domenica 20 marzo 2016

FRANCESCO VALENTINI, SOLUZIONI HEGELIANE* - Carla Maria Fabiani

"L'assoluto è fra noi", quest'espressione significa che le concezioni che fino a Hegel si sono avute dell'assoluto come di un qualcosa di non interamente dominabile dall'uomo, ormai sono comprese e, essendo comprese, liberano l'uomo dal timore che ci possa essere un qualcosa, un assoluto che lo trascenda o addirittura in qualche modo lo minacci. L'assoluto è fra noi, ma non per questo l'assoluto è compiuto; è cioè compiuta una concezione errata dell'assoluto, ma il sapere è un sapere sempre totalmente aperto. (F. Valentini)

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"La fenomenologia dello spirito nel pensiero si Hegel" - Francesco Valentini (https://www.teche.rai.it/1990/06/la-fenomenologia-dello-spirito-nel-pensiero-hegel/
 




Francesco Valentini, Soluzioni hegeliane, Milano, Guerini e Associati 2001 
*Da:  www.filosofia.it

L'oggettività è così quasi soltanto un involucro sotto il quale si trova nascosto il concetto. Nel finito non possiamo vedere o esperire che il fine viene veramente raggiunto. L'attuazione del fine infinito consiste così soltanto nel superare l'illusione che ancora non sia attuato. Il bene, ciò che è assolutamente bene, si compie eternamente nel mondo, e il risultato è che esso è già compiuto in sé e per sé, e non ha bisogno di aspettare noi. È questa l'illusione in cui viviamo e, al tempo stesso, è quest'illusione soltanto la forza operante su cui riposa l'interesse del mondo. [Soluzioni...p.233n] 

Torneremo, nel corso di questa breve recensione, sull'idea hegeliana del Bene e la sua genesi, seguendo il prezioso e limpido commento di Francesco Valentini. Emergerà, in chi si appresta a leggere Soluzioni hegeliane, l'esigenza di comprendere il pensiero di Hegel a partire da Hegel, e al contempo l'esigenza sarà pienamente soddisfatta. Sarà, per es., soddisfatta l'esigenza di chi voglia comprendere il realismo hegeliano, la soluzione offerta da Hegel al problema kantiano del Bene e della sua realizzazione; il lettore interessato, perciò, sospenda inizialmente il giudizio, se accogliere o meno le soluzioni proposte da Hegel, e segua fino in fondo la traccia che F. Valentini disegna così lucidamente attraverso tutta l'opera del filosofo. 

Dalla Prefazione: "Gli scritti raccolti nella parte prima di questo libro concernono temi particolari del pensiero di Hegel, i due della parte seconda sono dedicati alla filosofia di Eric Weil, pensatore nel quale la presenza di Hegel è molto forte, a nostro avviso dominante. E tale presenza è stata tematizzata. Anche questi scritti, dunque, possono considerarsi hegeliani." (p.11) 
I temi hegeliani trattati da F. Valentini nella prima parte del suo testo sono la società civile, il mondo della ricchezza, la moralità, le prime categorie della Logica, l'interpretazione dell'illuminismo, il sapere assoluto, la genesi della razionalità. I testi hegeliani cui l'A. fa riferimento sono la Fenomenologia dello spirito, la Scienza della logica, l'Enciclopedia, ma anche l'Estetica e la Filosofia del diritto; il sistema hegeliano viene presentato al lettore nella sua intima e viva articolazione, un'opera che si vuole in sé completa, tuttavia 'plastica' e soprattutto comunicante. 

Se la difficoltà della comunicazione filosofica è avvertita da più parti non solo come problema ma come condizione stessa del filosofare, le soluzioni proposte da Hegel al riguardo, e presentateci qui dall'A., hanno lo scopo dichiarato di sciogliere il nodo intorno a cui le filosofie della riflessione, del dualismo, del finito, e del problema, continuamente si alimentano. "È solo con il superamento delle filosofie della riflessione che l'uomo può veramente dirsi libero, ossia del tutto al riparo dalla paura degli dèi e dalla paura dell'Oggetto. Ed è questo dato essenziale […] che giustifica la nozione di sapere assoluto, espressione di eventi essi stessi assoluti. Il qual sapere assoluto non è, come molti stranamente dicono, un sapere definitivo e inerrante, […] ma è un sapere che ha in sé e in sé soltanto la sua misura. Ma è appunto un sapere […]." (p.12) 

