giovedì 10 dicembre 2015

Comunisti, oggi. Il Partito e la sua visione del mondo. - Hans Heinz Holz.

Prefazione
di Stefano Garroni.

Già a partire dal 1968, chi avesse detto <sono comunista>, avrebbe detto qualcosa dal significato non chiaro, ma sì equivoco.
Voglio  dire, restando nel confine di casa nostra, che il dichiarante avrebbe potuto essere, indifferentemente, un militante di Potere operaio o del Pc d’I, della Quarta Internazionale o di Lotta continua e così via; avrebbe potuto essere, dunque, portatore di analisi, lotte e prospettive sensibilmente diverse tra di loro ed anche opposte, per certi versi.
Gli anni successivi, fino a giungere allo sciagurato 1989 e seguenti, non hanno certo semplificato la situazione, al contrario: oggi più che mai dire <sono comunista> risulta dare un’informazione pressocché incomprensibile.
Un merito del libro di Holz è invertire questa tendenza e dare, invece, un preciso contributo al restituire un senso determinato al nostro asserto, <sono comunista>.
A tutta prima, l’operazione di Holz sembra un esempio del classico ‘uovo di Colombo’: comunista, egli dice, è chi si riconosce nell’intera storia del movimento comunista, appunto.
Sembra posizione troppo ovvia e facile; sennonché, una caratteristica molto diffusa tra coloro che, oggi, si definiscono comunisti, è assumere la posizione di chi dice, invece, <fin qui sì, in seguito no>.
Il <fin qui> può variare: può essere la morte di Lenin o quella di Stalin, può essere il periodo brezhneviano o quello di Gorbaciov, non importa; ciò che resta è il criterio: la distinzione fra una storia buona ed una cattiva, un momento dell’ ortodossia ed uno dell’eterodossia, uno della ‘fedeltà’ ed un altro della ‘caduta’. Ciò che resta, dunque, è una concezione astratta, ideologica (rigorosamente, moralistica) della storia, invece che intendere quest’ultima come la scena -l’unica scena-, in cui la realtà si compie, attraverso le “torsioni e tensioni”, che fanno tutt’uno con l’essenza stessa di ciò che veramente esiste.
Al fondo di questi due atteggiamenti c’è un’opposizione fondamentale: l’uno, infatti, è un atteggiamento unilaterale, dunque, dogmatico; l’altro è critico, dunque, dialettico.
La mossa di Holz, allora, implicita il recupero, la franca riproposizione addirittura di una precisa prospettiva teorica:  quella  della dialettica  che, dalla filosofia classica tedesca (Leibniz, Kant, Hegel) giunge a Marx ed a Lenin. 

A questo punto comprendiamo che riconoscersi nell’intera storia comunista non significa ottusa, bolza, acritica accettazione/sacralizzazione del <già avvenuto>, ma esattamente l’opposto.
Significa, infatti, ricostruire la storia comunista come scena di scarti, dissonanze, difficoltà e contraddizioni reali, effettive; come succedersi di <situazioni>, di <occasioni date>, in cui scegliere entro margini, segnati sia dalle caratteristiche dei tempi che dalle capacità di comprensione. In questa chiave, la storia perde l’unilaterale caratteristica del <già avvenuto> (che, invece, viene esaltata da certa ideologia contemporanea che, non per caso, parla di memoria storica), per riconquistare, al contrario, la dimensione di processo non concluso, in cui la distinzione tra un ‘prima’ ed un ‘poi’ è sempre inevitabilmente, anche, arbitraria e convenzionale.
Storia è, infatti, anche il presente -in cui certe difficoltà e contraddizioni continuano; in cui si rovesciano le conseguenze di scelte operate in altri contesti; in cui, insomma, il ‘già vissuto’ s’intreccia inseparabilmente al ‘non ancora determinato’. In questo senso, recuperare -come Holz sollecita a fare e come appartiene all’orientamento dialettico- un rapporto critico con la storia comunista (tutta intera, senza falsificanti, astratte discriminazioni), fa tutt’uno col porsi criticamente nei confronti degli scenari politici, sociali, culturali dell’oggi. Già a questo punto possiamo rimarcare un tratto fondamentale del lavoro di Holz.
Comunisti, oggi è, certamente, un libro politico nel senso comune del termine. Tuttavia, non è libro volgare, dacché il modo, in cui Holz imposta il problema politico, immediatamente, è anche fortemente caratterizzato dal punto di vista teorico. Di qui, anche, la sua sottolineatura dei meriti acquisiti dal Partito comunista tedesco (DeutscheKommunistische Partei) per l’attività culturale che ha promosso e che ha saputo imporsi all’attenzione internazionale, non solo di parte comunista e marxista.
Ma di qui -più a fondo- una particolare continuità, che Holz stabilisce con la tradizione bolscevica (e di Lenin segnatamente): intendo la consapevolezza, costantemente presente nella sua pagina, che quello comunista non è un comune partito.
Non solo per gli interessi di classe che difende; non solo per gli obiettivi strettamente politici che si pone. Ma sì perché il suo progetto è quello di operare nel senso di una profonda trasformazione storica e, dunque, farsi fondamentale strumento di costruzione di un nuovo soggetto storico-universale: la classe lavoratrice.
E’ ovvio -e Holz lo sa bene-, le classi sociali hanno radici obiettive nel modo stesso in cui un certo sistema di produzione è costituito -e per questo aspetto è sensata, poniamo, quell’inchiesta, che vuol giungere ad una oggettiva descrizione della geografia sociale di una società data.
Tuttavia, classe operaia (o classe lavoratrice) non è categoria eminentemente sociologica, perché implica la maturazione e diffusione di una coscienza, così forte teoricamente, da elaborare sia la critica della ‘grammatica’ costitutiva della società capitalistica, sia le grandi linee dell’alternativa comunista, come unica risposta ai problemi fondamentali, che l’umanità oggi conosce. Questo è il tratto eminentemente bolscevico e leninista.
Il lettore del Che fare? sa bene come Lenin insistesse nell’assegnare al Partito rivoluzionario dei lavoratori non solo la funzione di avanguardia di classe, ma anche di avanguardia sociale in generale. Nel senso che i comunisti debbono riuscire a muoversi in tutte le contraddizioni, che il capitalismo produce, per mostrare come gli interessi della formazione sociale capitalistica, giunta ad un certo grado del suo sviluppo (l’imperialismo), entrino in contrasto radicale con gli interessi generalmente umani. E’ su questa base che può costruirsi l’egemonia della classe lavoratrice; ed è su questa base che la successiva dittatura del proletariato potrà coniugarsi con la vivacizzazione più larga dell’autogoverno sociale.
Il disegno, che Holz fa della società contemporanea -e, si badi, a partire da un osservatorio importantissimo, dalla Germania, dunque dal cuore stesso della ‘metropoli imperialistica’-, proprio questo mette in risalto: l’obiettivo contrapporsi, sempre più radicale e sempre più vicino al quadro disegnato da Marx, degli interessi dei grandi centri imperialistici, da un lato, e le esigenze vitali (materiali, morali e culturali) della stragrande parte dell’umanità odierna, dall’altro.
Costruire la classe lavoratrice significa, allora, che dall’obiettivo (solo obiettivo) moderno proletariato deve riuscire a formarsi -mediante esperienze di lotta, ma anche mediante una consapevole azione culturale, in entrambi le quali il partito sia direttamente impegnato- quel livello di coscienza teorica e scientifica, che metta in condizione i lavoratori di proporsi come nuova classe dirigente, in grado di gestire il grande patrimonio delle forze produttive moderne secondo una prospettiva sociale e democratica, affatto alternativa rispetto all’organizzazione capitalistica.
E’ in questo suo impegno che il partito deve riuscire a coniugare analisi del presente, rapporto critico con la storia e capacità di organizzazione e di lotta.
I tre momenti sono inseparabili, dacché non è possibile attività propriamente politica se non orientata, anche, da una consapevolezza teorica precisa delle tendenze profonde e contraddittorie dell’ attuale imperialismo; e dacché proprio il sistema imperialistico, anche il più evoluto, comporta l’ estendersi addirittura di enormi zone di arretratezza. Cosicché i comunisti si trovano sempre ad operare in un quadro, in cui raffinato sviluppo ed insuperabile sottosviluppo, esigenze evolute e necessità elementari coesistono non solo le une accanto alle altre, ma addirittura le une intimamente intrecciate con le altre.
Ciò significa, tra l’altro, che un carattere sempre più evidente -e pesantemente evidente- della società imperialistica è la miseria anche morale, che essa produce, l’imbarbarimento psicologico e culturale che esso fa coesistere con i più raffinati sviluppi scientifici, ma che comporta un processo di appiattimento delle coscienze, di perdita di ‘senso’ della stessa vita quotidiana.
Di qui, ovviamente, l’estendersi di una crisi -certo materiale, ma appunto anche morale-, che invade settori crescenti della società contemporanea, sia nelle aree evolute che in quelle sottosviluppate del mondo.
Altrettanto ovviamente di qui deriva, oggi, ai comunisti anche il compito di aprire nuovamente dimensioni di ‘senso’, prospettive di ‘significato’, insomma prospettive di civiltà, che non interessano solo i lavoratori, in quanto settore determinato della società attuale, ma più generalmente l’ uomo contemporaneo.

