sabato 7 maggio 2016

UN REDDITO GARANTITO CI VUOLE! MA QUALE ? strumento di libertà o gestione delle povertà*

*Da:    http://www.bin-italia.org/                           http://www.sinistrainrete.info/ 



Reddito garantito, tra concetti e preconcetti. Limiti e punti di forza di alcune proposte in campo di Elena Monticelli

Da alcuni anni il tema del reddito minimo in Italia ha assunto nuovamente una centralità e diverse forze politiche hanno iniziato a sostenere proposte che andassero nella direzione di introdurre una misura di quel tipo: il Partito Democratico, il Movimento 5 Stelle e Sinistra Ecologia e Libertà, le prime due proposte di legge d’iniziativa parlamentare, l’ultima invece una proposta di legge d’iniziativa popolare, che ha raccolto oltre cinquantamila firme di cittadini italiani. Il Partito Democratico, però, ha smesso negli ultimi due anni di sostenere la proposta formulata.

Contemporaneamente a queste proposte è emersa anche la proposta REIS (Reddito d’Inclusione Sociale) , una proposta di reddito di inclusione sociale nata dall’Alleanza contro la povertà in Italia, un cartello di soggetti aventi come promotori le Acli e la Caritas che si rivolge soltanto ai nuclei familiari al di sotto della soglia di povertà assoluta. Nonostante la campagna “Reddito di dignità” promossa dall’Associazione Libera contro le Mafie, l’iter per la calendarizzazione della discussione in Senato sulle due proposte di legge (quella del M5S e quella di Sel) si è arenato bruscamente. Nel frattempo lo scorso luglio 2015 è stato presentato dal Ministro del Lavoro Poletti il «Piano nazionale di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale», finanziato successivamente attraverso la Legge di Stabilità (L.28 dicembre 2015, n. 208), attraverso uno stanziamento per il 2016 quantificato in 600 milioni di euro ed uno stanziamento per il 2017 in Legge di Stabilità che ammonta ad 1 miliardo. Infine il Governo Renzi ha presentato lo “Schema di disegno di legge di delega recante le norme relative al contrasto alla povertà, al riordino delle prestazioni e al sistema degli interventi e dei servizi sociali”, cosiddetto Ddl Povertà. Il modello proposto da questo disegno di legge affonda le proprie radici nel SIA – Sostegno all’Inclusione Attiva, approvato durante il Governo Letta, caratterizzato da principi di universalismo selettivo, impianto familista, importo decisamente inferiore ai termini di adeguatezza previsti da uno schema di reddito minimo garantito e in ultimo da forme di condizionatezza legate a lavoro volontario.

Analizzando nello specifico questi elementi è possibile comprendere i canoni entro cui sta evolvendo (o meglio involvendo) la discussione sulle misure di sostegno al reddito in Italia, alla luce dei recenti sviluppi.

Per quanto riguarda l’impianto familistico della misura prevista dal Ddl povertà, può essere riassunto nella locuzione “garantendo in via prioritaria interventi per nuclei familiari con figli minori e con un ISEE inferiore a 3.000 euro”. Risulta evidente come tale criterio, oltre a restringere la platea dei beneficiari ad una residua percentuale 30% dei nuclei familiari al di sotto della soglia di povertà assoluta, escluda automaticamente tutte le famiglie senza figli, o con figli maggiorenni (magari disoccupati o Neet), nonché tutte le coppie di fatto anche se stabili.

L’enfasi rispetto alla titolarità individuale certamente caratterizza l’impianto del SIA rispetto alle proposte di Sel e M5S. Una titolarità che si esprime non solo nell’ esigenza che ciascuno riceva individualmente la sua quota di beneficio, ma anche nel fatto ciascuno ne possa fare richiesta singolarmente.

Unito al tema dell’individualità sembra essere del tutto scomparso dal dibattito italiano il tema del sostegno al reddito concepito non solo come strumento di lotta contro la piaga della povertà assoluta e relativa, ma come strumento di emancipazione da una condizione più generale di condizione di esclusione sociale. Il riferimento riguarda ovviamente la correlazione tra il tema del reddito ed il tema della vulnerabilità del lavoro, della precarizzazione sociale e del sempre maggiore aumento del fenomeno dei working poors, coloro che pur lavorando continuano a permanere in una condizione di povertà relativa.