Le critiche rivolte a Hegel - allo Hegel politico, alla <chiusura> del sistema, alla dialettica infedele a sé stessa, alla fine della storia, al logocentrismo - sono a più riprese considerate dall'A., anche con precisi riferimenti bibliografici in nota, rappresentando nel loro complesso "un caso particolarmente interessante nella storia della critica filosofica, perché non sembrano tenere conto di un dato elementare, cioè del fatto che Hegel considerava la filosofia come memoria e come espressione del proprio tempo, non solo, ma anche come indizio sicuro di una crisi del tempo, e perciò di sua natura ritardataria." (p. 14) 

Questo semplice fraintendimento che tuttavia persiste - Ricoeur e il suo coraggio di <rinunciare a Hegel> o di considerarlo 'solo' come un interprete - deve pur avere le sue ragioni, e l'A. indica nella <rivincita delle filosofie della riflessione> la ragione fondamentale di questo qui pro quo: il "bisogno di tornare a una filosofia che parta dall'individuo e sottolinei la sua tensione ineludibile verso l'Essere, a una filosofia del timor Domini e in ogni caso del problema. […] L'hegeliano <coraggio della verità> diventa così coraggio del dubbio, virile incertezza,[…]. Il Finito diventa principio ultimo di spiegazione: è l'individuo Napoleone che spiega la sua opera politica, e non - come sembra evidente - la sua opera politica che spiega Napoleone." (pp. 15-17) 

Nella seconda parte del testo l'A. commenta la Logica della filosofia di Eric Weil, concentrandosi sull'insoddisfazione manifestata da Weil nei confronti proprio della nozione hegeliana del sapere assoluto, ritenendo quest'ultimo che Hegel abbia lasciato incolmata la distanza tra il sistema e la realtà rispecchiata. "Weil non trova in Hegel il concetto di azione ragionevole, concetto che ritiene la scoperta essenziale del pensiero moderno e che si deve a Kant. […] L'esigenza di Weil è quella della stretta unità del momento teoretico e del momento pratico […]. In realtà l'uomo d'azione […] nell'atto dell'agire <dimentica> il vero […]. Ci sembra cioè ineliminabile una quasi-estrinsecità tra l'intendere e il volere, tra chi vuole conoscere il mondo e chi vuole cangiarlo, in ultima istanza tra il Passato che è il luogo del Vero e il Futuro che realizza il Bene. […] Di tutto ciò si troverà un qualche svolgimento in queste pagine. E si vedrà che, a nostro avviso, non si tratta di tornare a Kant dopo Hegel, ma piuttosto di ripensare Kant attraverso Hegel e anzi apud Hegel" (pp.18-19) 

Per il lettore interessato al pensiero e all'opera di Hegel, Soluzioni hegeliane, questa raccolta di saggi di F. Valentini, giunge non solo opportuna ma decisiva, ai fini della ricerca filosofica e soprattutto della comprensione dei testi hegeliani, della loro connessione reciproca, senza con ciò che si corra il pericolo, avvertito certamente da chi vi si immerge anche con attenzione, di perdersi; di perdere quel nesso teoretico, su cui l'A. insiste più volte e sul quale il sistema hegeliano si fonda. 

Le opere e gli scritti hegeliani, primo fra tutti la Fenomenologia, ci parlano al passato, ci parlano di un processo compiuto, di un divenire storico rimirabile perché conchiuso, divenuto e approdato a un risultato fermo e liberissimo: "Questo lungo cammino è giunto al suo termine al tempo di Hegel, nella cultura che Hegel elabora, e nello stato moderno. Il Razionale vive in quella cultura come la grammatica vive nel concreto linguaggio, e il razionale è nello stesso tempo il <<liberissimo>>, non ha nulla fuori di sé che lo limiti. Qui il discorso si chiude, e tutto rimane, come oggi si ama dire, totalmente aperto." (p. 17) 

Vediamo allora in particolare uno dei temi trattati nella presente raccolta di saggi: l'inizio della Logica. Seguirà poi una breve intervista all'Autore, che ci auguriamo sarà gradita non solo a coloro che già conoscono gli studi e gli insegnamenti di Francesco Valentini, ma soprattutto a chi ancora non ha avuto modo e privilegio di conoscerli. 