Indice:
Prefazione      di        Stefano Garroni.
1 capitolo:    I fondamenti della coscienza di sé da parte comunista.
2 capitolo:    I fondamenti filosofici del Partito Comunista Tedesco.
§.1    - Il carattere.
§.2    - La comprensione della storia.
§.3    - La dialettica della natura.
§.4    - Errori passati e prospettive future.
§.5    - Urgenti compiti, oggi, della teoria.
3 capitolo:   Carattere di un partito leninista.
§.1    - ll Che fare? di Lenin.
§.2    - La forza della teoria contro lo spontaneismo e l’irresponsabilità opportunistica.
§.3    - Rivoluzione nella e contro la società.
§.4    - Verità e partiticità.
§.5    - Missione storica e avanguardia della classe operaia.
§.6    - Excursus sulla dottrina del totalitarismo.
4 capitolo:    Lotte di classe.
§.1    - Interessi e coscienza di classe.
§.2    - Le basi organizzative della coscienza di classe.
§.3    - Mutamenti nella struttura di classe e compiti del Partito.
5 capitolo:    Il concetto di epoca.
§.1    - La rivoluzione tecnico-scientifica.
§.2    - Imperialismo e sottosviluppo.
§.3    - Riforme e rivoluzione.
§.4    - La Rivoluzione d’Ottobre come segno di una nuova epoca.
6 capitolo:    Crisi generale del capitalismo.
7 capitolo:    Modernizzazione o lotta di classe?
8 capitolo:    Riflessioni sul concetto di situazione politica.
§.1    - Essenza e manifestazione; connessione e contraddizione.
§.2    - Coscienza della crisi.
§.3    - Negazione determinata.
§.4    - Crisi generale del capitalismo e Rivoluzione d’Ottobre.
§.5    - Mutamenti nel movimento mondiale.
§.6    - I problemi umani come problemi di classe.
§.7    - Problemi del potere.
§.8    - Disintegrazione culturale.
§.9    - Il problema organizzativo.

1° capitolo - I fondamenti della coscienza di sé da parte comunista.
Dopo il crollo delle società socialiste in Europa orientale, fra molti militanti, ma anche tra diversi partiti comunisti, si è andata diffondendo una profonda insicurezza su cosa definisca l’essenza di un PC e su quali siano i compiti, che i suoi aderenti debbono porsi, se hanno da pensarsi, appunto, come comunisti. Le  molteplici violazioni delle norme leniniste di partito avvenute nel passato hanno seriamente scosso la concezione di sé da parte dei militanti; e da molti son stati posti in discussione i tratti fondamentali di un partito leninista o di un PC di tipo nuovo. Questa insicurezza ha certamente contribuito a destabilizzare la struttura organizzativa di partito ed ha reso insicuro lo stesso comportamento dei militanti; come anche ha introdotto incertezza su come debba esser costituito il partito, in quelle situazioni dove si rendeva necessario formare nuovi partiti comunisti. Da tutto ciò nasce la questione di quali debbano esseri i centrali punti di vista a cui atteneresi nella costruzione di un partito e per la definizione del suo lavoro organizzativo. Insomma, la questione è: cosa appartiene al concetto stesso di PC, una volta che un tale partito si desideri costruire? Quale deve esserne lo statuto e come deve realizzarsi nella vita stessa del partito?
In qualche modo, gli statuti di un’organizzazione son la sua Costituzione; negli statuti son fissati i principi e le regole della sua vita ma anche -e contemporaneamente- son date le linee fondamentali del senso e degli scopi dell’organizzazione stessa. Uno statuto è qualcosa di più generale e fondamentale che un programma, il quale indica un certo modo di muoversi, traducendo gli scopi fondamentali dell’organizzazione nel concreto di situazioni che mutano e di problemi particolari; i programmi possono e debbono essere, di volta in volta, riformulati, per adeguarsi alle esigenze degli svolgimenti storici; negli statuti, invece, è espresso il carattere epocale  di un’organizzazione, il senso e le finalità che ne definiscono l’essenza.
Che si ponga il problema della considerazione che un PC ha di sé, proprio questo è frutto della situazione storica. Con la caduta del sistema degli Stati socialisti e della stessa Unione Sovietica, l’intreccio delle condizioni politiche mondiali, nel cui contesto un partito si definisce comunista, è mutato rispetto al periodo precedente. Ciò non significa che siano nella sostanza cambiati la concezione della storia, sottesa al Manifesto di Marx ed Engels, e le finalità politiche fondamentali che da quella derivano per i comunisti: in caso contrario, non si dovrebbe più parlare di comunismo propriamente, ma di una qualche variante del socialismo -borghese, utopistico, piccolo-borghese ecc.- , tutte cose da cui, com’è noto, gli autori del Manifesto già presero nettamente le distanze. Ciò che è vero, piuttosto, è che mutato risulta l’ambiente politico, entro cui i comunisti -in quanto tali- son chiamati ad operare: è proprio di qui che nasce la questione di quale forma organizzativa debba darsi l’azione comunista.
La questione fondamentale per un PC, considerato in se stesso, è, in primo luogo, quale sia la particolarità, che lo distingue dagli altri partiti che, in contesti non socialisti, contribuiscono alla vita politica del paese: in cosa si differenzia da essi? Che cosa rende appunto comunisti gli aderenti di un PC? Su questo bisogna far bene chiarezza, posto che un PC non è una mera formazione elettoralistica. Ma già nel porsi della domanda si mostra una particolarità.
Manifestamente, ad un partito cristiano possono appartenere persone che, pure, considerano in modi diversi il loro esser cristiani (e, addirittura, possono aderirvi non cristiani). In cosa consista il cristianesimo del partito e cosa vi sia di cristiano nel partecipare alla sua attività, queste, non son cose che risultino adeguatamente precisate né per gli appartenenti al partito né per la sua dirigenza: appare sufficiente la comune appartenenza ad una tradizionale non specificata visione del mondo che, pure, prevede la possibilità di numerose varianti. Un legame di questo tipo sarebbe altrettanto valido per un PC? E se no, per quale motivo? Dal punto di vista organizzativo è, qui, in gioco l’ammissibilità o meno di correnti e frazioni, e per ogni organizzazione (non solo per il PC tedesco[1]) si pone il problema di quanto le sue strutture ed i suoi fini siano compatibili con quelli di altre organizzazioni o con il sostegno ad altre organizzazioni da parte dei propri militanti (penso, ad es., alla conclusione di incompatibilità del Partito socialdemocratico tedesco[2] in relazione alla militanza nel VVN[3]  e, poi, dell’Unione degli studenti socialisti[4]. Si trattava, certo, di precise delimitazioni a sinistra).
Nel proseguo intendo esporre la tesi che gli statuti di un PC devono precisare cosa ci si debba necessariamente attendere da un militante comunista, sotto il profilo sia del comportamento che delle fondamentali concezioni politiche e teoriche generali. Ciò è più di quanto usualmente è previsto negli statuti dei partiti, costruiti secondo il modello della democrazia borghese.
Questo qualcosa in più abbisogna di una fondazione; e questa fondazione deve, anche, mostrare che cosa rende essenzialmente diverso, dal punto di vista della concezione del mondo, un PC da movimenti fondamentalistici: il che è importante in quanto, di primo acchito, il fatto stesso di fissare i contenuti filosofici generali di un partito sembra, di necessità, caratterizzarlo come totalitario. Comunque, nel caso di un PC tedesco bisogna badare che gli scopi del partito e i doveri statutari dei suoi membri siano in accordo con la Costituzione (art. 9, comma 2 e art. 21) e con la legge sui partiti politici.[5]
Il comportamento politico dei comunisti si definisce per il fatto che essi hanno una concezione chiara, ma essenziale, delle condizioni, in cui si è svolto storicamente e si svolgerà lo sviluppo della società umana. Tale visione della storia offre, in particolare, una spiegazione dell’epoca presente, dunque, della contemporanea società borghese, caratterizzata dal rapporto di capitale. Al fondo di ciò stanno le seguenti concezioni:
-  gli uomini soddisfano i propri bisogni di vita mediante la produzione e non, come avviene per gli animali, mediante il semplice consumo dei beni, che la natura stessa offre;
-  mediante la produzione o come conseguenza dell’organizzazione sociale nascono nuovi bisogni, i quali sollecitano una nuova produzione e da ciò consegue un continuo sviluppo delle forze produttive;
-  questa produzione, in continuo sviluppo e differenziazione, ha effetti sulla società e, particolarmente, sulla divisione del lavoro;
-  mediante la produzione gli uomini entrano in relazioni sociali, che divengono sempre più complesse;
-  i rapporti di produzione debbono adeguarsi ai mutamenti, introdotti dai gradi diversi di sviluppo delle forze produttive;
-  la produzione basata sulla divisione del lavoro conduce alla proprietà privata degli strumenti di produzione, da cui nasce la divisione della società in classi, le quali partecipano in modo disuguale alla ripartizione del prodotto e della ricchezza sociali;
-  dagli interessi di classe derivano contraddizioni e, quindi, lotte di classe;
-  le classi, che traggono vantaggio dagli esistenti rapporti di produzione, si oppongono al loro cambiamento ed il loro adeguamento al livello di sviluppo delle forze produttive deve essere imposto con una lotta politica, orientata contro le esistenti strutture di potere.
