltato espedienti disperati come brillanti vittorie. L’URSS sotto Lenin non sarebbe mai diventata, nelle parole di Ciliga, il “paese della menzogna”. Queste le mie congetture. Se non altro, esse possono rivelare qualcosa circa le mie convinzioni e il mio punto di vista.

La sua ricostruzione si conclude alla soglia degli anni Trenta, col varo del primo piano quinquennale. La collettivizzazione e le purghe sono dietro l’angolo. Nella prefazione al primo volume lei ha scritto che le fonti sovietiche per gli anni Trenta si rarefacevano al punto che il proseguimento della ricerca, sulla stessa scala, era impossibile. La situazione è ancora la stessa oggi, o in anni recenti sono stati pubblicati più documenti in determinate aree? La scarsità degli archivi l’ha prevenuta dal continuare oltre il 1929?

Da quando ho scritto questa prefazione, nel 1950, molto è stato pubblicato, ma vi sono ancora punti oscuri. R. W. Davies, che ha collaborato al mio ultimo volume economico, sta lavorando sulla storia economica dei primi anni Trenta, e sono convinto produrrà risultati convincenti. Ultimamente mi sono interessato agli affari esterni e al percorso verso i Fronti popolari; anche qui, non parlerei di carenza di materiali. Ma la storia politica in senso stretto è più o meno un libro chiuso. Ovviamente, ci sono state grandi controversie. Ma tra chi? Quali i vincitori, quali gli sconfitti, quali compromessi sono stati raggiunti? Non abbiamo documenti disponibili comparabili ai dibatti relativamente liberi nei congressi di partito degli anni Venti, o le piattaforme delle opposizioni. Una densa nebbia di mistero avvolge ancora episodi come l’omicidio di Kirov, la purga dei generali, o gli accordi segreti tra emissari sovietici e tedeschi che molti ritengono essere occorsi nei tardi anni Trenta. Non avrei potuto proseguire la mia Storia oltre il 1929 con la stessa confidenza.

Gli anni Trenta vengono spesso presentati come uno spartiacque decisivo, o una rottura, nella storia dell’URSS. Le dimensioni della repressione scatenata nelle campagne con la collettivizzazione, e all’interno dello stesso partito e degli apparati di stato col grande terrore – si afferma – hanno qualitativamente alterato la natura del regime sovietico. La razionalità politica delle purghe e dei campi – non ripetutisi nella stessa scala in nessuna delle rivoluzioni socialiste successive – rimane a tutt’oggi oscura. Qual è il suo punto di vista in proposito? Ritiene l’idea di una rottura politica, in particolare dopo il 17° congresso del partito, idea ampiamente diffusa nella stessa Unione Sovietica, valida?

Questo ci introduce alla ben nota questione della “periodizzazione”. Un evento come la Rivoluzione del 1917 è talmente drammatico e travolgente nelle sue conseguenze da imporsi di per sé ad ogni storico come un punto di svolta nella storia, l’inizio o al fine di un periodo. In linea di massima, tuttavia, lo storico deve definire il proprio periodo e, nel processo di organizzazione del materiale, scegliere i suoi “punti di svolta” e “spartiacque”; scelte che riflettono – senza dubbio, spesso inconsciamente – il suo punto di vista, la sua prospettiva circa la sequenza degli eventi. Gli storici della Rivoluzione russa che si occupano, per esempio, del periodo dal 1917 al 1940, si trovano di fronte ad un dilemma. Il regime rivoluzionario che aveva esordito come forza liberatrice, è stato associato, ben prima della fine del periodo detto,con la più spietata repressione. Lo storico dovrebbe affrontarlo come un unico periodo con un continuo processo di sviluppo – e degenerazione? O dovrebbe suddividerlo in periodi di liberazione e repressione, separati d significativi spartiacque?