Le prime categorie della <Logica>. 

È il quinto dei saggi dedicati da F. Valentini a Hegel; chi ha letto il testo di riferimento (il primo capitolo della Logica), chi ha familiarità con le critiche rivolte al "passaggio cruciale", dal DIVENIRE all'ESSERE DETERMINATO, conosce l'andamento dei nessi stabiliti da Hegel tra quelle prime categorie (ESSERE-NULLA-DIVENIRE) e sa che sulla presunta non plausibilità di quei nessi viene messo in discussione tutto l'edificio della Logica. 

Cominciare a pensare, pensare senza ancora poter determinare (né parlare), eppure scegliere di pensare. L'esperienza logica del Cominciamento appare senza dubbio paradossale e per certi versi aporetica; un'esperienza tuttavia pienamente inserita da Hegel all'interno della sua Logica, all'inizio, come il momento più astratto se considerato con gli occhi di chi già pensa secondo categorie più concrete, determinando il suo pensiero. 

Ma, ed è questo il problema sollevato dalle obiezioni classiche, come avviene il passaggio al Dasein ? Come avviene che da un'esperienza a stretto rigore prelinguistica, indeterminata, eppure logica, si passi al logos vero e proprio, cioè al pensiero e al linguaggio determinati e correlati ? 

Il passaggio è dialettico ? Segue cioè lo schema classico hegeliano della negazione della negazione ? L'essere determinato risulterebbe così dal dileguare del dileguare ? Come se il secondo dileguare arrestasse il primo ? Se così fosse, la negazione determinata sarebbe surrettiziamente già operante all'interno di quella astratta triade che volevasi, da parte di Hegel, mantenere nell'indeterminatezza più assoluta. "Riteniamo che Burbidge veda benissimo che le prime tre categorie siano in sostanza una sola categoria, una monotriade. Ma non crediamo che il famoso passaggio al Dasein debba essere inteso dialetticamente. Crediamo anzi che in questo primo capitolo lo schema dialettico non sia operante, che ci si muova invece nel campo dell'opinione e dell'ineffabile e che la Logica per così dire cominci con l'essere determinato, perché non può non cominciare con il linguaggio." (pp. 144-145) 

L'A. espone sinteticamente alcuni punti del testo hegeliano, prende poi in considerazione l'ineffabile e l'astratto, così come lo intende qui Hegel, e riflette su alcuni testi della Fenomenologia, per poi concludere sul significato ultimo delle prime categorie della Logica. L'indeterminato, l'immediato ESSERE parmenideo è la prima categoria, ovvero il NULLA, poiché "Nulla si deve presupporre […]. Bisogna considerare il pensare come tale, e questo […] è frutto di una decisione che si può considerare arbitraria: si sceglie il discorso e la ragione." (p.146) Ma il movimento evanescente e istantaneo dall'ESSERE al NULLA e viceversa, ovvero il DIVENIRE stesso, non continua all'infinito. Precipita in un risultato calmo. Il DIVENIRE è sì una unione contraddittoria, ma che si distrugge da sé stessa. "Si tratta pur sempre di passaggi immediati, diremmo automatici, non di contraddizioni che si risolvono."(p.149) 

Il punto di vista logico del DIVENIRE è la <pura riflessione del cominciamento>, per intenderci quella hegeliana, l'autoriflessione che rispecchia il movimento stesso dei concetti, la quale non sa ancora che l'iniziale monotriade è l'indeterminato (risultato di un'astrazione), "onde - dice ancora Hegel - il Nulla prorompe immediatamente nell'Essere e non si incorpora con lui. L'autoriflessione mostra un tentativo di pensare, un opinare, un altalenare di Essere e Nulla, mentre la riflessione astratta mostra una quieta astrazione, l'Indeterminato" (p. 151) 

Dunque, l'ineffabile (questa astratta e rarefatta atmosfera mentale) "non è una semplice illusione. E che cosa è. È il tentativo di esprimere quella esperienza singolare di fatti singolari e talora inconsci, di cui Hegel parlerà nella prima parte dello Spirito soggettivo, l'Antropologia, e che ha il suo equivalente nel mondo della vita della Fenomenologia […]. 