Queste tesi fondamentali -derivanti, tutte, dalla prima- consentono di costruire un modello esplicativo valido per la storia dell’uomo e viene indicato col terminematerialismo storico. L’elemento di forza di tale semplice modello esplicativo consiste nel fatto che ad esso, come alla loro condizione fondamentale, possono esser ricondotti -immediatamente, oppure, attraverso mediazioni- tutti i più complessi processi storici.
Naturalmente, è in primo luogo attraverso l’immediata esperienza quotidiana e non per visione teoretica, che si giunge alla consapevolezza dell’ingiustizia, oppressione e sfruttamento, determinati dalla società e del modo di produzione e ad assumere un atteggiameno di rifiuto verso di essi. Marx ed Engels prima di pubblicare il Manifestocomunista, avevano scritto intorno alla Condizione della classe operaia in Inghilterra, alla Legge sul grano, alla Legge sui furti di legna ed alla situazione dei contadini della Mosella. Le esperienze sulla propria pelle son sempre individuali; che esse derivino da generali rapporti di produzione e che abbiano alla loro base generali rapporti sociali (anche se le manifestazioni di ciò risultano diverse caso per caso) è cosa a cui può giungersi, solo, attraverso un’attività astrattiva, che consente di connettere teoricamente le esperienze individuali e di scoprire le leggi a cui queste ultime rimandano. Il fatto è -come diceva Hegel- che non sappiamo lucidamente ciò che sappiamo comunemente.[6] Ma per modificare condizioni negative è necessario combatterle alla radice e non limitarsi alle loro manifestazioni di superficie. Quando in una società si trovano miseria, ingiustizia e distruzione, bisogna chiedersi cosa vi è di sbagliato nella costituzione, nella forma di organizzazione di quella società e come possano essere estirpate le cause del male.
Dandosi esperienze negative circa un’alternativa politica, si impone la necessità di una chiarificazione teoretica che sappia ricondurre esperienze e processi alle loro cause. Più è complessa la costruzione sociale, più specializzata è la produzione, più estesi e vari son gli scambi, più differenziati sono i bisogni, più complesso risulta ricavare il sistema di leggi che sta alla base di tutto ciò, con la conseguenza che resta oscuro il meccanismo dei processi economici e sociali. Quale comune lettore di giornali, ad es., potrebbe ricavar qualcosa di comprensibile dalle vicende quotidiane della Borsa? Chi potrebbe decifrare il bilancio di un grande consorzio o il piano economico interno di un Paese o di una Federazione? Quanto insensata è la ricerca del diritto difronte alle finezze dell’ordinamento civile! Chi potrebbe assumere una precisa posizione di fronte ai contraddittori giudizi degli esperti in materia di distruzione ambientale o circa la valutazione del rischio in materia di centrali atomiche? Se si volesse far dipendere la competenza politica del cittadino  dalle conoscenze di cui egli dispone -in materia di economia, di diritto, di scienza, di tecnica, ecc.- per essere in grado di prendere decisioni avvedute, allora oggi, nell’epoca della  rivoluzione tecnico-scientifica (d’ora in avanti, RTS), la democrazia sarebbe impossibile. I rappresentanti, invece, degli interessi privati sanno come piegare a loro vantaggio il coro variegato dei pareri degli esperti.
Quando si parla della teoria come fondamento del comportamento politico, non si vuol intendere quella conoscenza specialistica, ormai divenuta imperscrutabile, ma che invade ogni aspetto della vita pubblica e della specie umana. Nell’ambito della cultura specialistica, lo spezzettamento del sapere non fa che svilupparsi e ne sorgono esperti di ambiti sempre più ristretti. Invece, la teoria generale, che è richiesta per guidare razionalmente e pianificare gli sviluppi sociali, deve saper estrapolare dalla massa degli accadimenti le forme sincroniche e diacroniche semplici, per consentire di orientarsi di fronte ad un complesso apparentemente inestricabile. Politicamente capace è colui, il quale sa ricavare dal flusso delle informazioni un filo rosso ragionato; non si tratta, però, di avere un’opinione privata intorno a ciò che accade nel mondo: dacché, agire politicamente significa agire in comune secondo una ed una stessa idea. E con ciò si intende una teoria comunemente accettata come valida, dalla quale scaturisca un agire politico finalizzato, il quale non può risultare dal mèro compromesso fra gli interessi diversi di individui e di gruppi.
A questo punto si chiarisce cosa renda specifico un PC: esso non rappresenta gli interessi di gruppi determinati o il momento in cui diversi interessi particolari trovano una loro conciliazione; piuttosto un Partito è comunista in quanto punta all’interesse di tutti.
Ma l’interesse di tutti non può ricavarsi dai bisogni e dagli interessi particolari: piuttosto può esser determinato solo da una teoria generale, che relazioni ogni singolo con gli altri, in modo da concepire un tutto.
Va da sé che ognuno, in primo luogo, segue i propri individuali interessi: poiché ognuno ha un determinato posto nella società, vive particolari condizioni di vita ed ha propri desideri, gli interessi individuali son affatto differenti e, addirittura, in molte occasioni si contrappongono gli uni agli altri. Ma, d’altra parte, vi sono interessi comuni: ad es., il comune interesse di una squadra di lavoratori a rapporti di lavoro umani; quelli di una comunità a poter respirare aria pulità e bere fresca acqua potabile, oppure, quello di tutti gli uomini al mantenimento della pace.
Allo scopo di perseguire i comuni interessi, ognuno deve -per qualche rispetto- sacrificare qualcosa del proprio individuale interesse. Ma che significa ciò esattamente? E cosa può la società chiedere ai singoli e questi a quella? Le risposte a tali domande non sono né immediate né autoevidenti, ché -al contrario- presuppongono che sian comprese le linee fondamentali dei processi e delle contraddizioni sociali: in una parola, la comprensione teoretica dell’insieme o universale.
Cerchiamo di comprendere cosa ci autorizza ad affermare che proprio il materialismo dialettico sia la teoria generale, capace di esprimere non gli interessi particolari di una classe (o di una frazione d’una classe), ma risultante invece dalla conoscenza scientifica della totalità sociale e dei rapporti della società con la natura; che proprio il materialismo dialettico sia in grado di dirci come armonizzare gli interessi di ognuno, rettamente intesi, con gli interessi di tutti, della società e del genere umano.
Nel quadro dei rapporti capitalistici di produzione, tutte le forme della produzione sono sottoposte al capitale. La proprietà degli strumenti di produzione è mediata dal capitale, cioè, dall’investimento di capitale. Laddove prima agricoltori, artigiani, commercianti avevano forme proprie di proprietà e della sua riproduzione e, dunque, costituivano differenti classi proprietarie (contrapposte a coloro che erano privi di proprietà), lo sviluppo - a partire dall’industrializzazione- di investimenti tecnologici ad alta intensità di capitale ha condotto al fatto che proprietari degli strumenti di produzione possono essere, solo, coloro i quali dispongono del capitale finanziario necessario. Il capitale investito deve riprodursi maggiorato (interesse di capitale). Così, da una società in cui molte classi perseguono i loro particolari interessi dovendone, però, cercare la conciliazione, si è andata sviluppando una società a due classi, in cui si danno solo i proprietari degli strumenti di produzione e i lavoratori salariati, che con il loro lavoro producono il plusvalore [d’ora in avanti, plusvalore], consentendo così la valorizzazione del capitale. Classi, che precedentemente erano autonome - come i piccoli artigiani e i contadini-, che possedevano (e, in parte, ancora posseggono) strumenti di produzione, sempre di più divengono dipendenti dal capitale: sia nel caso che rappresentino imprese ausiliarie della grande industria, costrette a regolare le proprie scelte produttive e di investimento sulle necessità e decisioni tecniche prese da quest’ultima; sia nel caso si trarri di grandi imprese agricole, dotate di un differenziato parco macchine ma prive di credito bancario, in mancanza del quale nulla possono produrre né rinnovare e che son sottoposte, invece, a spese di ammortamento, analoghe a quelle dell’industria. Tutti gli strati intermedi, che si mantengono in una società ad alta divisione del lavoro (ad es., nel settore dei servizi), in definitiva, risultano schiacciati dalla contraddizione fondamentale fra lavoro e capitale e, così, per la clssificazione della struttura di classe della società restano, solo, borghesia e proletariato.
I due concetti -di borghesia e di proletariato- nascono, entrambi, nel 19° secolo. Se non altro nelle metropoli, la borghesia e il proletariato hanno modificato il loro modo di presentarsi, il loro aspetto. Oggi, il capitale non si presenta più sotto l’aspetto del proprietario di fabbrica o del banchiere, come enti sensibilmente presenti, ma hanno assunto, invece, una forma anonima.
Per parte loro, i proletari -nella maggioranza-  non son più i lavoratori, cacciati nelle viscere delle miniere o immersi nei calori degli altoforni; piuttosto sono spesso lavoratori altamente specializzati, che lavorano a macchine assai complesse oppure son impiegati di un terziario in costante crescita e che non è più in diretto contatto con la produzione. Di qui nascono problemi circa la coscienza di sé: lo sfruttamento non è più, come un tempo, avvertibile sulla propria pelle, ché piuttosto la comprensione di sé come sfruttato pretende una concezione chiara del meccanismo dell’accumulazione capitalistica e del rapporto di capitale. Resta, comunque, il fatto oggettivo che la società a due classi è composta da borghesia e da proletariato.
