domenica 21 febbraio 2016

CHARLES BETTELHEIM: L'URSS ERA SOCIALISTA?*

*Da:   http://www.palermo-grad.com/

Ma cos’era il socialismo reale? Bettelheim invita a ragionare sul fatto che non è sufficiente volgere lo sguardo alla questione della pianificazione economica ma occorre anche concentrare l’attenzione sull’insieme dei rapporti politici, sociali e ideologici di una formazione sociale. Da qui, per chi scrive, la necessità quanto mai attuale nel tempo della crisi sistemica scaturita nel 2007 dalla scandalosa gestione dei mutui subprime, di tornare, da un lato, a studiare la storia dell’URSS e, dall’altro, di tenere presente che la storia del comunismo non si può ridurre alla narrazione delle vicende del bolscevismo né, tanto meno, della burocrazia e dei gruppi dirigenti sovietici. Il comunismo non è stato partorito da personalità eccezionali, anche se queste indubbiamente non mancarono, ma è stato una grande elaborazione collettiva, che ha dato vita a una storia esaltante e tragica al tempo stesso. Il protagonista di questa esperienza capitale è stato il movimento operaio le cui istanze sociali e politiche si voleva che costituissero i germi di una nuova civiltà.

E non è tutto: veniamo al tema centrale rappresentato dalla difficoltà di realizzare, all’interno del mercato mondiale, un sistema di rapporti di produzione socialisti. La presenza delle categorie di mercato nell’ambito delle formazioni sociali di transizione (socialismo reale) rimanda, infatti, al problema dell’esistenza delle condizioni oggettive che determinano la comparsa e la persistenza della forma valore. All’interno di una particolare formazione sociale di transizione la questione della sopravvivenza della forma valore rinvia, a sua volta, all’insieme dei rapporti di produzione, circolazione e consumo che si esplicitano in una dinamica di sfruttamento e  che vengono nascosti e dissimulati proprio dalla forma valore. Da qui il bisogno di risalire ai rapporti di produzione e di sostituire, per ciò che riguarda la loro analisi teorica, uno spazio omogeneo come quello dell’economia politica non marxista con uno spazio strutturato e complesso che non rimuova il problema del rapporto salariale che sottomette la forza lavoro all’esigenza dell’incremento del valore. Del resto, su questo versante Charles Bettelheim partecipava di quel salutare clima di rinnovamento culturale del marxismo critico che lo vedeva, insieme a intellettuali del calibro di Louis Althusser, figurare, come membro del gruppo “Spinoza”, ai seminari presso l’École normale supérieure de la rue d'Ulm di Parigi animati dall’autore di Per Marx e di Leggere il Capitale. 

Il teorico dell’economia rilanciava per le società socialiste in transizione, e dunque non ancora sviluppate, la celebre analisi marxiana del primo libro de Il Capitale sul feticismo della merce, secondo cui dietro la forma fantasmagorica del rapporto fra cose si cela un rapporto sociale determinato fra gli uomini stessi. E tutto questo nonostante il fatto che nei paesi in transizione vi fosse una proprietà da parte dello Stato dei mezzi di produzione, con la conseguente pianificazione, non tradottasi peraltro in proprietà sociale dei produttori immediati.