Si tratta del puro vivere in una condizione di semicoscienza, in cui rientrano largamente manifestazioni patologiche o extranormali." (pp. 154-155) Si tratta dell'<anima>, intesa da Hegel proprio come eterno passato dello spirito, come sonno-sogno dello spirito, la cui fenomenologia anticipa la fenomenologia lucida della coscienza. "È una sorta di ombra che precede la luce, caratterizzata da un'ottusa quasi-indifferenza tra me e le cose e da un'originaria simpatia tra anima singola e anima del mondo." (p. 155) 

Le esperienze sopra descritte, allora, possono essere considerate prelogiche, suscettibili di diventare irrazionali e patologiche, quando non riescano a svilupparsi secondo logica o quando il tentativo di pensare non scelga definitivamente il pensiero determinato e la ragione. Nella storia della filosofia il primo che ha tentato di pensare senza determinare "e si è innalzato al regno dell'idea è stato Parmenide. Tentativo importantissimo ma non riuscito appunto perché tentativo e non ancora vero pensiero.[…] E non escluderemmo che certe odierne tendenze ad andare al di là dell'ente, del determinato, verso l'Essere possibile non resisterebbero alle classiche critiche di Hegel." (p.157) 

BREVE INTERVISTA AL PROF. FRANCESCO VALENTINI 

Le vorremmo cortesemente rivolgere, a conclusione della nostra recensione, tre domande, e precisamente la prima proprio sul <passaggio cruciale> dal DIVENIRE all'ESSERE DETERMINATO, la seconda sull'idea del Bene, così come Hegel ne parla alla fine della Logica, e l'ultima sul rapporto fra la società civile e lo Stato descritti da Hegel nella sua Filosofia del diritto. 

1 Domanda 
Abbiamo visto, nel suo saggio dedicato all'inizio della Logica, che la Ragione hegeliana si mostra come una conquista storico-filosofica moderna (a far tempo da Parmenide), ma anche semplicemente come il risultato di una scelta. Volevamo sapere da Lei, a questo proposito, se sia proprio questo carattere quasiarbitrario dello scegliere (di pensare, di parlare e determinare) a giustificare l'immediatezza del passaggio dal DIVENIRE all'ESSERE DETERMINATO. Là dove l'astrattezza dei contenuti ci rimanda a sfere prelogiche e inconsce del pensiero, l'uomo hegeliano, per così dire, ha difronte a sè la realtà concreta e in suo pieno possesso la capacità di esprimerla. La scelta, allora, sembra essere quasi scontata: ci sono tutte le condizioni favorevoli al pensiero determinato, manca solo il sì, irrinunciabile e 'irriflesso', di chi potrebbe comunque sempre scegliere diversamente. 

Risposta 1 
Il passaggio dal Divenire all'essere determinato - così ho creduto di interpretare - non è un passaggio dialettico (una negazione della negazione), ma un passaggio immediato, una scelta che mi fa passare dall'ineffabile al dicibile, dall'opinare al pensare. La natura immediata di questo passaggio ripropone il passaggio dalla Certezza sensibile alla Percezione nella Fenomenologia. Qui abbiamo l'intervento di un fattore non linguistico, l'indicare, mediante il quale la terza esperienza della sensibilità trapassa nella percezione, e posso finalmente pensare la cosa con le sue proprietà (il famoso cristallo di sale). Loro si domandano che rapporto vi sia tra questa scelta di pensare il determinato dopo il Divenire e l'originaria scelta di pensare, che Hegel pone all'inizio e come inizio della Logica. In effetti Hegel dice che il cominciamento della Logica non ha presupposti (altrimenti non sarebbe cominciamento): infatti esso coincide con "la risoluzione (che si può riguardare anche come arbitraria) di voler considerare il pensare come tale". Questa scelta, secondo Hegel, si deve a Parmenide. Inutile aggiungere che Hegel non vuole dire che prima di Parmenide non si pensasse: Hegel sostiene che con Parmenide si prende coscienza della natura del pensare, si considera il pensare come tale. Parmenide dunque sceglie di pensare e comincia a pensare, e tuttavia non pensa ancora nel pieno senso del termine, tenta di pensare. E ciò è confermato dalla lettera del testo di Hegel. Le definizioni delle prime categorie non sono vere definizioni, sono soltanto nomi: "Essere, puro essere"; "Nulla, il puro nulla": due universali vuoti come l'Ora e il Qui della Certezza sensibile nella Fenomenologia. A rigore, questi semplici nomi non sono ancora linguaggio, perché il linguaggio implica l'articolazione intellettuale. Si tratta dunque di un semplice cominciamento, di un'alba di pensiero a cui segue il passaggio immediato all'essere determinato. E qui direi che le due scelte coincidono, la prima, quella apparentemente originaria, onde decido di pensare, è la scelta storica di Parmenide, la seconda, quella del passaggio dal Divenire all'essere determinato, è la scelta del Parmenide "autocritico", cioè del Parmenide interpretato da Hegel. E questa scelta rende intellegibili ex post le prime tre pseudocategorie. Loro si domandano se la scelta non sembri quasi scontata, se non c'erano tutte le condizioni per effettuarla. Credo che si possa rispondere distinguendo . La scelta è stata libera e, in questo senso, contingente; ma è pensata come necessaria. E ciò è tipico della mentalità di Hegel. Pensatore eminentemente storico, egli interpreta i fatti ricercandone la razionalità, beninteso quella che a lui sembra essere la razionalità, ossia la progressiva presa di coscienza della libertà umana. Il che implica anche una visione selettiva degli accadimenti. Stabilito o "stipulato" ciò, la "doppia verità" libertà-necessità è la Verità. 