Gli interessi delle due classi nella società capitalistica son contrapposti. La legge del capitale è di doversi accrescere, di dover sfruttare per poter realizzare nuovi investimenti, non importa a quale scopo. L’accumulazione del capitale è lo scopo, che il capitalismo dà a se stesso; il problema della redditività domina l’uso dello strumento sociale: è questa necessità che determina gli interessi dei rappresentanti del capitale.
Si tratta degli interessi particolari di un piccolo gruppo di uomini -proprietari di capitale e managers-, i quali controllano il processo di valorizzazione del capitale: essi costituiscono la classe dirigente, che usando tutti i mezzi della visione del mondo debbono portare i dominati ad accettare quei rapporti di dominio e di sfruttamento. Le loro strategie teoriche in fin dei conti non sono che strategie di legittimazione degli interessi particolari della classe dominante -e non sono che questo, anche quando i sostenitori di quelle teorie le accettano, invece, come verità di portata universale.
Da parte loro i lavoratori non possono avere che un interesse di classe: abbattere il dominio degli interessi particolari in modo che ogni uomo sia, nel pieno senso della parola, libero, ovvero, possa perseguire i propri interessi non in disaccordo, ma sì in coerente accordo con l’interesse di ogni altro.
L’interesse dei lavoratori, in quanto classe, coincide con l’interesse dell’umanità: pace, libertà dal bisogno, cultura, libero sviluppo individuale e soddisfazione dei bisogni, partecipazione di ognuno -e non riservata a pochi proprietari di capitale- alla pianificazione e gestione della vita sociale.
La strategia teoretica della classe lavoratrice è orientata all’elaborazione e perseguimento di questo interesse generale -non in quanto, dimentica di sé, si lasci guidare da astratto umanismo, ma perché proprio questo è il suo particolare interesse di classe.
Solo la visione scientifica del mondo, che non esprime il punto di vista di qualche interesse particolare, può costituire l’espressione non sfigurata dall’interesse generalmente umano: posta la configurazione di classe, che è propria del capitalismo, quella visione scientifica del mondo non può essere che la visione del mondo dei lavoratori in quanto classe, dunque, il socialismo scientifico.
Naturalmente, non in quanto teoria elaborata una volta per tutte in una forma rigida, ma sì in quanto sistema di conoscenze che si sviluppano, riflettendo lo svolgersi dei processi sociali; in altre parole, in quanto sistema ‘aperto’, che accoglie ed elabora le esperienze storiche.
Il luogo da cui origina il socialismo scientifico, la classe lavoratrice come portatrice degli interessi umani, ci autorizza ad assegnare a questa teoria, in questa epoca, un universale valore di verità, nonostante il suo carattere certamente storicamente determinato.
Quando una teoria rappresenta la condizione storica, in cui l’umanità può compiere ragionevolmente un ulteriore passo in avanti nella direzione della umanizzazione -vale a dire, del superamento del bisogno e dello sfruttamento verso la libertà; e quando la stessa teoria indica la direzione di questo ulteriore passo in avanti, allora si può dire che essa è storicamente vera.
La verità è qualcosa di più che la mèra correttezza di una conoscenza particolare, dell’accordo di un determinato sapere con il proprio oggetto.
Verità significa cogliere nel pensiero la realtà in modo tale, che quel pensiero consenta all’uomo di determinare, secondo ragione, il proprio rapporto con il mondo e con se stesso. In questo senso, la storia del pensiero è -come voleva Hegel - storia “del progresso nel pensiero verso la libertà” e, con ciò, anche storia di lotte per l’emancipazione dell’umanità dalle costrizioni naturali, dall’oppressione dell’uomo sull’uomo, dai pregiudizi e dall’ignoranza. In ogni nuova fase dello sviluppo storico si allarga lo spazio delle possibilità -e, dunque, delle libertà- aperto agli uomini.
Verità storica non significa, dunque, verità neutrale, ma sì schierata dalla parte del progresso e, quindi, anche con il partito del progresso. E cosa sia il progresso non ce lo dice questa o quella opinione arbitraria, ché lo si ricava dal contrasto fra interesse generalmente umano da un lato e, dall’altro, particolare interesse di una classe, di un gruppo o, addirittura, di un singolo.
Appunto perché la verità è obiettiva -dunque, universale e scientificamente determinabile-, proprio per questo deve essere di parte. (E non è certo un caso se i propugnatori dell’ideologia borghese spregiano il concetto di verità, dissolvendolo in un pluralismo delle ‘verità’, con la conseguenza di privare di senso la storia e di ridurre la politica a terreno di decisioni arbitrarie).
Ma «partiticità» non significa schierarsi acriticamente per una posizione con cui non si abbia ‘famigliarità’: la posizione, che si prende, deve mostrare la propria verità mediante la determinazione teorica del progresso nella situazione sociale contemporanea; deve trattarsi di una presa di posizione filosofica, capace dunque “di cogliere nel pensiero il proprio tempo” e di tradurre questo pensiero in comportamenti politici. Un partito che non si limiti a darsi obiettivi di corto respiro e che non voglia adeguarsi, opportunisticamente, alle oscillazioni dell’opinione pubblica, ma che proponga, invece, una conseguente alternativa generale ai problemi, contraddizioni e crisi della società presente, non può assumere concezioni preconcette né decretate semplicemente dalla sua dirigenza, ma deve affidarle ad analisi teoricamente consistenti, elaborarne le conseguenze politiche e sottoporle costantemente a verifica: deve, insomma, assicurarsi il continuo rinvio dall’agire politico alla riflessione teorica e da questa, di nuovo, alla pratica politica. Se  non operasse in questo modo, il partito non corrisponderebbe al particolare ruolo storico della classe che pur pretende organizzare: la “missione storica della classe lavoratrice”.
Se la polarità sostanziale della partita politica è sfruttamento o libertà dallo sfruttamento, dominio della borghesia o suo abbattimento, perseguimento dell’accumulazione capitalistica  o dell’emancipazione umana, allora non si tratta semplicemente di questo o quel ‘miglioramento’ della società presente, ma di qualcosa, invece, che investe la totalità sociale.
E’ proprio questo che differenzia i comunisti dagli aderenti ad altri partiti, compresi socialdemocratici ed altri riformatori sociali.
E’ certo che riforme per il migliormento della condizione umana hic et nunc son sempre cose sensate, poiché la politica si fa nell’interesse dell’uomo attualmenteesistente; tuttavia, esse non possono costituire lo scopo di un PC, ma solo un aspetto della sua lotta che ha obiettivi ulteriori.
Infatti, la questione non è vivere meglio nell’attuale società capitalistica -e d’altronde sarebbe un’ autentica illusione credere di potersi liberare in tal modo, cioè attraverso riforme, da contraddizioni, che appartengono alla sostanza stessa della società capitalistica, che caratterizzano strutturalmente il sistema dei rapporti capitalistici; il problema è, piuttosto, quello di un autentico cambiamento del sistema, anche attraverso la strada delle riforme.
Da una chiara consapevolezza delle contraddizioni fra le due classi della società capitalistica segue che la caduta della classe dominante deve condurre al superamento del carattere classista della società, perché non deve darsi più che una sola classe (dunque, nessuna classe). A questo punto, lo scopo del PC risulta determinato: esso è rivoluzionario, in quanto vuol porre termine alla società di classe.
Sul modo di questo passaggio rivoluzionario alla società senza classi ancora non è stato detto nulla, né era possibile farlo, posta la stablità dei rapporti di dominio capitalistici, che non consente di intravvedere, in forma concreta, i modi della sua caduta.
Tuttavia, si può certamente dire che il passaggio al socialismo presuppone, almeno, l’adesione passiva della maggioranza popolare, poiché il socialismo non può significare l’imporsi di una nuova classe dominante, ma piuttosto il ridestarsi dell’uomo nel quadro di una associazione di liberi cittadini autodeterminantesi.
Naturalmente si tratta di un processo di educazione sociale di lunga durata e non di qualcosa che si possa raggiungere con un unico atto rivoluzionario: comunque, il primo presupposto è la disponibilità delle masse a porsi nella prospettiva di tale sviluppo.
Sarebbe un errore ritenere che la sostituzione di una formazione sociale mediante una nuova possa ottenersi attraverso l’operare di una minoranza dirigente anche se, naturalmente, una tale minoranza può porsi alla testa di un processo ancora non organizzato e giocarvi, appunto, un ruolo di direzione, come fecero i bolscevichi nella Rivoluzione d’Ottobre.  La disponibilità, però, ad entrare ed a partecipare a tale processo deve esser largamente diffusa tra le masse, pur in mancanza di una comune, piena consapevolezza dei suoi scopi finali. La rivoluzione è possibile sempre e solo in quanto democratica, in caso contrario si tratterebbe di un mèro putch. Nelle precedenti società di classe, le rivoluzioni si son andate costruendo nei tempi lunghi, poiché la nuova classe, che puntava alla realizzazione di rinnovate forme statali dei rapporti di produzione, si svilupparono mano a mano fino a prendere il potere ed orientare, così, forme e strutture della vita sociale.