E qui si perviene, così, all’ultimo punto della nostra riflessione sul lavoro teorico di Bettelheim. La pianificazione, modificando, almeno in parte, le modalità del rapporto sociale di produzione e, dunque, le forme dell’interdipendenza tra i diversi lavori del processo sociale di produzione, può innescare realistiche dinamiche di controtendenza rispetto al pericolo di ricaduta all’interno di relazioni a dominanza capitalistica. Ma tutto questo si verifica solo nella misura in cui lo Stato, e le istituzioni politiche, economiche e amministrative che da esso dipendono, coordinano realmente e a priori l’attività produttiva, implementando la cooperazione organizzata su scala sociale, in funzione della partecipazione effettiva delle masse. Di fronte al problema della burocratizzazione e della gerarchizzazione della società sovietica Bettelheim ribadiva la necessità che la realizzazione del piano fosse vincolata all’effettivo controllo, da parte dei produttori immediati, delle condizioni di produzione e di riproduzione. Solo il dominio sociale dei lavoratori sui mezzi di produzione e sui prodotti avrebbe tendenzialmente portato alla eliminazione della funzione della moneta e alla scomparsa dei rapporti di mercato. Se così non fosse stato, si sarebbero configurate forme di intervento “tipiche del capitalismo di Stato” con una direzione in grado di esercitare un forte controllo dal vertice e, prima o poi, ribadiva profeticamente lo studioso di economia, si sarebbe verificato un ritorno ai rapporti di mercato e ai rapporti di lavoro salariato assicurando, per questa via, un sostanziale dominio al modo di produzione capitalistico.
(Giovanni Di Benedetto)
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Il testo che affrontiamo oggi, Calcolo economico e forme di proprietà (1970) parte dalla domanda fondamentale che l’autore formula nella prefazione: “L’Unione Sovietica è socialista?”.  Per analizzare tale forma di produzione, Bettelheim cerca di far ricorso ad una teoria della transizione, considerato che di società socialista sviluppata non si può parlare, per stessa ammissione di Stalin e dei suoi successori.

Per rispondere a questo interrogativo e per sviluppare la riflessione su una teoria della transizione, l’autore parte da alcuni passi dell’Engels dell’Anti Duhring, in particolare quelli che riguardano la pianificazione: “La produzione immediatamente sociale, così come la distribuzione diretta, escludono ogni scambio di merci, quindi anche la trasformazione dei prodotti in merce… e conseguentemente escludono anche la loro trasformazione in valori” (cit. a p. 17); “…la società non assegnerà valori ai prodotti…Certo anche allora dovrà sapere quanto lavoro richiede ogni oggetto di uso per la sua produzione…Il piano, in ultima analisi, sarà determinato dagli effetti utili dei diversi oggetti di uso… senza l’intervento del famoso ‘valore’” (cit. a p. 18).

Eppure nessuna delle economie del socialismo reale negli anni in cui scrive l’autore realizza le previsioni di Engels. I calcoli economici non si fanno sulla base del tempo di lavoro per calcolare la forza lavoro necessaria agli “effetti utili”. Anzi il calcolo monetario ancora attraverso l’utilizzo dei prezzi di scambio, ancorché a volte pianificati, porta ad escludere che la teoria del valore sia superata in URSS e negli altri paesi socialisti.

Bettelheim distingue il calcolo economico sociale e il calcolo monetario e afferma che il secondo spesso soverchia il primo.

Onde poter osservare le prescrizioni di Engels occorrerebbe che: “gli uomini debbano darsi i mezzi per paragonare tra loro gli effetti sociali utili dei diversi oggetti d’uso e di porli in rapporto alle quantità necessarie a produrli: questa è una necessità per l’impostazione del piano”. Rimane il problema di una misura degli “effetti sociali utili” (o utilità sociale della produzione come la chiama l’autore) che, come rileva Marx fin dalle prime pagine del Capitale, non fa riferimento alle proprietà fisiche bensì ad una misurazione dell’utilità sociale ovvero la soddisfazione dei bisogni sociali (Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni! – Critica al Programma di Ghota). Nel modo di produzione capitalistico il discorso è più semplice perché la misura del valore, attraverso il lavoro socialmente necessario a produrre, si inserisce in un sistema di prezzi che ha lo scopo, attraverso lo scambio, di ottemperare all’imperativo sociale dell’appropriazione del plus-lavoro (pag. 26). Laddove il calcolo economico – concetto che ritroviamo nel titolo del libro – dovrebbe secondo Bettelheim essere invece un metodo di misurazione che tenga conto dell’utilità sociale della produzione.

