martedì 21 giugno 2016

Perché il DiEM 2025 di Varoufakis sta combattendo la lotta sbagliata* - Will Denayer

 *Da:    contropiano.org/ 

1) Limitare ulteriormente la democrazia allo scopo di ridurre al minimo i costi delle transazioni internazionali senza tenere in considerazione la sferzata sociale ed economica che l’economia globale di quando in quando produce

2) Limitare la globalizzazione per ricostruire in patria una legittimità democratica

3) Globalizzare la democrazia a scapito delle democrazie nazionali

IL “TRILEMMA” DI RODRIK: non è possibile avere contemporaneamente iperglobalizzazione, democrazia e autodeterminazione nazionale.



Riportiamo qui la traduzione di un articolo di Will Denayer, originariamente pubblicato su Flassbeck Economic International. È un contributo interessante nel dibattito all’interno della sinistra euro-critica che mette bene in luce le irrisolvibili criticità del fronte che continua a sostenere la necessità di una maggiore integrazione in senso democratico della UE e quindi la possibilità di una riforma progressista di questo polo geo-politico-economico.
Entrando più a fondo nel campo della rottura della UE, Denayer pone degli attenti punti di analisi nella discussione tra chi insiste sulla priorità dell’uscita nazionale e chi invece predica un’utopistica “rivoluzione continentale”, mostrando come una così netta distinzione fra queste due prospettive manchi del senso di realtà di cui la lotta contro la UE necessita: la dimensione nazionale è ancora prevalente come contesto per l’organizzazione della lotta di classe e come base dell’affermazione di una alternativa politica, perché lo Stato è ancora il soggetto della sovranità e quindi della possibile rottura; ma senza un punto di vista e un piano di alleanze e di lavoro internazionale – nel caso specifico lavorando sull’anello debole, sul possibile punto di rottura, che nella Ue corrisponde alla faglia tra paesi dominanti e Piigs che lo stesso processo di integrazione e gerarchizzazione continentale ha generato – la rottura con l’Ue si ridurrebbe nella migliore delle ipotesi a un salto nel buio alla mercé della speculazione, dei mercati, degli apparati coercitivi dell’istituzione europea, nella peggiore in un ritorno a un nazionalismo che non può che essere, nel contesto attuale e dati gli attuali rapporti di forza, xenofobo, isolazionista e contrario agli interessi delle classi popolari.
(Contropiano)
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  1. Varoufakis
Questo testo si occupa di strategia, ma la strategia non può essere considerata separatamente dalle persone e dalle loro storie e azioni. Syriza è sempre stato un intricato conglomerato di gruppi di molte provenienze politiche, ma da quando è salito al potere nel gennaio 2015, fino alla sua capitolazione sette mesi più tardi, le due maggiori fazioni hanno combattuto una lotta feroce. Da una parte c’era una sinistra eterogenea, che voleva mantenere le promesse elettorali (il programma di Salonicco): non ci sarebbe più stata l’austerità, la Grecia avrebbe negoziato un taglio del debito e, se la Troika avesse spinto il paese oltre il limite, il gruppo avrebbe sostenuto l’uscita dall’eurozona. Anche la leadership del partito, d’altro canto,  voleva porre fine all’austerità. Ma in nessun caso era disposta ad uscire dall’eurozona.

Come spiega Lapavitsas, la leadership di Syriza si era convinta che se avesse respinto un nuovo piano di salvataggio, i creditori europei si sarebbero piegati di fronte al pericolo finanziario e politico. La mente di questa strategia era Yanis Varoufakis. Ha negoziato con i creditori per più di sei mesi. Ma la Grecia non poteva negoziare efficacemente senza un piano alternativo, compresa la possibilità di uscire dall’eurozona. La creazione di una propria liquidità era l’unico modo per evitare il cappio della troika. Questo sarebbe stato tutt’altro che facile, naturalmente, ma almeno avrebbe offerto la possibilità di resistere alle catastrofiche strategie di salvataggio. Ma la leadership di Syriza non ne aveva nessuna intenzione.
‘Syriza ha fallito,’ scrive Lapavitsas, ‘non perché l’austerità sia invincibile, né perché un cambiamento radicale sia impossibile, ma perché, disastrosamente, non era né disposta né preparata ad impostare una sfida diretta all’euro. Un cambiamento radicale e l’abbandono dell’austerità in Europa richiedono un confronto diretto con l’unione monetaria stessa. Per i paesi più piccoli questo significa prepararsi ad uscire, per i paesi principali significa accettare  cambiamenti decisivi rispetto agli accordi monetari disfunzionali.