La rivoluzione socialista si svolgerà diversamente, perché non rappresenta una nuova classe che si candidi al posto della attuale classe dirigente; di necessità segnerà, invece, la transizione a forme di organizzazione sociale non più classiste.  Ora, questo passaggio -noto col termine di dittatura del proletariato- non significa l’instaurarsi di un nuovo dominio di classe ma, appunto, l’abbandono di esso. Ma anche per questo è necessario il sostegno delle masse -in caso contrario, non si potrà giungere alla trasformazione sociale.
Va da sé che, poste le condizioni di vita e le strategie di dominio capitalistiche, non ci si può attendere che, tra le masse, sorga spontaneamente la coscienza non solo della necessità di cambiare questa società, ma anche di quali siano i fondamenti dell’alternativa ad essa. L’insoddisfazione, la volontà di liberarsi dai disagi e l’angoscia per possibili crisi che minaccino l’umanità intera (immiserimento di massa, guerre, catastrofi ecologiche, manipolazioni genetiche) possono a lungo esser stornate o fatte giocar l’un contro l’altra, attraverso l’uso ideologico dei media nell’ interesse della classe dominante. Oggi, la conoscenza delle contraddizioni sociali e delle loro conseguenze politiche richiede un’elaborazione teorica della realtà ad altissimo livello d’astrazione: portare le masse a tale livello di attività astrattiva è certo un compito di lungo periodo ma necessario, perché esse possano -sulla base delle tradizioni di lotta del movimento dei lavoratori, o per l’insegnamento ricavato da particolari esperienze proprie di lotta di classe- farsi attive protagoniste della lotta per la trasformazione sociale.
L’unità politica, che è necessario far crescere tra le masse, ovviamente non può essere conseguita attraverso un mèro addottrinamento, piuttosto deve nascere dalla propria esperienza nella e con la società capitalistica, dal senso dell’ingiustizia e disagio in cui si vive e della propria impotenza.
Si tratta di esperienze, che tanto più facilmente possono trapassare da scoraggiate reazioni individuali alla comprensione dei processi sociali, tanto più entrano in comunicazione, si confrontano e si relazionano con esperienze di altri: le organizzazioni sociali son il luogo dove una cultura socialmente consapevole giunge al suo compimento.
I sindacati, che rappresentano gli interessi dei salariati nel processo di lavoro, giocano in questa prospettiva un ruolo importante: le lotte sindacali, infatti, sono un primo gradino per una coscienza politica e sociale -ma. appunto, non sono che un primo gradino. I sindacati hanno il compito di sostenere, contro il padronato, gli interessi dei lavoratori sul luogo di lavoro e le loro rivendicazioni di miglioramento sociale; il che significa che essi operano, sia pure criticamente, nei confini della società capitalistica; l’elaborazione di una complessiva alternativa sociale non rientra nei loro compiti; certamente, i sindacati possono inserire nel loro ambito temi e posizioni socialiste ma questi, altrettanto certamente, non costituiscono il contenuto delle lotte e della prospettiva sincacali.
Il mutamento del sistema sociale è un compito politico, che richiede un partito. Il quale, anticipando la coscienza delle masse, contemporaneamente opera acché tale coscienza, mano a mano, si sviluppi e consolidi mediante l’elaborazione organizzata dell’esperienza in e con la società presente, al fine di tradursi, poi, in comportamento politico: una tale partito costituisce l’ avanguardia delle masse, il portatore del progresso sociale.
Appartenere all’avanguardia non rappresenta un privilegio né consente facili allori; coloro i quali anticipano lo sviluppo generale e per esso si impegnano, debbono come contropartita accettare per lungo tempo il ruolo di minoranza e, forse, anche di sparuta ed instabile minoranza; debbono esser disposti al sacrificio di sé ed a tollerare persecuzioni e danni; costoro debbono sapere che la strada per il successo è cosparsa di arretramenti e sconfitte.
Il piccolo orizzonte della propria vita, probabilmente, non consente a chi si sia dato con piena dedizione ad uno scopo di vederlo con l’ ampiezza dovuta: son necessarie forza di carattere e la certezza di muoversi nel senso del destino dell’umanità. La fermezza e la sicurezza di sé, proprie dell’avanguardia, son date dal sapere di aver compreso le leggi del progresso sociale e che, nell’attuale situazione del mondo, solo questa alternativa si dà: o una razionale organizzazione sociale, libera dal predominio degli interessi capitalistici; oppure, sconfitta dell’umanità. Come diceva Ernst Bloch, mai come ora siamo difronte alla scelta: o tutto o nulla.
Conoscer ciò è conoscer la condizione di classe. Lo sviluppo della coscienza di classe è il compito di un PC. Esso è l’organizzazione che vede nella lotta politica la lotta di classe e che la dirige.
Nella lotta di classe si desta la coscienza di classe e si afferma, anche, la consapevolezza che gli interessi individuali non debbono prendere il sopravvento nei confronti del comune interesse di classe, che la solidarietà è il presupposto per il successo da parte di chi è privo di potere ed è oppresso.
La coscienza di classe include concezioni teoriche e con ciò non intendo un sapere accademico, ma sì la conquista d’una comprensione della storia e della società, che rende intelligibili le linee fondamentali ed i fronti di lotta della politica.
Il PC deve sviluppare al proprio interno forme di vita, che generino questa unità di conoscenza, atteggiamento e comportamento. I comunisti possono essere l’avanguardia combattiva della società, se riescono ad essere anche la sua avanguardia teorica.
Com’è inevitabile, un tale equilibrio non si crea automaticamente. La dirigenza del Partito deve impegnarsi nella formazione teorica e produrre materiale a questo scopo; deve stimolare la discussione interna e deve dar spazio al contributo della base per l’elaborazione tattica e strategica: il trasferimento alla base della linea politica centrale non deve ostacolare l’iniziativa periferica, ché la presenza del Partito inizia nel territorio e nel singolo luogo di lavoro; la stessa coscienza di classe potrà svilupparsi, solo se le esperienze e gli interessi dei singoli territori e dei singoli luoghi di lavoro, da contenuti primari di esprienza si evolveranno in coscienza della società in generale e della prospettiva storica. Nessuna efficace azione politica è possibile in violazione di tali condizioni.
I comunisti debbono verificarsi nella mediazione dialettica di particolare e generale: ciò che definisce l’avanguardia non è la sua capacità di comprender meglio sulla base di una migliore teoria e visione del mondo; sì piuttosto, la capacità di battersi meglio e con maggior lucidità sul fronte della vita quotidiana -lucidità che, per altro, è legata al possedere una visione dell’insieme.
La garanzia statutaria di una democrazia di partito che si costruisca dalla base è importante nella stessa misura, in cui lo è l’esistenza di militanti che si impegnino nel lavoro di partito, nella formazione teorica e, sulla base di ciò, nella partecipazione ai processi decisionali che lo riguardano. E’ del tutto comprensibile la tendenza a delegare ad una dirigenza di cui ci si fida le decisioni di partito, invece che partecipare ad esse. In questo modo, però, si giunge ad un irrigidimento della vita di partito ed alla costituzione di una unidirezionale struttura di comando, anche quando la dirigenza del partito non vorrebbe cedere alla ricerca di forme semplificate di direzione: la dialettica del movimento ‘dall’alto verso il basso’ e viceversa ha bisogno che ci si impegni per la sua realizzazione, chiama in causa, dunque, il senso di responsabilità dei comunisti nei confronti del partito a cui aderiscono: senso di responsablità da cui non bisogna demordere, quali che siano le difficoltà che possa comportare. Solo a questa condizione, la necessaria disciplina di partito è una forza e non un impedimento.
Condenso quanto finora detto in cinque tesi:
- il PC è l’organizzazione, che ha come scopo finale il cambiamento dell’insieme sociale e la costruzione di una nuova formazione sociale;
- il PC è l’organizzazione di lotta della classe lavoratrice, che realizza gli interessi umani ed è il luogo, in cui si costruisce la coscienza di classe, nel momento stesso in cui per quegli interessi si lotta;
- la coscienza di classe è la forma politica della concezione del mondo, basata sulla teoria del socialismo scientifico. Questa teoria, nel suo continuo sviluppo, è una componente imprescindibile della coscienza di sé da parte comunista;
- il PC, in quanto organizzazione in cui la coscienza di classe si va costruendo sulla base della più progressista teoria della società e del rapporto natura-società, è l’avanguardia della classe lavoratrice (e del progresso sociale) e di ciò dà prova attraverso il suo agire esemplare;
- un PC realizza i propri compiti storici, solo se si attiene alle regole dette.
Ciò che abbiamo così formulato son condizioni fondamentali dell’autocoscienza comunista . Chi desidera costruire un PC e non semplicemente una formazione di sinistra, deve attenersi a tali condizioni, che -conseguentemente- debbono improntare di sé lo spirito della ‘legge fondamentale del Partito’, dunque, i suoi statuti.