Per questi motivi è importante recuperare un filo nell’analisi pubblica tra il tema delle misure di sostegno al reddito e la vulnerabilità che caratterizza l’attuale mondo del lavoro, soprattutto alla luce del fatto che la cesura tra l’esperienza passata e quella contemporanea del lavoro si misura anche dal rapporto tra lavoro e non lavoro, se pensiamo che ad oggi l’intermittenza rappresenti la caratteristica principale per molti lavoratori, tanto subordinati quanto autonomi.

Per questi motivi l’inadeguatezza di un sistema di protezione sociale, agganciato al solo lavoro subordinato, incardinato su un meccanismo assicurativo esclude tanti, troppi soggetti, proprio i più fragili ed esposti ai rischi, cui andrebbero rivolti strumenti universalistici.

Collegato a questi primi due temi è importante analizzare il tema della condizionatezza delle misure di sostegno al reddito, tema che ha assunto una centralità nel dibattito pubblico del nostro paese, tanto da risultare ormai una caratteristica irrinunciabile tanto del Ddl povertà del Ministro Poletti quanto di alcune proposte regionali, in primis la proposta “ReD” presentata dalla Giunta Emiliano in Puglia. Il Ministro Poletti, ad esempio ha sostenuto che, poiché la misura è sostenuta economicamente dai “cittadini italiani”, coloro che ne beneficeranno dovranno dimostrare la massima disponibilità, svolgendo determinate mansioni lavorative o impegnandosi a mandare i proprio figli a scuola. Eppure all’interno del Ddl povertà vi sono poche indicazioni sulle modalità con cui verranno garantite “l’attivazione e l’inclusione sociale e lavorativa” in particolare quando si fa riferimento alla “progettazione personalizzata da parte di servizi competenti di Comuni e Ambiti territoriali con piena partecipazione dei beneficiari”. Un riferimento simile è possibile ritrovarlo anche all’interno della proposta REIS ispirata a principi di welfare generativo: “si tratta di trasformare l’aiuto ricevuto con il REIS in ore di impegno che l’interessato offre in attività utili per la comunità e per se stesso. (…) Le attività possono essere svolte con le associazioni di volontariato, con i soggetti del Terzo Settore e con gli enti pubblici. (…) anche le forme possono risultare le più varie,spaziando dall’impegno orario nel volontariato o negli enti pubblici alla partecipazione a percorsi formativi e ad altre forme individuate dalla creatività locale.” La proposta pugliese ReD, invece, è caratterizzata da un vero e proprio “obbligo per adesione”, per tutti i componenti della famiglia beneficiaria. Quest’obbligo consiste in un impegno in attività di tirocinio o di formazione. Tali tirocini dovrebbero essere svolti presso imprese o privato sociale e la loro indennità concorrerebbe alla determinazione della misura (per una quota pari a 450 euro) . Di fatto la Regione Puglia si impegna a sottrarre il corrispettivo dell’indennità dal “ReD” erogando, in forma di sostegno al reddito una cifra del tutto irrisoria, in quanto la restante parte diventerebbe indennità per le prestazioni lavorative erogate.

Risulta evidente come, l’accento posto sulla condizionatezza, metta in secondo piano il ben più importante tema relativo alla congruità , per il quale laddove vi siano forme di “condizionatezza al lavoro” queste devono dimostrarsi all’altezza delle competenze e capacità del beneficiario e quindi congrue con le sue aspettative di vita e capacità1 . Si segnala, infine, la necessità di arginare possibili erogazioni di misure di sostegno al reddito legate all’anzianità di residenza o cosiddetta residenza qualificata2 , in quanto la stessa Corte Costituzionale, in diverse sentenze3 , ha più volte ribadito come quel requisito non rispetti i principi di ragionevolezza e di uguaglianza, perché introduce elementi di distinzione arbitrari. In altre parole non c’è una relazione tra la durata della residenza e le situazioni di bisogno e di disagio che sono il presupposto per accedere ai diritti sociali.

Per questi motivi l’intento dell’analisi non è muovere una critica tout court a misure contro la povertà, certamente necessarie, ma piuttosto sollevare una preoccupazione per un dibattito italiano totalmente appiattito su un’ontologia della povertà, che sembra da un lato tralasciare il tema dell’aumento delle disuguaglianze, quindi l’analisi delle vere cause alla base della povertà, dall’altra utilizzare la condizionalità come scusa, per razionalizzare le risorse pubbliche destinate al welfare ed i servizi pubblici essenziali.