2 Domanda 
Vogliamo tornare, riprendendo la citazione hegeliana di apertura, sull'idea del Bene e sulla sua genesi. Nel suo saggio su La virtù, il corso del mondo, la razionalità, l'ottavo della raccolta, Lei prende in considerazione il quinto capitolo della Fenomenologia, le figure dell'uomo della virtù e dell'uomo del corso del mondo; analizza e commenta poi lo stretto e necessario rapporto che intercorre fra di esse, spiegando come per Hegel la razionalità dell'agire o il Senso della storia, si venga formando, in età moderna, attraverso una presa di coscienza da parte dello <spirito>, consapevole ormai di essere a casa propria come nel mondo e nel mondo come a casa propria. Successivamente, Lei si sofferma su un altro testo hegeliano, l'ultimo capitolo della Logica, là dove Hegel parla proprio dell'idea del Bene, distinguendo l'atteggiamento pratico da quello teoretico, e impostando il rapporto fra i due in modo confessatamente kantiano, riuscendo tuttavia a sciogliere le difficoltà che i postulati kantiani presentavano in sede sia morale sia teoretica. A questo proposito, Le volevamo chiedere in che senso la soluzione proposta da Hegel - il sillogismo del Bene - ci fa dire, insieme a Sartre che Lei cita in conclusione del saggio, che al dunque siamo <condannati> a essere liberi; la libertà essendo così avvertita come un peso dell'esistenza. 

Risposta 2 
La reminiscenza sartriana, il "siamo condannati a essere liberi", non vuole alludere alla libertà come peso dell'esistenza. Vuole alludere invece - e direi che nello stesso Sartre, nel Sartre filosofo della libertà, c'è questo motivo - vuole dunque alludere alla morale della responsabilità e - aggiungerei - alla durezza di Hegel nei confronti del singolo. Penso specialmente all'ultima parte del quinto capitolo della Fenomenologia, in cui la Cosa stessa, come Hegel dice, cioè il corso storico e la sua razionalità, ricomprende in sé l'azione del singolo, che fatuamente ne rivendica la proprietà. La pietra lanciata dalla mano è del diavolo, dice Hegel riprendendo un antico proverbio. Agendo mi espongo ai voleri della Fortuna, cioè la mia azione si intreccia con quelle altrui e con il complesso delle circostanze, la Cosa stessa ora accennata. E tuttavia la Cosa stessa non mi è estranea, perché si appunta nell'autocoscienza, è la "mia" Cosa, ho comunque contribuito a produrla. È stato detto che in guerra non vi sono vittime innocenti, e Hegel potrebbe condividere questa espressione che allude alla universale responsabilità. Per un verso dunque la mia azione è poca cosa, perché è destinata a perdersi nel miro gurge del corso storico, per un altro verso il corso storico mi appartiene o - ma in questo caso è la stessa cosa - io appartengo al corso storico. Hegel spinge sino in fondo la sua geniale tesi. Il corso storico ha la sua logica di fronte a cui l'opera del singolo è irrilevante. Persino il famoso grand'uomo di Hegel, Alessandro magno, Giulio Cesare, non sono dei veri creatori, non somigliano per nulla agli uomini di Nietzsche o di Carlyle, perché la loro azione non va oltre il portare alla luce una situazione virtualmente presente. La repubblica romana era virtualmente cesariana quando Cesare vi dispiegò la sua azione politica. Hegel infatti parla di un "cupo tessere dello spirito", cioè di un corso delle cose che si viene svolgendo inconsciamente, sicchè l'uomo d'azione interviene a cose quasi fatte, l'uomo di pensiero, il filosofo, interviene a cose fatte e anzi quando la situazione non solo si è consolidata, ma è già in crisi, sta per mutare (l'uccello di Minerva che inizia il suo volo al crepuscolo). Potrebbe sembrare che questa dottrina possa spingere a un atteggiamento quietista: se la mia azione è poca cosa non vale la pena di impegnarsi troppo. E invece abbiamo visto che l'atteggiamento hegeliano è di assoluta responsabilità. Certo la mia azione è eminentemente rischiosa, può perdersi nel non-senso e comunque solo tardi, solo a processo compiuto saprò o altri saprà quale sarà stato il risultato e quindi il significato del mio impegno. Ma nel mio agire devo credere (qui il temine è appropriato) di realizzare il Bene (l'ineludibile motivo kantiano). È una illusione necessaria che governa la mia libertà. E Hegel mostra che sfuggire a questa libertà è impossibile perché è impossibile sfuggire alla mia essenza di uomo. 