Gli storici seri che assumono il primo punto di vista (escludo gli autori da guerra fredda che si limitano ad infangare Lenin con i peccati di Stalin) argomenteranno che sia Marx che Lenin (quest’ultimo con grande enfasi) affermano il carattere essenzialmente repressivo dello stato; e nel momento in cui la Repubblica sovietica russa si proclama come stato essa diviene per sua natura strumento di repressione; un elemento gonfiatosi mostruosamente, ma non modificato in linea di principio, dalle pressioni e vicissitudini cui è stato sottoposto successivamente. Lo storico che adotta la prospettiva del doppio periodo sembra avere un argomento più plausibile, sino a quando non deve identificare il suo spartiacque. La transizione alle politiche di repressione di massa andrebbe collocata all’epoca della rivolta di Kronstadt nel marzo 1921 – o forse in quella della sollevazione contadina, nella Russia centrale, l’inverno precedente? O va identificata con la conquista del partito e della macchina statale da parte di Stalin alla metà degli anni Venti, con le campagne contro Trotsky e Zinoviev, e con l’espulsione e l’esilio di decine di leader oppositori nel 1928? O ancora con i primi processi pubblici su larga scala, nei quali gli imputati si dichiaravano colpevoli delle bizzarre accuse di sabotaggio e tradimento, nel 1930 e 1931? I campi di detenzione e il lavoro forzato esistevano ben prima del 1930. Personalmente non sono troppo impressionato da una soluzione che rinvii lo spartiacque sino alla metà degli anni Trenta. Come ho già detto, la scelta dei periodi riflette il punto di vista dello storico. Non posso fare a meno di pensare che una tale carenza di periodizzazione sia stata cucita su misura al fine di spiegare e giustificare la lunga cecità degli intellettuali di sinistra occidentali riguardo il carattere repressivo del regime. Ma anche questo non è sufficiente. Anche quando le grandi purghe e i processi erano in corso, un numero senza precedenti di intellettuali di sinistra affollava i partiti comunisti occidentali.

Il che ci riporta alla seconda parte della nostra domanda iniziale – il significato della Rivoluzione russa per il mondo capitalista.

Mi sia concesso riassumere brevemente. Inizialmente, la Rivoluzione polarizzò la destra e la sinistra nel mondo capitalistico. In Europa centrale, la rivoluzione si profilava all’orizzonte. Persino in questo paese non mancavano posizioni estreme: i comunisti che issavano la bandiera rossa a Glasgow, e Churchill che voleva inviare l’esercito britannico a schiacciare la rivoluzione in Russia. Un numero considerevole, sebbene da nessuna parte la maggioranza, di lavoratori entrarono nei partiti comunisti in Germania, Francia, Italia e Cecoslovacchia. Ma intorno alla metà degli anni Venti il riflusso aveva iniziato a diffondersi – specie fra i lavoratori organizzati. L’Internazionale sindacale rossa non riuscì a minare l’autorità della socialdemocratica Internazionale di Amsterdam, la quale divenne sempre più aspramente anticomunista. Il TUC [Trade Union Congress, n.d.t.] sotto Citrine e Bevine ne seguì a breve l’esempio. i lavoratori dei paesi occidentali non erano più rivoluzionari; essi lottavano per migliorare la propria condizione all’interno del sistema capitalistico, non per rovesciare quest’ultimo. Il “fronte popolare” degli anni Trenta (quantomeno in questo paese) fu prevalentemente una questione di liberali e intellettuali. Dopo il 1945, gli intellettuali -come i lavoratori vent’anni prima – iniziarono ad allontanarsi dalla Rivoluzione. Orwell e Camus sono i nomi più noti. Da allora, il processo è proseguito ad un ritmo crescente. La polarizzazione fra destra e sinistra del 1917 è stata rimpiazzata da quella tra oriente e occidente. La repulsione contro lo stalinismo ha prodotto – in nessun luogo quanto in questo paese – un fronte unito della destra e della sinistra contro l’URSS.

Ma prima di andare oltre, vorrei azzardare due generalizzazioni. Primo, le sorprendenti oscillazioni nelle opinioni sulla Rivoluzione russa nei paesi occidentali, fin dal 1917, vanno spiegate sulla base di ciò che stava accadendo in essi, tanto quanto su quello che si verificava in URSS. Secondo, laddove queste oscillazioni erano frutto delle attività sovietiche, erano relative alle politiche internazionali dell’URSS, e non ai suoi affari interni. È difficile ricostruire lo stato dell’opinione pubblica britannica circa la Rivoluzione russa durante il suo primo anno: avevamo tanto altro a cui pensare. Ma di una cosa sono certo dai miei stessi ricordi. La stragrande maggioranza di coloro che disapprovavano la Rivoluzione erano mossi dall’indignazione, non per le storie sulla comunità dei beni o delle donne, bensì per la dura realtà che i bolscevichi avevano tirato fuori la Russia dalla guerra, abbandonando gli alleati nel loro momento più critico.