Oggi Varoufakis è tornato come l’iniziatore di DiEM2025 (Democrazia in Europa). L’ex primo ministro greco delle Finanze gode di molta credibilità nella sinistra europea. Gran parte di questa credibilità si basa sulla leggenda metropolitana che il governo di Syriza abbia messo in piedi una lotta eroica conto le potenze non democratiche in Europa, le quali hanno mostrato non avere alcuna comprensione economica, nessuna considerazione per il destino del popolo greco e una palese mancanza di rispetto per la democrazia.

Lo stesso discorso sta venendo riproposto. Nel 2015 per il governo greco non ci fu in ultima analisi nessuna scelta se non accettare le condizioni della Troika. Oggi, DiEM2025 vuole riformare le istituzioni dell’UE. Ancora una volta, non vi è nessuna scelta. Una lotta a livello nazionale è impossibile, la sinistra si deve unire in tutta Europa e combattere le istituzioni sostenute dalla UE. L’obiettivo di DiEM2025 è “democratizzare l’Unione europea con la consapevolezza che altrimenti si disintegrerà ad un costo terribile per tutti”. Rimangono solo altre due “opzioni terribili”: rifugiarsi nell’ormai antiquato “bozzolo dello stato-nazione”’, o arrendersi all’oligarchia europea. L’obiettivo di DiEM2025 è di “convocare una assemblea costituente” in cui gli europei delibereranno su come portare avanti, entro il 2025, una democrazia europea a pieno titolo, con un “parlamento sovrano’ che ‘rispetti l’autodeterminazione nazionale e condivida il potere con i parlamenti nazionali, assemblee regionali e consigli comunali’. Questo è, come Varoufakis ammette al The Independent, sicuramente ‘utopico.’ Ma, continua, è ‘molto più realistico che cercare di mantenere il sistema così com’è’ oppure  ‘di cercare di lasciarlo.’ Che tu sia greco o britannico, ‘scappare’ è impossibile. Sentite suonare un campanello?

  1. Quali riforme?
Il sistema di ‘democrazia sovranazionale’ di DiEM2025 deve poggiare su un ‘Parlamento europeo significativamente potenziato, che dovrebbe essere l’unico promotore della legislazione europea’, insieme a ‘un ramo esecutivo completamente ristrutturato, compreso un presidente europeo eletto direttamente.’ Questo sistema garantirebbe che la Commissione attui politiche che si basano sulla volontà del popolo. Tutto deve poggiare sui risultati elettorali di nuovi partiti veramente transnazionali.

Qui sono da notare alcuni problemi. Per cominciare, la proposta presume -stranamente- che esista un nesso causale tra l’autorizzazione del parlamento e il cambiamento politico e ideologico. Ma come dovrebbe essere? Gli Europei eleggeranno un parlamento più a sinistra nel momento in cui i poteri di questa istituzione aumentino? Come avverrà questo potenziamento del PE? Il PE non può attuarlo da solo, per cui è richiesto qualcos’altro. Perché concentrarsi sul PE per cominciare? Un tale cambiamento può avvenire solo quando i rapporti di forza all’interno della Commissione e i due Consigli cambino. In effetti, ciò che è necessario è una revisione quasi completa di tutte le  istituzioni politiche europee. E questo può avvenire solo a seguito di cambiamenti a livello nazionale. Perché allora concentrarsi sul livello sovranazionale per iniziare?
DiEM2025 ha una strategia (per così dire) per ottenere un cambiamento politico. La nuova democrazia sovranazionale europea deve andare a braccetto con la creazione di un “elettorato post-nazionale o sovranazionale”. Ma come funzionerebbe? Come Thomas Fazi fa notare giustamente, è evidente che per la grande maggioranza dei cittadini europei le barriere linguistiche e le differenze culturali compromettono la possibilità di partecipazione politica a livello sovranazionale. Questo può sembrare un’ovvietà, ma è una preoccupazione reale. Perché abbiamo bisogno di tali soggetti? Cosa possono ottenere che gli altri non possono? Non vi è alcun straccio di prova che questo farebbe avanzare le cose.