Da tutto ciò ricavo le seguenti conseguenze:
1- il Partito non può stabilire la sua forma organizzativa, senza indicare i fondamenti teorici di sé in quanto organizzazione e in quanto soggetto politicamente attivo: quello comunista è il Partito del socialismo scientifico. Ciò non significa -ché sarebbe dogmatismo e burocratismo- accettazione in blocco ed applicazione di quella teoria; ma piuttosto che il Partito si impegna, con la sua esperienza politica e con le conoscenze scientifiche che acquisisce, allo sviluppo della teoria del socialismo scientifico -teoria che, d’altronde, deve improntare di sé la sua pratica. In questo senso, il Partito è responsabile della verità della teoria (contro ogni forma di opportunismo, di irrigidimento dogmatico e di mèro, scolastico addottrinamento). Il Partito deve darsi forme organizzative, che consentano ai militanti di stabilire una relazione diretta ed autonoma con i presupposti teorici e i fondamenti della visione del mondo del socialismo scientifico. (Non si dimentichi l’importanza che, per il movimento politico dei lavoratori, ha la tradizione di iniziative collettive per la formazione culturale: a suo tempo rappresentò una forza per la socialdemocrazia tedesca il fatto di appoggiarsi ad una consapevole e diffusa attività culturale tra i lavoratori). La discussione teorica, la verifica critica ed il confronto di pensieri ed opinioni devono essere assicurati dagli statuti del Partito e divenire effettiva pratica della sua vita interna. Presupposto di una discussione ampia, utile e capace di riflettere teoricamente la situazione esistente è il serio apprendimento dei concetti fondamentali e dei metodi del materialismo storico e dialettico. Il Partito non è il luogo di un pluralismo di visioni del mondo, ma di una varietà di sviluppi della teoria, sotto il profilo scientifico e pratico-politico, che possono esser controversi, pur avvenendo sulla base di una comune visione del mondo.
2 - Il Partito non è eminentemente uno spazio di discussione, ma un’organizzazione volta all’ agire politico: il che implicita cha sia capace, in tempi determinati, di prendere decisioni. Come organizzazione della lotta di classe ed in quanto minoranza, posta nella difficilissima condizione di avanguardia attiva, il Partito non può spezzettare la propria attività nella forma di molteplici, distinte correnti: una funzione del lavoro teorico è, anche, quella di unificare le volontà. Ciò significa, che nel momento della decisione, le possibili divergenti opinioni di singoli o di gruppi non possono permanere nella loro autonomia: se la verità storica si realizza (come cercheremo di mostrare) nella forma organizzativa del Partito, allora la disciplina di partito è un momento della verità e, dunque, quella disciplina non costituisce una categoria sociologica, ma sì epistemologica; ciò è vero anche nel possibile caso, in cui le conoscenze di un singolo siano più avanzate del livello di coscienza raggiunto dal Partito nel suo complesso. D’altra parte, le crescenti conoscenze acquisite dai suoi membri (anche singoli), se inserite nelle discussioni interne del Partito, ne elevano il livello. Insomma, l’istituzionalizzazione della formazione e del dibattito in ambito teorico e di visione del mondo è una componente imprescindibile per la vita organizzativa del Partito.
Di qui deriva con tutta evidenza l’opportunità che i compagni si organizzino per ricercare assieme le conoscenze corrette e non dividendosi, invece, in frazioni organizzate su piattaforme alternative. (Ciò vale, anche, per il clima stesso del confronto d’opinione: se l’obiettivo è la ricerca della verità, inviolabile è il diritto all’errore e chi -secondo gli altri compagni o la loro maggioranza- è in errore, non va per questo diffamato; il diritto all’errore, tuttavia, non è diritto al frazionismo o alla dissidenza).
3 - Il Partito può adempiere alla sua funzione d’avanguardia se non abbandona l’unità delle sue concezioni politiche: solo a questo patto, esso ha la forza di convincere altri.
Nella sua azione in quanto minoranza, esso deve mantenere la propria particolarità quali che siano le alleanze, movimenti e società cooperative in cui sia presente; come anche deve valutare la propria visione delle cose - la teoria materialistica storica e dialettica-, quale momento dell’agire comune. Le alleanze, in realtà, son effettivamente tali, quando rispettino e diano valore anche alle differenze tra i partners. La diffusione, d’altronde, della coscienza di classe tra le masse è possibile solo dispiegandosi l’analisi e la valutazione storico-materialistiche di situazioni ed eventi.
4 - Un altro punto auto-evidente, è che l’organizzazione di un partito politico non può basarsi sulla decentralizzazione: un partito non è il luogo, in cui si coordinano distinti gruppi d’interesse -regionali o locali, che siano; e ciò vale al massimo grado per un PC, perché la sua unità si sostanzia nella comunanza delle posizioni teoriche e politiche: la centralizzazione della direzione politica è l’espressione organizzativa di questa unità di idee. D’altronde, la direzione centralizzata è legittimata solo se le decisioni vincolanti, da essa prese (perché è la sola autorizzata a farlo) e valide per tutto il Partito, risultano da un continuo processo di discussione e scambio di opinioni ed esperienze, che coinvolge la base del Partito. La forza della direzione deve corrispondere alla forza della base ed i comunisti debbono esser riconoscibili per la serietà ed ampiezza del loro impegno. Ciò non significa, sia chiaro, che essi debbano esser semplicemente mobilitati e lasciarsi comandare in questo senso; piuttosto significa che i comunisti hanno da partecipare costantemente allo sviluppo del Partito -e non solo in occasione dei Congressi, ma nella sua vita quotidiana-, in modo che per la coscienza del militante impegnarsi od essere impegnato all’interno della strategia centrale siano una ed una stessa cosa. Un partito ha da esser centralizzato se vuol essere capace di azione politica, e può essere democratico solo se l’attivizzazione della base costituisce l’elemento vitale della sua organizzazione e quando fra l’impegno alla base e l’attività del partito nel suo complesso vi sia una continua mediazione, data o dal sistema organizzativo o dalla diretta comunicazione. Vengo alla conclusione.
il PC è il partito della coscienza di classe sviluppata e in contino sviluppo sul fondamento del socialismo scientifico. Esso organizza la propria unità pratico-politica e teorica mediante il convergere di una ferma e dinamica direzione con una base attiva ed educata nella sua volontà. Il PC si sa responsabile nei confronti della verità storica e del progresso e, per questo, non è affatto disposto a deviare opportunisticamente da principi correttamente compresi. Solo la conseguenzialità e correttezza del suo comportamento offre la possibilità di superare finalmente l’organizzazione sociale capitalistica e la sua disumanità.

2° capitolo  - I fondamenti filosofici del PC tedesco.
“Il PC tedesco (DKP) basa la propria politica sulla teoria di Marx, Engels e Lenin... Esso difende il socialismo scientifico contro ogni tipo di ideologia borghese... Il Partito è impegnato ad applicare in modo creativo la dottrina di Marx, Engels, Lenin alle condizioni del nostro Paese ed, in questo modo, a contribuire all’arricchimento del patrimonio di esperienza del movimento internazionale dei lavoratori.”
Così si legge nel programma che il DKP si dette nel congresso, svoltosi a Mannheim nell’ottobre 1978. In tal modo il Partito si presentava come una formazione, il cui comportamento politico non dipendeva dai mutevoli interessi di altrettanto mutevoli persone, tendenze, maggioranze, né tanto meno dalle oscillanti preferenze della così detta ‘opinione pubblica’; ma sì piuttosto come una formazione, la cui politica era determinata da una chiara comprensione scientifica delle leggi dinamiche della storia, delle contraddizioni e tendenze di sviluppo della società, delle forze e potenzialità essenziali del genere umano ed, infine, delle possibilità di realizzare un ordine di vita umano, perché liberato da sfruttamento ed oppressione.
Chi aderisce al DKP si riconosce in qualcosa di più che in questo o quell’obiettivo politico, nel quale vede rispecchiati i propri interessi e nel limite del quale egli resta quella persona privata che già era. Chi aderisce al DKP, piuttosto, si pone sul terreno di una visione scientifica del mondo, capace di orientare sia il suo pensiero che il suo agire.
“Criterio politico del DKP e fondamento scientifico della sua politica è la dottrina di Marx, Engels e Lenin “, si legge nel preambolo al programma del 1978. E quando lì si scrive “criterio”, il termine va riferito non solo al Partito in quanto organizzazione complessiva, ma anche ad ognuno dei suoi militanti: è per questo, d’altronde, che nel programma si pongono “alte pretese politiche e morali” per ogni comunista. Questo modo di concepire il Partito non è per caso.
Nell’elaborazione di una strategia politica in vista del cambiamento rivoluzionario della società, fin dall’inizio della sua azione nel Partito, Lenin su questo insistette: “senza una teoria rivoluzionaria, non si dà movimento rivoluzionario”.[7]. Perché?
E’ del tutto chiaro che la difesa dei propri interessi di base non richiede affatto, come precondizione, un’analisi scientifica della società; ad es., un piccolo imprenditore può adeguatamente rendersi conto, e ad essi dedicare la propria personale esistenza, degli interessi, che discendono dalla sua impresa, della sua dipendenza dalle banche e dalla grande industria, come anche di quanto sia necessario, invece, che egli riesca a conquistarsi un’indipendenza propria. Ed egli può, con opportune tattiche e compromessi, muoversi entro questa contraddizione. Una teoria del capitalismo -che ne mostri lo sviluppo monopolistico come una necessità derivante dalle leggi stesse del processo d’accumulazione del capitale- non è affatto necessaria a quel piccolo imprenditore e, addirittura, potrebbe perfino danneggiarlo nelle sue tattiche. Il fatto è che superare il rapporto di capitale non fa parte dei suoi interessi, dato che egli stesso è un capitalista, sia pur piccolo. Le cose stanno del tutto diversamente per un lavoratore salariato.