Una volta sconfitti i tedeschi tutto cambiò. Emergeva stanchezza rispetto alla guerra, l’intervento in Russia era oggetto di ampia condanna e il clima in Gran Bretagna verso i bolscevichi di simpatia, i quali erano vagamente considerati di “sinistra”, democratici e amanti della pace. Ma vi era ben poca ideologia in tutto ciò: capitalismo contro socialismo non era davvero il problema. Dopo la vittoria di Pirro del primo governo laburista, la marea si ritirò. L’ondata antisovietica del 1924-9 venne favorita in parte da considerazioni di partito (la lettera di Zinoviev era stata un grande collettore di voti), in parte dalla convinzione, non del tutto infondata, che i russi stessero aiutando a minare il prestigio e la prosperità britannici in Cina. Era l’epoca nella quale Eusten Chamberlain pensava che Stalin non fosse male, perché occupato a costruire il socialismo nel suo paese e non, come i molto più nocivi Trotsky e Zinoviev, a fomentare la rivoluzione internazionale.

Tutto questo venne cancellato dalla grande crisi economica del 1930-33 che suscitava preoccupazione in tutto il mondo occidentale. Per la prima volta, una diffusa disillusione riguardo al capitalismo creava un movimento di simpatia per l’URSS. L’opinione pubblica britannica non sapeva niente di ciò che li accadeva. Ma aveva sentito parlare del piano quinquennale, e aveva l’impressione generale che laggiù l’erba fosse più verde. La campagna per il disarmo condotta da Litvinov a Ginevra ebbe grande impatto sul prevalente sentimento pacifista. Tuttavia vi è una riserva da fare. I sindacati contrastarono con successo ogni tentativo d’infiltrazione, e i lavoratori non erano troppo coinvolti. La storia degli anni Trenta è quella di una fuga precipitosa di liberali e intellettuali di sinistra verso il campo sovietico. La sola purga stalinista che ebbe un reale effetto in Gran Bretagna fu quella dei generali. Scoraggiando la fazione antitedesca del Partito conservatore, la quale aveva dato un certo supporto alla campagna sovietica, nella convinzione che l’Armata rossa avrebbe potuto essere un utile strumento contro Hitler. Dubbi incrementati dall’esitazione sovietica a Monaco. L’evento che alla fine distrusse l’intero edificio dall’amicizia britannico-sovietica fu il patto Molotov-Ribbentrop. Persino il Partito comunista di Gran Bretagna, il quale aveva navigato agevolmente attraverso le purghe, venne scosso nelle sue fondamenta dl patto. Si trattò di un colpo dal quale il prestigio sovietico in Inghilterra, malgrado l’entusiasmo del tempo di guerra, non si riprese mai veramente.

Non è necessario andare oltre la guerra. Una minaccia sovietica venne presto identificata e pubblicizzata. Il discorso di Churchill a Fulton sollevò la cortina di ferro. Il primo Sputnik segnò l’emergere di una nuova superpotenza, la quale sfidava i precedente monopolio degli Stati Uniti. Da allora, la crescita del potere militare ed economico sovietico, e l’espandersi della sua influenza in altri continenti, elevò l’URSS al rango di pericolo pubblico numero uno, facendone l’obiettivo di una raffica di propaganda che al momento supera, per intensità, le “guerre fredde” degli anni Venti e Cinquanta. Il che, a grandi linee, è la torbida e intricata storia delle reazioni occidentali alla Rivoluzione russa.

Come valuta l’evoluzione del sistema statale sovietico? In quale misura la vita culturale ed intellettuale nell’URSS può essere comparata, per dire, a quella degli anni Cinquanta e Venti? In occidente, oggi, il fenomeno della dissidenza monopolizza l’attenzione della sinistra. Ritiene sia un prisma adeguato col quale osservare la situazione politica contemporanea in Russia?

Esaminare le condizioni economiche, sociali e culturali dell’URSS odierna va ben oltre gli scopi di quest’intervista, e dovrei davvero attenermi alla questione delle relazione est-ovest. l’attuale prominenza dei dissidenti in tali rapporti è, ovviamente, un sintomo, e non un fattore causale. Tuttavia, costituisce un problema estremamente complesso e imbarazzante per la sinistra dei paesi occidentali. Storicamente, la sinistra, e non la destra, è stata la paladina  delle vittime di regimi oppressivi. I dissidenti nella Russia sovietica e nell’Europa dell’est rientrano nella categoria, e possono giustamente contare sulla simpatia e le proteste organizzate dalla sinistra. Il problema e che la loro causa è stata ripresa in grande stile dalla destra, e quello che è iniziato come movimento umanitario si è trasformato in un’enorme campagna  politica, ispirata da motivazioni assai diverse, con finalità e modalità di conduzione differenti; e poiché la destra possiede la maggior parte della ricchezza e delle risorse, ha l’organizzazione più potente, e controlla in buona parte i media, essa ne determina la strategia e la domina. La sinistra si trova in una posizione gregaria, lottando vanamente per mantenere la propria indipendenza, servendo scopi non suoi, e macchiandosi a causa della fondamentale disonestà della campagna.