È vero il contrario. Una maggiore integrazione, anche se accompagnata da un rafforzamento del parlamento, non è equivalente a un maggior controllo popolare. Varoufakis ingenuamente pensa che una versione migliorata del Parlamento europeo sarebbe sufficiente per un adeguato controllo democratico sulle decisioni della UE. Come sostiene giustamente Fazi, questo ignora completamente la questione della presa oligarchica. La ricerca dimostra abbondantemente che i problemi relativi al lobbysmo portati ad un livello sovranazionale peggiorano. I trasferimenti di sovranità a loci internazionali contribuiscono all’indebolimento del controllo popolare. Questi loci sono, in generale, fisicamente, culturalmente e linguisticamente più distanti dalla popolazione rispetto a quelli nazionali. E questo porta ad una maggiore presa oligarchica.

Nell’Unione Europea ci sono due fonti di legittimazione democratica: il Parlamento Europeo, eletto direttamente dai cittadini dell’Unione europea, e il Consiglio dell’Unione europea (Consiglio dei Ministri), insieme con il Consiglio Europeo (i capi dei governi nazionali). La Commissione Europea è nominata dai due organismi. Molto di negativo può essere detto a proposito del PE, e con buone ragioni, ma la verità è anche che il PE è profondamente diverso dai parlamenti nazionali. In teoria, i membri dei parlamenti nazionali hanno il potere di legiferare. Questo non è il caso del PE, il quale può solo emettere emendamenti che la Commissione successivamente può accettare o rifiutare. Tuttavia, nei parlamenti nazionali, mediamente meno del 15% delle iniziative legislative dei singoli membri del parlamento diventano legge. Pochissimi membri del parlamento (o nessuno) potranno mai proporre una normativa che non sia stata approvata in precedenza dal loro partito e/o che non sia il prodotto di negoziati con i partner della coalizione. Certo, il PE non lavora come un parlamento con pieni poteri dovrebbe funzionare, ma non funziona così neanche la maggior parte dei parlamenti nazionali. Questo significa anche che la lotta per la “democrazia in Europa” deve essere svolta a livello nazionale. Non è solo una malattia a livello delle istituzioni europee, è una malattia in tutta Europa.

Le istituzioni della UE sono una scatola vuota se i governi nazionali non eseguono un backup delle politiche europee. Votare nel Consiglio avviene sia mediante votazione a maggioranza che all’unanimità. Tutte queste decisioni sono prese da politici nazionali o rappresentanti nazionali. Lo stesso vale per il Comitato esecutivo della Banca centrale europea. Ci sono un presidente, un vicepresidente e altri quattro membri. Tutti questi componenti sono nominati dal Consiglio europeo. Le decisioni della BCE sono fatte da questi sei membri più i governatori delle banche nazionali dei 19 paesi della zona euro. Il collegamento con il livello nazionale è sempre chiaro.

La situazione all’interno della Commissione è peggiore. La Commissione ha un presidente che viene eletto dal PE. Questo significa molto poco, perché l’ultima (e la prima) volta in cui questo è successo, il nome di Juncker era l’unico sulla scheda elettorale. Gli altri 27 commissari sono non-eletti, il che significa che la loro posizione è il risultato dei negoziati tra i governi nazionali. Nel corso degli anni, è diventata un’abitudine adottare una normativa in un’unica lettura. Nuovi pacchetti di governance economica, come ad esempio il Fiscal Treaty, il Six-Pack, il Two-pack e il Semestre Europeo sono state adottate in maniere che sono fondamentalmente antidemocratiche. Questo è evidentemente molto sbagliato e ha certamente bisogno di essere cambiato, ma in che modo è diverso dalla legislazione nella maggior parte dei parlamenti nazionali in Europa? L’austerità e le riforme sono in discussione nei parlamenti fino a quando la minoranza vota contro di esse e la maggioranza le approva, con qualche dissidente qua e là. Nessun governo nazionale in Europa è caduto in conseguenza all’introduzione di misure di austerità. Questo dimostra che il problema non si trova esclusivamente a livello europeo. Infatti, senza la macabra ossessione che comprende ordoliberalismo, monetarismo, competitività, mercantilismo e “riforme strutturali” a livello nazionale, l’UE sarebbe impotente nel suo portare avanti questa agenda.