Tale problema della misurazione dell’utilità sociale risulta di difficile soluzione se non si superano alcuni ostacoli. Una prima categoria di ostacoli è rappresentata dall’ineguaglianza nei rapporti di produzione socialisti, e dall‘esistenza del mercato mondiale. Mercato mondiale che è uno dei problemi che Bettelheim vede come principali, soprattutto nei paesi in via di sviluppo che dipendono dalle regole imposte dai poli imperialisti. La conseguenza di questa situazione è la sopravvivenza della forma valore. La domanda posta da Marx era perché il tempo di lavoro e i rapporti dei tempi di lavoro dei singoli produttori non si manifestassero fenomenologicamente tali, assumendo invece la forma del valore (qui si aprirebbe una questione molto complessa, per la quale rimando agli incontri della passata stagione seminariale, ovvero il problema della trasformazione dei valori in prezzi, del prezzo come forma fenomenologica del valore lavoro). L’analisi del valore che si manifesta come forma ci obbliga a “produrre il concetto” di rapporto sociale ed in particolare quello di rapporto di produzione.

La forma valore è quindi l’espressione di una identità di contrari, ovvero un lavoro privato che deve manifestarsi anche come lavoro sociale: lavoro astratto mediante il quale vengono riprodotte le condizioni sociali di riproduzione (riguardo al concetto di lavoro astratto si consiglia la lettura di  Claudio Napoleoni in Smith, Ricardo, Marx – 1970 e Lezioni sul capitolo sesto inedito di Marx - 1972).

Lavoro astratto, dunque, inteso come attività scissa dalla soggettività dei singoli, che si rapporta al capitale in forza di una contrapposizione e che non ha altro prodotto possibile che il valore di scambio. In pratica in questa parte del libro Bettelheim spiega un po’ la teoria del valore, concentrandosi in particolare sulla forma valore per criticare successivamente le economie del socialismo reale (cfr. p. 51).

In contrasto con le forme mercantili, nelle forme di produzione socialista (da non confondersi con le economie di transizione: qui la discussione di Bettelheim si svolge a livello prefigurativo) i prodotti non sono più destinati allo scambio e quindi cade la contraddizione del lavoro privato che si fa anche lavoro sociale, poiché la ricchezza, non è più una massa di merci destinata allo scambio, ma una raccolta di beni socialmente utili a soddisfare bisogni sociali attraverso il lavoro socializzato.

Il problema però è che nelle economie di transizione ci sono ancora rapporti sociali determinati per i quali sussiste ancora la forma valore ancorché i mezzi di produzione siano stati statalizzati, o comunque non siano più privati. Parte della risposta è che sussistono ancora scambi tra tipologie diverse di proprietari. Ci sono i privati, le cooperative di produzione e lo stato produttore. Lo stesso Stalin (citato a pag. 57) ammette questa differenza parlando dell’esistenza dei Kolkhoz. Finché queste due tipologie di proprietari non sono superate non scomparirà lo scambio monetario e quindi la legge del valore (cfr. p.59).

Nella seconda parte del libro Bettelheim pone l’attenzione sul dato per lui fondamentale, per cui è impossibile che nell’URSS sussista davvero una forma di produzione socialista (si può invece parlare di forma di transizione). L’esistenza dei rapporti di scambio e quindi della forma valore è causata da un semplice fatto: in Unione Sovietica non esiste la proprietà socializzata dei mezzi di produzione. Sussiste oltretutto una autonomia dell’impresa  quale unità economica indipendente con il proprio budget, le proprie disponibilità liquide, i propri rapporti bancari: con la differenza che per la produzione e quindi per le imprese, a differenza che nel modo capitalistico, sussiste il possesso e non la proprietà dei mezzi di produzione.

Pertanto si potrebbe concludere che non sono i lavoratori gli agenti economici in possesso dei mezzi di produzione, bensì i dirigenti delle imprese, nominati dall’apparato statale.