Due punti necessitano di essere sottolineati. Il primo e che i diritti umani sono universali, qualcosa che appartiene agli esseri umani in quanto tali, e non ai membri di una particolare nazione. Una grande campagna per i diritti umani risulta inficiata se confinata ad un angolo del mondo. L’Iran è sede di un regime notoriamente repressivo. eppure il presidente Carter, nel pieno della sua campagna per i diritti umani in Russia, ha ricevuto con tutti gli onori lo Shah alla Casa Bianca, e lo stesso Carter e Callaghan [all’epoca primo ministro britannico, n.d.t.] gli hanno inviato gli auguri per il successo nelle trattative coi dissidenti. In cina la Banda dei quattro, e le centinaia e forse migliaia di suoi sostenitori a Shanghai e altre città della Cina, sono semplicemente scomparsi. Non si è tenuto alcun processo, nessun’accusa è stata mossa loro. Che ne è stato di loro – sono ancora vivi? Nessuno lo sa o se ne interessa. Preferiamo non sapere. I diritti umani dei dissidenti cinesi sono oggetto di indifferenza. Tutto ciò è abbastanza comprensibile in una campagna condotta da politici interessati, innanzitutto, non alla protezione dei diritti umani, bensì all’incitazione dell’indignazione popolare  e dell’ostilità contro la Russia sovietica. Ma l’integrità morale della sinistra è compatibile col coinvolgimento in una campagna che sfrutta le motivazioni sinceramente e profondamente radicate di persone rispettabili ma politicamente ingenue, per scopi totalmente estranei agli obiettivi dichiarati?

L’altro punto concerne lo stile e il carattere della campagna. Alcuni giorni fa mi sono imbattuto in una citazione di Macaulay: “Non vi è spettacolo maggiormente ridicolo di quello del popolo britannico in uno dei suoi periodici accessi di moralità”. Temo che quello attuale sia non tanto ridicolo, quanto sinistro e spaventoso. Non si può aprire un giornale senza incappare in questo odio ossessivo, in questa paura della Russia. La persecuzione dei dissidenti, gli armamenti militari e navali della Russia, le spie russe, il marxismo come termine corrente e abusato nelle controversie di partito – tutto ciò contribuisce. Un’esplosione di isteria nazionale in questa scala è  certamente il sintomo di una società malata – una di quelle società che tentano di scaricare la propria condizione, la propria impotenza, le proprie colpe, cercando un capro espiatorio in qualche gruppo esterno – i russi, i neri, gli ebrei e quant’altro. Trovo che tutto ciò posa condurre ad una situazione estremamente allarmante. È consolante pensare che una simile isteria popolare non ha infettato, allo stesso livello, nessun altro paese europeo, e che persino negli Stati Uniti sembrerebbe esserci una reazione contro la diplomazia da pulpito di Carter; dispiace che gran parte della nostra sinistra sia stata inghiottita dalla marea.

Uno degli sviluppi più sorprendenti degli anni Settanta è stato il distacco dei partiti comunisti dell’Europa occidentale dalla loro tradizionale fedeltà rispetto all’URSS. Nel nome dell’eurocomunismo, il partito spagnolo ora parla di USA e URSS come minacce equivalenti per un’Europa socialista, e quello italiano si riferisce benevolmente alla NATO come scudo contro le incursioni sovietiche. Tali prese di posizione sarebbero state impensabili un decennio fa. Qual è il suo punto di vista sulla tendenza che rappresentano? La ricerca di un modello di società socialista distinto dall’URSS, adatto all’occidente più avanzato, giustifica la tonalità antisovietica dell’eurocomunismo?