3 Domanda 
Le volevamo porre un'ultima domanda. Questa volta in riferimento a una questione particolare, trattata ampiamente da Hegel nella Filosofia del diritto, e da Lei presentata nel primo saggio della raccolta dal titolo Aspetti della <società civile> hegeliana. Rimandiamo il lettore direttamente al testo del saggio, estremamente interessante e chiaro nell'esposizione, poiché qui vogliamo solo suggerire quanto segue. Lei afferma che l'<alienazione> della società civile descritta da Hegel - nella Filosofia del diritto ma anche nel VI capitolo della Fenomenologia - è solo apparentemente vinta dalla corporazione e dallo Stato; ossia, il passaggio dalla logica economico-civile della società moderna a quella dello Stato politico, non risolve appieno l'estraneazione che pure Hegel aveva indicato come il carattere specifico del mondo smithiano della ricchezza, dell'utile e dell'economia politica. D'altra parte, Lei dice, Hegel si mostra consapevole non solo di questa 'mancanza' interna al passaggio (non del tutto tesaurizzatore), ma ne mostra anche il connaturato aspetto negativo, e cioè a dire, la formazione della plebe in sede civile rimane un problema aperto e un fattore di irrazionalità nella costruzione politica hegeliana, ovverosia nello Stato moderno descritto da Hegel. Alla luce di quanto si è detto, sembrerebbe che la soluzione qui avanzata da Hegel sia piuttosto una constatazione disincantata del persistere, nell'eticità civile e politica, di una contraddizione irrisolta: il 'nervo scoperto' (scoperto appunto da Hegel) della società civile, e cioè la produzione di una massa d'uomini esclusa sostanzialmente dalla possibilità economico-politica di riprodursi, è ciò che, in ultima istanza, contraddistingue la modernità di questa società e di questo Stato. Ma è questa, o ci siamo sbagliati, la lettura che Lei dà di questo passaggio hegeliano? 