Allo stesso tempo, come scrive Wolfgang Kowalsky, le ambizioni di politiche sociali sono state sostanzialmente abbassate verso gli standard ILO che sono ben al di sotto gli attuali standard minimi europei. Questo è, ancora una volta, molto sbagliato. Ma guardiamo a ciò che sta accadendo a livello nazionale: non è affatto diverso da quello che accade in Francia, Regno Unito o in Belgio o in molti paesi dove i governi conservatori (di qualsiasi parte o colore) implementano (o cercano di implementare) una pletora di leggi anti-sociali.

Invece di questo ‘façadism’, attività di facciata, come la chiama Kowalsky (l’organizzazione di un “anno del cittadino UE”, etc.), ci sono molte iniziative che l’UE potrebbe promuovere se fosse interessata alla democrazia. Potrebbe, ad esempio, rendere reale la democrazia UE sul posto di lavoro e lavorare per la democrazia industriale – termini che non si trovano mai in nessun documento di politica europea (PE incluso). Invece le istituzioni (PE compreso) stanno ora cercando di intromettersi nel territorio nazionale riguardo alla contrattazione collettiva fissando limiti sull’evoluzione dei salari – una chiara strategia per distruggere l’autonomia delle parti sociali. Ma, ancora una volta, la stessa cosa è anche in atto, in una forma o nell’altra, nella maggior parte dei paesi europei e così vediamo che anche questa è una lotta che deve essere combattuta a livello nazionale, non dai partiti transnazionali, ma dai partiti social-democratici e  della sinistra democratica.

  1. Il TINA (“there is no alternative”: non c’è alternativa) della sinistra
Il TINA di DiEM è molto peggio della analisi fallace che fa delle istituzioni europee e della loro negazione dei rapporti di potere nazionali. In esso non vi è nulla di accidentale. È la logica conseguenza della loro sottostante diagnosi di ciò che è sbagliato nel mondo: se le nazioni sono diventati impotenti di fronte alla globalizzazione, allora non ha senso avviare una lotta politica a livello dello Stato nazionale. Che è la tesi di DiEM. Ma lo Stato nazione non è diventato impotente di fronte alla globalizzazione.

Il pensiero che DiEM2025 e molti altri promuovono è che il modello della politica basata sullo Stato nazione sia “finito” (Varoufakis). In Europa, gli Stati-nazione hanno guadagnato “responsabilità senza potere”, mentre il livello sovranazionale ha guadagnato “potere senza responsabilità”. La sovranità dei parlamenti nazionali si è dissolta. Oggi i mandati elettorali nazionali sono impossibili da soddisfare proprio per la loro stessa natura. Quindi, la riforma delle istituzioni europee (o più precisamente il PE) è l’unica opzione rimanente. Varoufakis è ben lungi dall’essere l’unico a vederla in questo modo. Secondo Slavoj Zizek, la lezione che la sinistra deve imparare dall’”episodio Syriza” è che è impossibile combattere il capitalismo globale in un solo paese. Secondo Zizek, la “nuova tentazione socialdemocratica neo-keynesiana” che è al momento in voga in alcuni ambienti e che mira ad attivare una lotta a livello di Stato-nazione non è che una cortina di fumo attuata dalla  pseudo-sinistra incentrata sul nazionalismo e sul populismo, creata per dare l’illusione alla popolazione di poter fare la differenza. Ciò è messo in bella maniera, ma non è vero.

Come fanno a saperlo, e perché sono così sicuri? Alcuni anni fa, Dani Rodrik ha presentato quello che lui chiama “il trilemma politico dell’economia mondiale”. Nelle condizioni di “vera integrazione economica internazionale” la democrazia, la sovranità nazionale e l’integrazione economica globale diventano incompatibili fra loro. È possibile combinare due qualsiasi delle tre, ma mai tutte e tre contemporaneamente e completamente. Se si vuolee più globalizzazione, è necessario rinunciare a un po’ di democrazia o di sovranità nazionale. Ad esempio, se una nazione sceglie di agganciare la sua moneta e consentire ai flussi di capitale di entrare e uscire senza restrizioni, non può anche impostare autonomamente il proprio tasso di interesse. In questo contesto, l’aspetto politico dello Stato-nazione si restringe.