L’eurocomunismo è sicuramente un movimento nato morto, un disperato tentativo di sfuggire alla realtà. Se si vuole ritornare a Kautsky e denunciare il rinnegato Lenin, bene. Ma perché confondere le acque continuando ad etichettarsi come comunisti? Nella terminologia finora accettata si è socialdemocratici di destra. L’unico asse solido dell’eurocomunismo è l’indipendenza e l’opposizione rispetto al partito russo; da qui si salta facilmente sul carro antisovietico. Il resto della piattaforma è totalmente amorfo, il genere di cosa che nel nostro paese definiamo “Lib-Lab“. Le sue escursioni nella pratica politica ne tradiscono la vacuità. Gli eurocomunisti italiani stanno un po a destra dei socialisti. Quelli francesi stanno in diversi luoghi allo stesso tempo. Quelli spagnoli non stanno da nessuna parte. Gli inglesi sono pressoché invisibili. Si sarebbe potuto fare a meno di questa triste dimostrazione della bancarotta dei partiti comunisti occidentali.

Marx intendeva il socialismo come una società incomparabilmente più libera e produttiva del capitalismo – un’armoniosa ed avanzata associazione di liberi produttori, senza sfruttamento economico e coercizione politica. La transizione ad una simile società in Unione Sovietica, sebbene essa abbia proceduto oltre il capitalismo, rimane lontana dagli obiettivi di Marx o Lenin. Nei ben più ricchi paesi occidentali, il capitalismo deve ancora essere rovesciato, in parte a causa della delusione all’interno della classe lavoratrice riguardo i progressi sinora registrati in URSS. In una situazione che, talvolta, può sembrare di doppio stallo, ritiene che oggi le possibilità di una svolta politica, un’accelerazione,  verso i classici obiettivi del socialismo rivoluzionario siano maggiori in oriente o in occidente? Lei conclude il suo libro “Sei lezioni sulla storia” con le parole di Galileo, “Eppur si muove”. Dove si colloca principalmente il movimento storico sul finire dl XX secolo?

È una questione con così tante sfaccettature che dovrò suddividerla e rispondere in maniera un po’ discorsiva. Innanzitutto, una digressione sul posto di Marx e del marxismo nel nostro pensiero. Adam Smith ha avuto intuizioni geniali; e La ricchezza delle nazioni è divenuta per un intero secolo, e anche di più, la bibbia dell’emergente capitalismo. Oggi, il diverso scenario economico ha invalidato alcuni dei suoi postulati, modificando la nostra visione delle sue predizioni e ingiunzioni. Karl Marx ha avuto intuizioni geniali ancor più profonde; non solo ha previsto e analizzato l’incombente declino del capitalismo, ma ci ha fornito nuovi strumenti di pensiero per scoprire le fonti del comportamento sociale. Ma da quando ha scritto, molta acqua è passata sotto i ponti: i recenti sviluppi, se hanno confermato la sua analisi, hanno gettato alcuni dubbi sulla sua prognosi. Ammettere tali dubbi, e indagarli, non significa disonorare Marx. Ciò che pare incompatibile con lo spirito del marxismo sono gli ingenui e scolastici tentativi  – come quelli che ho visto talvolta in alcuni articoli della NLR [New Left Review, n.d.t.] – di adattare il marxismo a condizioni e problemi dei quali egli non ha tenuto conto, e che non avrebbe potuto prevedere. Ciò che vorrei vedere da parte degli intellettuali marxisti è meno analisi astratta di testi, e maggiore applicazione del metodo marxista all’esame delle condizioni sociali ed economiche che differenziano la nostra epoca da quella di Marx.

Mi ha chiesto circa le prospettive di una svolta verso una società socialista o marxista in URSS e in occidente. Sono due problemi molto diversi. La Rivoluzione russa ha rovesciato il vecchio ordine, issando la bandiera marxista. Ma le premesse marxiste non erano presenti, e pertanto non ci si poteva aspettare la realizzazione delle prospettive marxiste. L’esiguo proletariato russo, prevalentemente senza educazione, era assai diverso da quello prefigurato da Marx come alfiere della rivoluzione, ed era inadeguato al ruolo impostogli dallo schema marxista delle cose. Lenin in uno dei suoi ultimi saggi deplorava la carenza di “genuini proletari”, e notava amaramente che Marx non sta scrivendo “della Russia, bensì del capitalismo in generale”. La dittatura del proletariato, comunque si voglia interpretare, era una chimera. Ciò che Trotsky definiva “sostituzionismo”, ovvero la sostituzione del partito al proletariato, era inevitabile, risultante da una crescita per lente tappe di una burocrazia privilegiata, dal divorzio dei vertici dalle masse, dalla coercizione di operai e contadini e dai campi di detenzione. Dall’altra parte, qualcosa è stata fatta rispetto all’occidente. Il capitalismo è stato smantellato e rimpiazzato dalla produzione e distribuzione pianificate; e, se il socialismo non è stato realizzato, alcune delle condizione della sua realizzazione sono state, per quanto imperfettamente, create. Il proletariato è cresciuto enormemente in termini quantitativi; il suo tenore di vita, la salute e la sua educazione sono notevolmente migliorati. Se si volesse indulgere in voli di fantasia, si potrebbe immaginare che questo nuovo proletariato un giorno potrà assumersi l’onere che i suoi deboli antenati non erano in grado di portare sessant’anni fa, e così giungere al socialismo. Personalmente non sono affezionato a simili speculazioni. La storia raramente produce soluzioni teoricamente ordinate. La società sovietica sta ancora progredendo. Ma a quale fine, e se il resto del mondo le permetterà di proseguire indisturbata la sua avanzata – questi sono interrogativi ai quali non proverò a rispondere.