Risposta 3 
Certamente. Questa è la lettura che ho creduto di dover fare della filosofia politica di Hegel. Il suo Stato - e bisogna dire che ancora una volta Hegel è nostro contemporaneo - porta con sé due problemi irrisolti, il problema della guerra e il problema della plebe. I testi sono chiarissimi. Verso la fine della Filosofia del diritto del 1821, al § 333, Hegel dice che gli stati sono "nello stato di natura gli uni di fronte agli altri", stato di natura dunque e non di diritto. La loro sorte dipende dalla loro volontà particolare, e l'eventuale conflitto non può essere risolto se non con la guerra. E notiamo che Hegel definisce la guerra una "condizione di non giuridicità, di violenza e accidentalità". Aggiungiamo ancora che Hegel critica la concezione kantiana della pace perpetua, perché sostiene che una lega di stati, come quella prevista da Kant, sarebbe pur sempre un intreccio di volontà statali particolari, e dunque sarebbe affetta da accidentalità. Manca una "volontà universale costituita a potere", che quindi stia al di sopra delle volontà dei singoli stati. In sostanza manca uno stato mondiale. Ed è la violenza in ultima analisi a decidere. La violenza troviamo anche all'interno e, diremmo, contro la costruzione razionale dello stato moderno, e la troviamo nella formazione della plebe. La plebe, frutto del movimento dell'economia, compare nella "società civile", ma riaffiora nella trattazione dello stato, quasi a confermare che la razionalità dello stato non riesce ad averne ragione. Nell'annotazione al § 301, sempre della Filosofia del diritto del 1821, leggiamo che "appartiene all'opinione della plebe, al punto di vista della negatività in generale", presupporre nel governo una cattiva volontà. La plebe è infatti un fattore di sovversione che potrebbe, se dovesse svilupparsi, mettere in pericolo l'unità dello stato, generando una sorta di anarchia, cioè di lotta tra le varie componenti sociali. Bisogna perciò evitare il formarsi della plebe. E Hegel allude a degli interventi che evitino il degradarsi delle vite individuali, favorendo l'accesso al lavoro, cioè favorendo il realizzarsi dell'etica della società civile, fondata appunto sul lavoro individuale come fonte della propria sussistenza. Oggi diremmo diritto al lavoro e dovere di esercitare questo diritto. Ma è ciò possibile? La trattazione di Hegel non lascia dubbi. È interessante notare che Hegel, dopo aver detto che i vari interessi devono essere regolati e governati, aggiunge che la garanzia della partecipazione dei singoli alla ricchezza generale è sottoposta a varie accidentalità (ancora quella accidentalità, che abbiamo incontrato nei rapporti tra stati. In questo caso condizioni di salute, di attitudini, di proprietà dei singoli). Ma scrive anche : "senza dire che questa garanzia deve restare incompiuta". Questo "deve" è in tedesco muss, come dire "non può non": vuol designare una sorta di necessità quasi naturale, di quella seconda natura che è il meccanismo economico. Il qual meccanismo economico dà luogo alla formazione della plebe, cioè di una massa di uomini che decadono al di sotto di quello che oggi diremmo il minimo vitale, con gravi conseguenze anche di ordine morale. Inoltre la formazione della plebe "al tempo stesso porta con sé, in cambio, la più grande facilità di concentrare in poche mani ricchezze sproporzionate". Hegel non precisa altro, ma è probabile che pensi alla "utilità" dei bassi salari. Ora, evitare la formazione della plebe non è possibile. Non è possibile mediante interventi umanitari, privati o pubblici, perché, a parte la loro inevitabile accidentalità, essi sarebbero contrari all'etica della società civile che implica che ciascuno provveda a sé col suo lavoro. E non è possibile col ricorso a nuove occasioni di lavoro, perché in tal modo la produzione aumenterebbe, ma non aumenterebbe con questo il consumo, e quindi si avrebbero difficoltà insormontabili per la produzione successiva. E infine Hegel si riferisce, in particolare pensando all'Inghilterra, al colonialismo, cioè alla creazione di una nuova società civile in altra regione. Ma è evidente che ciò sposterebbe e non risolverebbe il problema. Appare dunque chiaro, come Hegel dice, che la società civile, per quanto ricca, non è ricca abbastanza e genera povertà accanto a ricchezza. E bisogna notare che in tutto questo Hegel è fedele a Smith, che chiaramente lo ispira: Smith infatti parla della ricchezza individuale come fattore di benessere generale, ma parla anche del fatto che per ogni uomo ricco occorre che vi siano almeno cinquecento poveri e che l'abbondanza di pochi presuppone l'indigenza di molti. È dunque il meccanismo economico che genera l'ineguaglianza come in un processo naturale. Ma Hegel non manca di sottolineare la differenza. Mentre nei confronti della natura, egli dice, non si possono invocare diritti, nella società l'indigenza prende forma di un'ingiustizia patita da questa o quella classe sociale. Onde questo problema agita e tormenta le società moderne. Potremmo aggiungere: comprese le nostre società. Se leggiamo, per esempio, quanto ha recentemente scritto Amartya Sen, Nobel dell'economia del '98, a proposito della mondializzazione, troviamo che nell'essenziale non dice molto più di quanto Hegel diceva dell'economia del suo tempo. 


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