Il trilemma di Rodrik è ovviamente famoso. Come scrive giustamente Bill Mitchell, è stato abilmente venduto da tutte le forze politiche in tutto il mondo. La dottrina è incredibilmente conveniente. Dì alla popolazione che lo Stato-nazione è “finito”, che non è in grado di garantire la piena occupazione (o di attuare politiche per arrivarci) e ti liberi dalla responsabilità senza nemmeno doverci provare. Lo stesso vale per l’austerità o qualsiasi altra cosa. Se lo Stato-nazione è “finito”, è inutile opporsi. Chiedersi se questo è vero è, naturalmente, una domanda che non si pone quasi mai  – “tutti” sembrano conoscere la risposta. Ma non è quello che voleva dire Rodrik. Il titolo del suo articolo “Quanto lontano andrà l’integrazione economica?” dovrebbe fornire un suggerimento. Contrariamente alla visione tradizionale, Rodrik ha scritto che l’integrazione economica internazionale non è “vera”, cioè rimane notevolmente limitata, anche nel nostro presunto mondo globalizzato. È vero che la data del paper di Rodrik risale al 2000, ma il mondo non è cambiato molto nel frattempo. Come osserva Mitchell, ci sono ancora i confini nazionali. C’è incertezza dei tassi di cambio, nonostante una maggiore deregolamentazione. Ci sono grandi differenze culturali e linguistiche che precludono una mobilitazione piena di risorse oltre i confini nazionali. Troviamo “home bias” nei portafogli di investimento. Vi è una forte correlazione tra i tassi di investimento nazionali e tassi di risparmio nazionali. I flussi di capitale tra  paesi  ricchi e poveri sono notevolmente inferiori rispetto a quello che prevedono i modelli teorici. Ci sono ancora forti restrizioni alla mobilità internazionale del lavoro. La verità è che non viviamo in un mondo completamente globalizzato. Ergo, gli Stati-nazione possono perseguire le proprie politiche. Questa è la conclusione raggiunta da tutti coloro che approfondiscono il tema (vedi qui per uno studio di Godar, Paetz e Truger sulle possibilità di politiche redistributive e di sviluppo a livello nazionale nella UE e qui per una panoramica della letteratura).

Non ci sono prove per il TINA di DiEM. La loro tesi secondo la quale il capitale è diventato completamente sovranazionale e che “noi”, al fine di combattere e avere una possibilità, abbiamo bisogno di seguire e portare la lotta allo stesso livello sovranazionale stesso. Il carattere ‘senza freni’ del capitale sarà combattuto a livello nazionale, che a sua volta porterà alla cooperazione internazionale o non sarà combattuto. Se il capitale è diventato completamente senza freni e lo Stato-nazione è “finito”, perché Goldman-Sachs e altri pagano Hillary Clinton milioni di dollari per discorsi che devono rimanere segreti? Perché le lobbies pompano miliardi di dollari nelle istituzioni che regolamentano le nazioni, perché i think thank e le agenzie di marketing non hanno altro obiettivo che indirizzare l’opinione degli elettori che spuntano in tutto il mondo, perché il settore delle imprese è così desideroso di comprare i media in modo che i suoi confini ideologici possano essere strettamente salvaguardati? È forse perché lo Stato-nazione è “finito”?
Come Bill Mitchell ha scritto sul suo blog qualche tempo fa, “la realtà attuale (è) che i politici hanno ancora la capacità legislativa per limitare l’attività economica attraverso le frontiere (…) La sfida reale non è quella di cedere la sovranità nazionale a un mitico stato di integrazione economica internazionale, ma di resistere allo scivolare nelle tecnocrazie durante il processo di elaborazione delle politiche nazionali, e di assicurare che i sistemi di voto non siano corrotti dai lobbisti che lavorano nell’interesse di specifiche elites di capitale”.
E perché questo non accade? Possiamo accusare la destra di molte cose, ma certamente non del fatto di essere di destra. Sono quello che sono. Ma lo stesso non è vero per la sinistra. Come Bill Mitchell scrive:
“Il problema è che la stupidità dei politici di sinistra ha accettato il mito che l’integrazione economica internazionale è così avanzata e inevitabile che hanno dovuto abbandonare i tradizionali obiettivi progressisti e, invece, servire gli interessi del capitale. La loro logica è l’implausibile affermazione che in qualche modo manterranno quella posizione politica volta a fornire i risultati più giusti”.