Il problema del marxismo in occidente è più complicato. Qui le premesse marxiste esistono, ma non hanno condotto – sinora- all’epilogo marxista. Marx formulò le sue teorie alla luce delle condizione dell’Europa occidentale, in particolare l’Inghilterra. La sua intuizione e lungimiranza sono state brillantemente confermate – almeno sino ad un certo punto. Il sistema capitalista è declinato sotto il peso delle sue contraddizioni interne. È stato duramente scosso da due conflitti mondiali e da crisi economiche ricorrenti. Si dimostra impotente di fronte alla crescente disoccupazione. I lavoratori organizzati hanno guadagnato molto in termini di forza, forza che non hanno esitato ad utilizzare per i propri fini. Eppure, l’unica cosa che non è accaduta è la rivoluzione proletaria. Ovunque, nel mondo capitalista, la rivoluzione si sia profilata momentaneamente – in Germania nel 1919, in Gran Bretagna nel 1926 ed in Francia nel 1968 – i lavoratori si sono affrettati a voltarle le spalle. Ciò che volevano non era la rivoluzione. Trovo difficile rigettare l’evidenza che, a dispetto di tutte le fessure che si sono aperte nella corazza del capitalismo, l’umore dei lavoratori è meno rivoluzionario oggi di quanto non fosse sessant’anni fa. Attualmente in occidente, il proletariato – intendendo con esso, come Marx, i lavoratori organizzati dell’industria – non è rivoluzionario, se non addirittura una forza controrivoluzionaria.

Perché l’operaio oggi in occidente – un fatto che io ritengo si debba riconoscere – non vuole la rivoluzione? La prima risposta è “la paura”, stimolata in parte dall’esempio del 1917. La Rivoluzione russa, quali che siano i benefici, in ultima analisi, da essa derivati, ha causato miseria e devastazioni infinite. Rovesciare la classe dominante nei paesi capitalisti, oggi, sarebbe un’impresa ancor più disperata, e il costo ben più alto. L’operaio russo nel 1917 poteva non avere altro da perdere che le proprie catene. L’operaio occidentale ha molto più da perdere, e non sembra esservi troppo incline. Quando emerge tale questione, ricorro ad un’analogia. Il medico dice al paziente che è affetto da una malattia incurabile, la quale peggiorerà ad un ritmo imprevedibile, ma che egli può sperare di andare avanti  in qualche modo per alcuni anni. La malattia può essere curata con un intervento chirurgico, ma vi è la possibilità che l’operazione uccida il paziente. Quest’ultimo decide di andare avanti senza intervento. Rosa Luxemburg ha detto che la decadenza del capitalismo poteva concludersi o col socialismo o con la barbarie. Ho il sospetto che molti lavoratori oggi preferiscano affrontare il lento decadimento del capitalismo, sperando si protragga per il loro tempo, anziché il bisturi della rivoluzione, il quale potrebbe, ma non necessariamente, produrre il socialismo. Si tratta di un punto di vista plausibile.

Ma vorrei approfondire ulteriormente. Non so chi ha inventato la frase “sovranità del consumatore”. Ma l’idea è implicita in Adam Smith e nel complesso dell’economia classica. Marx giustamente pone il produttore al centro del processo economico. Ma ha dato per scontato che il produttore produce per il mercato, e produce ciò che vuole comprare il consumatore; si tratta probabilmente di una buona descrizione di ciò che è accaduto fino alla fine del secolo scorso – pochi anni dopo la morte di Marx. Da allora la situazione si è capovolta, ed il potere del produttore è cresciuto ad un tasso frenetico. L’imprenditore, ormai sempre più spesso una grande corporation, controlla e standardizza i prezzi. La produzione di massa ha reso imperativa la creazione di un mercato uniforme. La pubblicità ha fatto passi d gigante, per estensione ed ingegnosità. Per la prima volta il produttore è stato in grado di plasmare i gusti del consumatore, persuadendolo a desiderare ciò che egli ha ritenuto più conveniente e redditizio produrre. Siamo arrivati all’età della sovranità del produttore.