I suoi interessi immediati -aumenti salariali, miglioramento delle condizioni di lavoro, diminuzione della giornata lavorativa-, che egli vede rappresentati dai sindacati, restano sempre all’interno del capitalismo e si limitano a contrastare, perfino in modo parziale, la volontà degli imprenditori. Ma è proprio all’interno del sistema in cui vive, che il lavoratore non può sfuggire al suo peggior avvilimento -ossia, allo sfruttamento-; si tratta, infatti, di un sistema basato sull’appropriazione privata del plusvalore da parte del proprietario del capitale.
Il lavoratore salariato, dunque, per poter prender conoscenza dei suoi effettivi interessi, è costretto a penetrare a fondo il modo di funzionamento del sistema, cioè, la legge dell’accumulazione capitalistica, ed a comprenderne le forme sociali particolari.
Egli deve rendersi conto che l’intera sua condizione di vita (non solo, dunque, la sua vita lavorativa) è determinata dai rapporti di produzione, che lo costringono dentro le morse di un meccanismo di dominio, da cui non può liberarsi se non rigettandolo completamente. E’ solo attraverso la teoria scientifica che può risultar chiaro a quel lavoratore che il suo non è un qualche interesse particolare, individuale, di cui possa ottenersi la soddisfazione attraverso questa o quella modificazione (le riforme) del sistema; ma il suo è piuttosto l’interesse ad una trasformazione generale dell’ordine sociale esistente.
Senza questa consapevolezza teorica, il lavoratore salariato resterà sempre un momento dipendente del rapporto di capitale, pur se in lotta continua con gli sfruttatori, cioè, i funzionari di quel sistema: insomma, una vittima offerta alla manipolazione ed all’oppressione.
Una comprensione scientifica della sua condizione di salariato -quale che sia, poi, la sua propria, particolare situazione- risulta intollerabile per il lavoratore, che voglia perseguire i suoi veri interessi. Egli deve riuscire a vedersi come appartenente a quella classe, il cui sfruttamento è condizione d’esistenza per il capitale, ma che anche rappresenta la radicale contraddizione interna del sistema capitalistico. L’autoliberazione della classe dei lavoratori presuppone esattamente questa conoscenza, quale strumento per orientarne l’azione. Proprio per questo, il Lenin che elabora la strategia politica della lotta di classe ha indicato nella teoria una componente interna alla prassi stessa: “Marx... vedeva l’intero valore della sua teoria nel fatto che essa è «per la sua stessa essenza, critica e rivoluzionaria». E quest’ultima qualità è, senza alcun dubbio ed incondizionatamente, propria del marxismo, poiché esso è la teoria che si dà direttamente il compito di portare a piena luce tutte le forme di antagonismo e sfruttamento proprie della moderna società, di seguirne lo svolgimento, di mostrarne il carattere e gli inevitabili mutamenti di forma; e tutto ciò allo scopo di aiutare il proletariato a porre fine, al più presto e nel modo più facile, allo sfruttamento.”[8]
Sviluppando ulteriormente la teoria del Partito nel Che fare? , Lenin si rifà espressamente ad Engels: “Engels riconosce non due forme della grande lotta socialdemocratica (la politica e l’economica) -come si fa abitualmente da  noi-; ma tre, poiché accanto a queste egli pone anche la lotta teorica.”[9] ; Lenin prosegue rinviando, anche, alla prefazione engelsiana a La guerra dei contadini in Germania.
Qui, come anche in molte altre pagine delle sue Opere, appare chiaramente come Lenin concepisse le proprie enunciazioni quali applicazione e adattamento delle posizioni di Marx ed Engels ai contenuti di una situazione data -in questo senso, Lenin autorizza un uso sensato del costrutto marxismo-leninismo.
Il leninismo è, infatti, il punto di arrivo di uno sviluppo del pensiero di Marx ed Engels, poste le esigenze di una politica rivoluzionaria nella fase imperialistica della formazione sociale capitalistica, ovvero, in una situazione in cui “nella teoria si deve in primo luogo vedere una guida all’azione.”[10]
Per sua stessa essenza, il marxismo non è una dottrina conchiusa, sì piuttosto, proprio in quanto sapere della storia e delle sue radici nei processi naturali, è esso stesso sottoposto al mutamento storico dei rapporti sociali e della conoscenza scientifica.
Gli stessi sviluppi della realtà pretendono svolgimenti e modifiche di quella teoria che, appunto, la realtà riflette e che di essa mette in luce le possibilità giacenti, allo scopo di indicare obiettivi all’azione. Insomma, il marxismo è un sistema aperto al futuro.
Nei quarantasette anni che separano la pubblicazione di Das Kapital (1867) dallo scoppio della prima guerra mondiale (1914), il capitalismo raggiunse un nuovo stadio di sviluppo, nel quale le sue interne contraddizioni si approfondirono ma si rafforzò anche, mediante le organizzazioni politiche del movimento dei lavoratori, la forza antagonistica al sistema. E’ così che si posero i compiti: a) di cogliere le particolarità di questa nuova fase, sulla base della corretta analisi dell’essenza del capitalismo, contenuta nell’opera di Marx e di Engels (teoria dell’imperialismo); b) di determinare i fondamenti della lotta organizzata della classe operaia (teoria del Partito); c) di combattere l’infiltrazione nel movimento dei lavoratori di elementi ideologici borghesi, quali il neo-kantismo e il positivismo; nonché di rafforzare la valenza metodologica e di orientamento del materialismo dialettico e storico (teoria filosofica). In tutti e tre gli ambiti, nella più stretta coerenza con la lezione classica di Marx e di Engels, Lenin ha saputo elaborare le nuove prospettive, corrispondenti alla situazione attuale.
Escludere Lenin dal socialismo scientifico, inteso come costruzione teorica in continuo sviluppo ed attualizzazione, -cosa che, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, è stata sollecitata da parte di alcuni disfattisti ed, ovviamente, da parte dei  nemici di classe-, non avrebbe altro significato, se non riportare la comprensione del capitalismo alla sua fase pre-imperialista e, così, annientare le capacità di lotta dei comunisti. L’espressione marxismo-leninismo ha un senso preciso, in quanto fissa la continuità fra le prime due fasi dello sviluppo della teoria, ne sottolinea il carattere aperto e, con ciò stesso, mostra che il suo sviluppo non è concluso, ma che, ben al contrario, consegue alla riflessione teorica ed alla sistematizzazione delle nuove fasi della storia. E’ quanto, d’altronde, Marx intendeva, quando parlava di “concreto del pensiero”.[11]

§. 1. Il carattere.
E’ fuori discussione il significato della teoria per una strategia comunista conseguente. Senza una comprensione teorica della situazione in cui si agisce, le azioni restano spontanee e limitate agli interessi particolari ed alle reazioni emozionali dei gruppi, che al momento operano.
E’ certo che senza spontaneità gli uomini non sarebbero motivati all’azione; tuttavia, la discussione teorica che coinvolge gli ‘ideologi’ del movimento ha il compito di far emergere al di sotto dei motivi particolari le leggi e tendenze generali, per poter dare al singolo comportamento il posto e la finalità che gli spetta entro il complessivo processo sociale. Si può affermare “che l’ ideologo in generale svolge effettivamente il suo compito, se riusce ad anticipare il movimento spontaneo, a mostrargli la strada; se egli comprende prima degli altri tutti i problemi teorici, politici, tattici ed organizzativi da risolvere, contro i quali gli ‘elementi materiali’ del movimento spontaneamente vanno a scontrarsi. E per valutare oggettivamente ‘gli elementi materiali del movimento’, bisogna rapportarsi ad essi criticamente, rendersi conto dei pericoli e delle carenze del movimento spontaneo, insomma, riuscire a portare la spontaneità al livello della coscienza.”[12]
La coscienza stessa è un momento reale d’una situazione storica ed influenza il processo di mutamento della realtà. Dunque, un’adeguata coscienza è elemento necessario di un adeguato agire.
Il modo qui espresso di intendere la teoria si differenzia, fondamentalmente, da quello che è proprio della scienza tardo-borghese.
Quest’ultima fa perno sulla distinzione fra enunciati descrittivi ed enunciati prescrittivi e sull’affermazione che gli ultimi non possono esser fondati -cioè, dedotti logicamente- a partire dai primi.
In altre parole, lo studio della realtà ed in generale il lavoro propriamente scientifico si limitano a produrre descrizioni di stati di fatto o di sistemi di relazioni, da cui solo per arbitrio o ‘libera’ decisione potrebbero ricavarsi logicamente scopi e modi di comportamento: da come la realtà è non si può logicamente dedurre come la realtàdebba o non debba essere.
Appare chiaro che se la teoria tardo-borghese fosse giusta, chi ha il potere vedrebbe giustificato, anche, il suo orientare  il futuro secondo i propri interessi: insomma, chi detiene il potere deterrebbe anche il diritto.
Il principio della scienza tardo-borghese prescinde dal fatto che ogni realtà include in sé possibilità (effettive possibilità) le quali, da un lato, son parte della realtà, dall’altro, son implicite in essa e, dunque, possono e debbono esser previste anche nella descrizione degli effettivi stati di fatto; ora, è certo che se abbiamo a che fare con possibili alternative di sviluppo sociale che son implicite nella realtà, allora è vero che le decisioni da prendere non hanno nulla di arbitrario né di utopico; al contrario, la scelta tra alternative diverse si lascia ricondurre alle necessità biologiche e sociali dell’uomo, con gli scopi e i valori che comportano. Insomma, si tratta di una scelta fondata sulla ragione.