La progressiva trasformazione del welfare pubblico in un sistema sempre più ridotto, da un punto di vista delle risorse e basato sulla coercizione, ben si concilia con il tentativo di privatizzazione del comparto pubblico, la riduzione dei diritti sul mercato del lavoro e con la tendenza ad accettare socialmente il lavoro gratuito. Nella costruzione di questo dibattito viene perciò elusa ed ignorata la necessità di misure di politica economica volte ad una reale redistribuzione di reddito e di ricchezza nel nostro paese. La sfida più grande, pertanto, risulta quella di reindirizzare il dibattito pubblico verso un’analisi che tenga insieme lo strumento del reddito con quello della lotta alle disuguaglianze, a partire dal modo con cui lo si può finanziare4 , per ridargli quella valenza di strumento emancipante, contro qualsiasi deriva di welfare privatizzato, condizionato e coercitivo rispetto a forme di lavoro non congruo o volontario.

Note:

1 Il termine “Universalismo selettivo” è utilizzato in letteratura per indicare delle politiche pubbliche volte all’assegnazione di servizi socio-sanitari sulla base di alcuni criteri, in particolare in base alla condizione reddituale dei singoli e delle famiglie. “Le poche risorse che ci sono devono essere meglio spese.” Sono queste le parole d’ordine dell’universalismo selettivo. A seguito delle politiche di austerità di questi ultimi anni, questo criterio è sempre più utilizzato in tema di politiche di welfare.
2 Sono gli stessi criteri utilizzati per l’erogazione della Social Card 2013 http://www.lavoro.gov.it/Notizie/Pages/20130507_NuovaSocialCard.aspx
3 Rispetto a questi temi si rimanda a G. Allegri, G. Bronzini, Libertà e Lavoro dopo il Jobs Act, Derive Approdi, 2015.
4 La proposta pugliese ReD è chiamata impropriamente Reddito di Dignità con l’obiettivo di rievocare l’omonima campagna promossa da Libera e BIN Italia e Cilap Italia.
5 Proposta Reddito d’Inclusione Sociale http://www.redditoinclusione.it/ , p.52 .
 6 In Italia la normativa che regola l’indennità dei tirocinanti si ricava dal combinato disposto tra l’art.1 co.34, lettera d) della legge 28 giugno 2012 n.92 (c.d. Legge Fornero) e l’art.
6 co. 2 dell’Accordo Stipulato dalla Conferenza Stato Regioni il 22 gennaio 2015 sul documento recante “Linee Guida per i tirocini di orientamento – formazione inserimento – reinserimento finalizzati all’inclusione sociale, all’autonomia delle persone ed alla riabilitazione”. Secondo tale disciplina la corresponsione dell’indennità di partecipazione al tirocinante avviene da parte dell’ente che lo ha preso in carico. In Puglia l’indennità è pari a 450 euro ai sensi L.R. 23/13 e il Reg. Regionale 4/14.
7 Per un ulteriore approfondimento si legga: Bin Italia, Reddito Minimo garantito, Trapani, 2012.
8 Con il termine “residenza qualificata” si indica uno status di residente della durata di un dato lasso temporale. L’emergere del requisito aggiuntivo di “qualificata” a quello di “residenza” ha però favorito l’aumentare di misure adottate dalle regioni per limitare a coloro che risiedono sul loro territorio la fruizione di vari benefici e prestazioni da esse erogati. Per ulteriori approfondimentisi legga: F.DINELLI, Le appartenenze territoriali. Contributo allo studio della cittadinanza, della residenza e della cittadinanza europea, Napoli, 2011, p. 139.
9 Si legga ad esempio, fra le tante, la sentenza n 432/2005 C.Cost. , di recente anche la n.2/2013 C.Cost e la n. 22/2015 C.Cost. 
10 Diversi economisti hanno calcolato come il reddito possa essere finanziato direttamente con una tassa sulla ricchezza sui redditi appartenenti al decile più alto della scala. Ad esempio Marta Fana su il Manifesto dell’11.06.2015 scriveva “In Italia, il 10% più ricco della popolazione detiene il 46% della ricchezza privata totale, cioè quasi 4 mila miliardi di euro (fonte Banca d’Italia): imponendo su questi patrimoni una “tassa di solidarietà sulla ricchezza” dello 0.05%, le finanze pubbliche otterrebbero potenzialmente un gettito pari a circa 19 miliardi di euro ogni anno. Per ristabilire un principio di equità bisognerebbe introdurre anche una vera tassazione sulle successioni che sia di tipo progressivo e non di fatto inesistente, data la soglia di esenzione a un milione di euro prevista dalla legge italiana.” 

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