Tuttavia, è questo è il punto principale, essendo il proletariato cresciuto in numeri ed educazione, può sempre più efficacemente far valere la propria pretesa ad una parte dei crescenti profitti della nuova epoca. Engels ha svelato la corruzione da parte dei capitalisti di quella che definiva aristocrazia operaia. Lenin ha applicato il medesimo concetto alla classe lavoratrice dei paesi capitalisti di fronte al mondo coloniale. Ma lo stesso Lenin non prevedeva una collaborazione fra produttori, ossia datori di lavoro e lavoratori, al fine di sfruttare il consumatore attraverso il mercato interno. Non è necessario grande acume per vedere cosa sta accadendo. “La protezione del lavoro” per i produttori è divenuta un fattore decisivo delle politiche economiche. L’eccedenza di personale nel management e nella fabbrica viene condonata; i prezzi crescenti si occuperanno del costo. I miglioramenti tecnologici che consentano di tagliare costi e prezzi incontrano resistenze poiché potrebbero implicare perdite di posti di lavoro; il consumatore non può pagare. Persone serie hanno proposto l’altro giorno di macellare un quarto di milione di galline al fine di ridurre l’offerta di uova, così da prevenire un crollo disastroso dei prezzi. Le prestazioni ineguali della CEE per quanto riguarda burro, vino e carni sono ben note. Un’economia talmente impazzita non può sopravvivere a lungo andare. Ma la corsa può rivelarsi lunga – più di quanto coloro che al momento ne traggono profitto potrebbero prevedere. Non ho menzionato questioni come l’investimento di grandi fondi pensionistici dei sindacati in azioni industriali e finanziarie. Se i profitti capitalistici crollano, crollano le pensioni dei lavoratori. “Dov’è il tuo tesoro, lì è il tuo cuore”. I lavoratori ormai in molti modi hanno una grande ruolo nella sopravvivenza del capitalismo. Nelle presenti condizioni, la nazionalizzazione delle industrie, e l’inserimento dei lavoratori nei consigli di amministrazione (rispetto al quale, per inciso, i lavoratori  britannici hanno mostrato ben scarso interesse), rappresentano non una presa in carico dell’industria da parte dei lavoratori, bensì un ulteriore passo verso la loro integrazione nel sistema capitalista. Lord Robens va bene come capitalista quanto Lord Robins [Alfred Robens, sindacalista, politico e industriale britannico; Lionel Robins, economista marginalista; n.d.t.].

È da questo punto di vista che dobbiamo diagnosticare la malattia della sinistra, parte integrante di quella che colpisce l’intera nostra società. La sinistra ha smarrito il cuore delle proprie convinzioni, e continua a ripetere formule ormai prive di credibilità. Per un centinaio di anni o più, le speranze della sinistra sono state riposte nella classe operaia intesa quale classe rivoluzionaria del futuro. La democrazia capitalista sarebbe stata rovesciata e rimpiazzata dalla dittatura del proletariato. È possibile assumere che una simile visione possa ancora realizzarsi. Vaste trasformazioni della società, nel passato, si sono estese per decenni e secoli; forse siamo semplicemente troppo impazienti. Ma devo confessarlo, con così tanti segnali che puntano in un’altra direzione, tale prospettiva mette a dura prova le mie capacità di ottimismo. Non mi rassicura vedere l’attuale scompigli nella sinistra, divisa in una galassia di minuscole sette in lotta fra loro, unite solo dal fallimento nell’attrarre qualcosa di più che una frangia insignificante del movimento operaio, nonché dalla coraggiosa illusione che le loro prescrizioni per la rivoluzione rappresentino interessi ed ambizioni dei lavoratori. Ricordo che Trotsky, in un articolo scritto poco dopo lo scoppio della guerra nel 1939, ammetteva, con esitazione e riserve, che se la guerra non avesse provocato la rivoluzione, ciò avrebbe costretto a cercare la ragione del fallimento “non nel’arretratezza del paese, e nel circostante ambiente imperialista, ma nella congenita incapacità del proletariato a divenire una classe dirigente”. Forse non si dovrebbe dare eccessiva importanza ad un’ammissione strappatagli in un momento di buia disperazione. Mi soffermo sul termine “congenita”; l’articolo è stato pubblicato in inglese, e non so cosa quale parola russa Trotsky avrebbe potuto usare. Tuttavia, se fosse sopravvissuto tanto da assistere allo scenario contemporaneo, non credo avrebbe trovato  molte occasioni per ritrattare il suo verdetto.