Si tratta dunque di un modo di produzione in cui vigono ancora lo scambio mercantile e la differenza di classe. La classe al potere è quella della burocrazia di partito (e non la classe borghese tipica del capitalismo) e i rapporti di produzione si sviluppano tra lavoratori e dirigenti dello Stato. La classe lavoratrice quindi non possiede, né è proprietaria (se non indirettamente) dei mezzi di produzione. I rapporti sociali quindi non sono socialisti, bensì rapporti di produzione di tipo mercantile. La classe lavoratrice rimane sfruttata ai fini della produzione di plusvalore, sia pure volta non all’accumulazione da parte di una classe borghese “tradizionale”, bensì all’accumulazione da parte dello Stato.

L’impresa è dunque 1) un’unità economica autonoma (separata dalle altre unità), al cui interno per giunta sussiste 2) la separazione fra lavoratori e direzione d’impresa, che dispone effettivamente dei mezzi di produzione. Queste due “separazioni” determinano nell’URSS un capitalismo di Stato, in quanto i rapporti di produzione non sono ancora socializzati e non è superata l’autonomia delle imprese rispetto ai lavoratori e rispetto a loro stesse. Solo il superamento dell’autonomia delle imprese, rispetto ai lavoratori e al mercato in cui operano, può far superare la forma valore (cfr. le pp. 87 e 90).

In questo contesto si sviluppa il piano, che intenderebbe superare le caratteristiche impresse dagli scambi al modo di produzione in vigore. Secondo certi ideologi della pianificazione, la moneta altro non sarebbe che una illusione. La realtà è che questa è ancora utilizzata per gli scambi tra unità economiche, tra consumatori e tra forza lavoro e impresa (salario). Siamo allora nell’alveo del capitalismo di Stato: una forma di intervento del livello politico sul livello economico.

Ecco perché secondo Bettelheim siamo di fronte non ad un modo di produzione ma ad una forma di transizione.

Mi pare interessante sottolineare (pag. 99) come l’autore critichi le forme di autogestione  in cui le imprese sono costrette comunque a rivolgersi al mercato per scambiarsi merci e mezzi di produzione, pur essendo presente da parte dei lavoratori la disponibilità dei mezzi di produzione. L’autogestione ha un carattere quindi illusorio. Queste continuano a collegarsi attraverso il mercato. (Sulla formazione della classe dei dirigenti e quadri della burocrazia, si legga pag. 105).

In questo contesto il fatto che i lavoratori che non partecipino alla realizzazione del piano evidenzia ancora il carattere non socialista delle economie di transizione (pag. 109).

Raffrontando gli interrogativi emersi dalla lettura del libro di Bettelheim con il dibattito  svoltosi a conclusione dell’incontro con Nadia Garbellini che ha inaugurato il seminario Back to the USSR, tento di stabilire un punto fermo: ovvero che il piano è uno strumento che funziona in base agli obiettivi che l’organo politico si pone. Nonostante il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo accelerato che l’URSS si diede, nacquero diversi problemi (code ai negozi, scostamenti produttivi in alcuni casi elevati, penuria dei prodotti agricoli, ecc.). Secondo le conclusioni di Bettelheim tali problemi sono dovuti principalmente alla vigenza della legge del valore in URSS e alla presenza di un capitalismo di Stato con una proprietà dei mezzi di produzione che non è socializzata bensì statalizzata, mentre si crea una divisione di classe caratterizzata dal possesso dei mezzi di produzione da parte della classe dirigente dell’apparato burocratico statale. Garbellini rilevava peraltro che il funzionamento di una economia pianificata non può prescindere dalla divisione del lavoro. Il problema rimarrebbe pertanto  su un piano politico, e per la sua soluzione occorre a mio avviso come minimo una modulazione profondamente diversa della formazione delle decisioni.

Per concludere molto sommariamente: i problemi della transizione potevano essere superati solo togliendo il possesso esclusivo della macchina statale da parte delle classi che non erano quelle lavoratrici, con il conseguente passaggio di potere ai Soviet come teorizzato dal Lenin del ’17, e mantenendo la forma del piano quale strumento principale di regolazione dei rapporti di produzione. (Marc Mansion) 

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