Questo, in estrema sintesi, è ciò che è accaduto nel corso degli ultimi trenta anni circa. Non è la finanziarizzazione che ha spezzato la schiena della socialdemocrazia (come Varoufakis ha recentemente dichiarato alla televisione olandese), ma la falsa ideologia che niente possa più essere fatto, che il cambiamento strutturale sia impossibile, che la lotta politica a livello dello Stato-nazione sia finita e che l’unica cosa che resta da fare sia gestire lo Stato in una vena neoliberista, con un po’ di “correzioni sociali” qua e là, correzioni che si rivelano del tutto insufficienti nella misura in cui la socialdemocrazia (come il New Labour nel Regno Unito con Blair) non ha accettato completamente l’ideologia neoliberista sugli “scrocconi di welfare” ecc. e ha reso per i disoccupati e i poveri tutto ancora peggio di quanto già non fosse.
Resta il fatto che è possibile per i paesi che hanno una propria valuta, seguire le proprie politiche economico-politiche che hanno, tra gli altri, la piena occupazione come obiettivo. Questo è il vero problema. Non si tratta della democratizzazione delle istituzioni. Non si tratta di necessità di una politica europea transnazionale. Non si tratta di nulla di ciò che si sente nell’aria, un modello di  società che, come spiega Varoufakis, è “allo stesso tempo libertaria, marxista e keynesiana”. Ciò di cui abbiamo bisogno sono partiti di sinistra che siano in grado di vincere le elezioni nazionali.

  1. Perché dare la priorità a livello nazionale?
Se DiEM2025 vuole combattere per “istituzioni europee più democratiche’, lasciamoli fare. Ma la lotta più importante si svolgerà a livello nazionale.

Nulla può danneggiare l’oligarchia Europea più dell’abbandono dell’MUE da parte delle nazioni (o la minaccia di farlo), del riaggiustamento, del ritorno alla crescita e a un’azione politica migliore di quella ultra-neoliberale e disfunzionale dell’eurozona.

Ovunque in Europa il capitale crea divisioni tra fittizie linee di frattura etniche e culturali perseguendo una strategia  “divide et impera” nei confronti del lavoro. La sinistra deve combattere questa lotta su ogni scala possibile. L’internazionalismo non ha mai significato rinunciare alla lotta nazionale. È vero il contrario. Questo non ha assolutamente nulla a che fare con il nazionalismo. Non si tratta di quello che gli inglesi o tedeschi possono fare perché sono inglesi o tedeschi, ma del fatto che la maggior parte del progresso può essere fatta su questi livelli. Gli irlandesi hanno sconfitto la privatizzazione dell’acqua. Ciò non ha avuto bisogno di una lotta europea. La privatizzazione dell’acqua è probabilmente impossibile da sconfiggere a questo livello. Ma gli irlandesi lo hanno fatto nel loro paese. È semplicemente, la strategia di compiere progressi laddove si possono ottenere i maggiori risultati. Ciò non esclude la solidarietà internazionale. Al contrario, è una condizione affinché tale solidarietà esista. Abbiamo bisogno di autentici partiti socialdemocratici che vincano le elezioni a livello nazionale, che inviino rappresentanti di sinistra al Parlamento europeo, al Consiglio e alla Commissione e keynesiani alla BCE. La lotta per gli investimenti, il recupero e contro l’austerità e le lobbies deve essere portata all’interno di queste istituzioni. Come raggiungeranno questo obiettivo i partiti politici transnazionali? È a livello nazionale (e locale) che le persone si relazionano alla politica. È lì che esistono i principali punti di forza.

Questo, naturalmente, non è come la vede Varoufakis. Come ha spiegato a The Independent, quasi otto anni dopo lo scoppio della crisi finanziaria la disoccupazione nell’UE è ancora a livelli di crisi, è due volte più alta che negli Stati Uniti e nel Regno Unito – i quali stanno ora raggiungendo ciò che gli economisti considerano la “piena occupazione”. Per cominciare, nessuno crede a queste statistiche. Ci sono milioni di disoccupati in questi paesi. “Se la disoccupazione fosse ancora stata al 10-11% nel Regno Unito o negli Stati Uniti, l’amministrazione sarebbe crollata” Varoufakis dice all’Independent. Come fa a saperlo? In Spagna, dove la disoccupazione è già oltre il 20%, il governo è fallito? È fallito il governo irlandese? Il principale partito di austerità dell’Irlanda è stato rieletto e il vecchio primo ministro è tornato al potere. Nessun partito transnazionale può cambiare questo. Ma possono farlo partiti socialdemocratici decenti, autentici ed etici, se sorgono. 

Nel testo originale sono presenti numerose note e rimandi visibili al seguente link:
Traduzione di Angela Zaccheroni 

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