Dunque, come analizzare la situazione e volgere lo sguardo al futuro. In primo luogo, datori di lavoro e lavoratori combattono ancora in modo tradizionale circa la divisione  dei profitti dell’impresa capitalistica, sebbene recentemente vi siano state occasioni in cui si è giunti a un accordo, accordo al quale il governo ha opposto resistenza sul piano dell’interesse pubblico. In secondo luogo, un silenzioso, ma estremamente potente, consenso si è stabilito tra datori di lavoro e lavoratori rispetto alla necessità di mantenere i profitti. Le parti possono ancora litigare sulla suddivisione del bottino, ma sono unite nel desiderio di massimizzarlo. È ancora aperto l’interrogativo su quale di questi due fattori sarà , in ultima analisi, in cima alle priorità. Si potrebbe argomentare che, una volta raggiunti i limiti fisici dello sfruttamento del mercato del consumo, e quando le opportunità di rafforzamento del capitalismo dall’esterno saranno esaurite in un dato paese, lo scontro tra interessi dei padroni e dei lavoratori riacquisterà la sua prominenza, liberando la strada per la tanto rimandata rivoluzione sul modello marxista. Ma devo ammettere il mio scetticismo rispetto ad una simile prospettiva. Trovo impressionante il fatto che le due sole notevoli rivoluzioni compiutesi dal 1917 si sono svolte in Cina e a Cuba, e che i movimenti rivoluzionari oggi sono vivi solo nei paesi nei quali il proletariato è debole se non inesistente.

Mi ha sfidato citando le parole conclusive del mio Sei lezioni sulla storia. Sì, sono convinto che il mondo stia procedendo in avanti. Non ho cambiato punto di vista rispetto al 1917 inteso come un punto di svolta della storia. Direi che, insieme alla guerra del 1914-1918, ha segnato l’inizio della fine del sistema capitalistico. Ma il mondo non si muove in ogni momento ed in ogni luogo simultaneamente. Sarei tentato dall’affermare che i bolscevichi hanno ottenuto la loro vittoria nel 1917, non malgrado l’arretratezza dell’economia e della società russe, bensì proprio a causa di essa. Ritengo dovremmo seriamente prendere in considerazione l’ipotesi che la rivoluzione mondiale, della quale ha costituito la prima tappa, e che completerà l’abbattimento del capitalismo, si rivelerà essere la rivolta dei popoli colonizzati contro il capitale nelle vesti dell’imperialismo anziché una rivolta del proletariato dei paesi capitalisti avanzati.

Quali conclusioni trarre per la nostra sinistra nella sua attuale situazione? Non molto incoraggianti, temo, considerato che questo è un periodo profondamente controrivoluzionario in occidente, e la sinistra non possiede alcuna solida base rivoluzionaria. Al momento, mi sembra vi siano aperte due sole alternative ai membri più seri della sinistra. La prima consiste nel rimanere comunisti, conservarsi come gruppo dai fini educativi e propagandistici separato dall’azione politica. La funzione di un simile gruppo sarebbe quella di analizzare le trasformazioni sociali ed economiche attualmente in corso nel mondo capitalista; studiare i movimenti rivoluzionari attivi in altre parti del mondo – le loro conquiste, sconfitte e potenzialità; e cercare di trarre un immagine più o meno realistica di ciò che il socialismo potrebbe significare nel mondo contemporaneo. La seconda alternativa per la sinistra è quella di buttarsi nella politica corrente, diventare socialdemocratica, riconoscere e accettare francamente il sistema capitalista, perseguire quegli obiettivi minimi raggiungibili all’interno dello stesso, e lavorare per i compromessi tra padroni e lavoratori utili a conservarlo.


Non si può essere contemporaneamente comunisti e socialdemocratici. Il socialdemocratico critica il capitalismo, ma in ultima istanza lo difende. Il comunista lo rigetta, ed è convinto che esso finirà per autodistruggersi. Ma il comunista nel paesi occidentali, al momento attuale, è conscio dell’energia di cui dispongono ancora le forze che sostengono il sistema, nonché dell’assenza di qualsiasi forza rivoluzionaria abbastanza potente da rovesciarlo. 


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