Descrivere una situazione e indicare le decisioni da prendere e le finalità da perseguire fan tutt’uno nella teoria, posto che quest’ultima può essere -essa stessa- un momento interno alla prassi. Appunto questa unità consente una conoscenza, che si verifica e corregge nella pratica.
Ma che si dia una corretta consapevolezza come elemento di un altrettanto corretto comportamento politico non è partita, che si giochi al livello della conoscenza individuale. La valutazione di una situazione vale come linea di marcia per una organizzazione se, almeno nei tratti fondamentali, è condivisa con piena convinzione dei suoi militanti, tanto da esser pronti ad impegnarsi nella linea politica conseguente. La teoria non può, dunque, essere ‘decretata’ dagli ideologi, vale a dire dai teorici del Partito, ma deve svilupparsi ed approfondirsi all’interno del Partito stesso. In questo senso, ogni attivista di Partito è un “intellettuale organico” della classe lavoratrice, come diceva Gramsci.
Una tale discussione teorica e un tale processo di formazione, però, non si svolgono separati dall’azione politica. Nei clubs di discussione, come anche negli Istituti universitari o di ricerca, fioriscono questa o quella opinione, corrette o false che siano, si elaborano teorie intorno a settori di realtà, sempre allo scopo di conseguire “conoscenze pure”. Ma perché opinioni e teorie possano condurre alla trasformazione rivoluzionaria della vita e della società, è necessario che si integrino nella prassi politica e che vengano continuamente sottoposte alla verifica dell’esperienza politica.
Il Partito  è il luogo, in cui si realizza questa compenetrazione di teoria e di prassi, nella stessa misura in cui la vita di Partito si svolge con l’attiva partecipazione dei militanti; è il luogo, in cui si impara dall’esperienza, si costruisce la teoria, la si modifica e la si collega alla pratica ed in cui dalle generalizzazioni teoriche si ricavano conseguenze politiche. Per la vitalità d’un Partito, in quanto organismo che opera politicamente, nulla sarebbe più dannoso che il chiudersi nell’immobilità del dogmatismo. “Noi non consideriamo, in nessun modo, la teoria di Marx come qualcosa di conchiuso e di indiscutibile; al contrario siamo convinti che essa abbia fornito solo il fondamento della scienza, che i socialisti debbono ulteriormente sviluppare in ogni direzione, se non intendono restare indietro rispetto al corso della vita.”[13]
Il DKP è un Partito marxista-leninista, in quanto si pone l’obiettivo di realizzare, all’interno del Partito e nella forma di una attività organizzata, l’unità fra comprensione teorica della realtà, visione del mondo scientifica da essa ricavata, finalità sociali ed azione politica. Va da sé che forza ed efficacia di una qualunque organizzazione di Partito dipendono dal grado di attività dei suoi militanti. Gli statuti di Partito e la coscienza che esso ha di sè, spesso, presentano dei «devi», che si discostano dall’effettivo «è» del Partito stesso; quei «devi», però, all’interno dell’organizzazione di Partito, hanno la funzione decisiva di favorire la correzione delle deficienze, di promuovere l’attivizzazione dei militanti, stimolandone il ‘fattore soggettivo’, cioè la volontà, la coscienza, la disponibilità all’impegno. In particolare, ciò è vero nei periodi di forte crisi e riflusso del Partito.
Cercar di promuovere l’impegno pratico degli uomini, certamente, è impresa destinata all’insuccesso, se essi fanno riferimento ad una moralità astratta. La corretta comprensione di una situazione storica, e delle possibilità che essa offre, è la premessa di un’azione destinata al successo: chiamare all’impegno per uno scopo determinato, pretende che quello stesso scopo venga mostrato come obiettivo realistico e non utopico; in altri termini, esso deve avere a supporto un’analisi esauriente e penetrante della situazione di fatto e deve collegarsi ad una concezione strategica realistica. Ovviamente, ciò non esclude la possibilità di errori (nessun abbozzo teorico può esser perfetto), che il Partito è chiamato a correggere. Comunque, questo è un motivo in più a favore di una continua discussione interna al Partito -basata sulle esperienze acquisite-  a proposito della comprensione che si ha della situazione politica e per far sì che questa metta effettivamente radici nella coscienza dei militanti: il lavoro teorico appartiene all’attività politica per come il DKP la intende. Con questa sua concezione, il Partito si colloca nella tradizione della Terza Internazionale, dunque, all’interno della concezione leninista di un Partito, che punta ad un’attività politica né spontaneistica né puramente pragmatica, sì piuttosto basata su una chiara visione dei complessivi e contraddittori processi sociali, sulla sicura intelligenza delle leggi e forze motrici della storia.

§. 2 - La comprensione della storia.
Leggi e forze motrici della storia: questa, al primo sguardo, si presenta agli uomini come un contraddittorio, disordinato e scomposto succedersi di avvenimenti, determinati dall’arbitrio di singoli individui e gruppi, dipendenti dalle decisioni dei potenti, insomma un complicato intreccio di casualità senza senso e di accadimenti densi, invece, di conseguenze. Insomma, uno spettacolo di cui non sembra proprio sia possibile trovare una regola razionale.
Il primo fu Hegel a disegnare una teoria filosofica della necessità interna al corso della storia. Marx ed Engels presero le mosse dal programma hegeliano, interrogandosi, però, sulle condizioni materiali da cui e in cui la storia si svolge. La conoscenza delle condizioni materiali e delle leggi dinamiche dei processi, nei quali siamo coinvolti, consente anche un attivo intervento, realistico e finalizzato, sul loro svolgimento. La conoscenza scientifica della storia è il presupposto di un agire politico, che non nasca da opinioni soggettive o da soggettivi desideri, ma sì da fondamenti solidi: Marx ed Engels hanno fornito il nucleo di base di una tale teoria della storia, ovvero ilmaterialismo storico.
In primo luogo, gli uomini sono e restano esseri naturali e naturali, appunto, sono i loro bisogni primari: aria da respirare, cibo, difesa dalla violenza naturale e dalle bestie selvagge, sicurezza nell’allevamento della prole.
Come si vede, si tratta di bisogni che ritroviamo, tutti, anche nel mondo animale; ma nel lungo processo di “umanizzazione della scimmia”, l’umanità si è sviluppata fino al punto da non rispondere più alla proprie necessità con ciò che trovava immediatamente in natura, ma sì producendo essa stessa ciò di cui abbisognava (e nella quantità in cui ne abbisognava). A questo punto, l’umanità non si è limitata a riprodurre la propria vita, ma è giunta a produrre le condizioni stesse della riproduzione: per questo erano necessari gli strumenti di produzione, per la cui costruzione furono inventati altri strumenti. In questo modo andò mano a mano costituendosi un sistema, sempre più complesso e differenziato, di strumenti di produzione, che determinò continue modificazioni delle condizioni naturali di vita e produsse, anche, bisogni sempre nuovi.
Il sistema degli strumenti di produzione divenne sempre più complesso, quanto più si andava articolando sulla divisione del lavoro tra ‘specialisti’ dell’uno o l’altro momento produttivo.
La divisione del lavoro divenne regola e si costituì un sistema di reciproca dipendenza, che rese sempre più l’uomo un essere sociale. Per regolare queste relazioni sociali -i rapporti di produzione- si rese necessario un ordine giuridico, principi morali di comportamento e, pure, l’istituzionalizzazione di una cultura, capace di garantire l’elaborazione della crescente esperienza pratica e delle conoscenze scientifiche, sempre più complesse e differenziate, allo scopo di perfezionare gli strumenti di produzione ed i mezzi per soddisfare  necessità sempre in aumento.
Dalla divisione del lavoro nacque lo scambio dei diversi beni forniti da produtori differenti; mano a mano che si andava sviluppando la divisione del lavoro, si sviluppava anche un commercio sempre più emancipato dai bisogni immediati ed i beni divennero merci da scambiare sul mercato; da ciò nacque, anche, la proprietà privata.
Chi può contare sulla proprietà degli strumenti di produzione, acquista potere su coloro i quali, invece, possono solo servire quegli stessi strumenti con la loro forza-lavoro. Sulla base offerta dal tipo di rapporti di proprietà si vanno elevando classi sociali, che determinano in modo differenziato la distribuzione sociale della ricchezza prodotta. Dai contraddittori interessi di classe si origina la lotta tra le classi e questa lotta determina il corso stesso dello sviluppo sociale.
“La storia di tutte le società finora esistite è la storia delle lotte di classe. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in breve, oppressori e oppressi, furono continuamente in reciproco contrasto, e condussero una lotta ininterrotta, ora latente ora aperta; lotta che ogni volta è finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta.”[14]
La lotta di classe è la forma politica fondamentale della storia: ma -come si legge ancora nel Manifesto di Marx ed Engels- ogni lotta di classe è lotta politica; il contenuto della lotta è determinato dal sistema economico di produzione e di scambio. Ogni livello di sviluppo raggiunto dalla forze produttive e dagli strumenti di produzione assicura alla società tutta -agli sfruttatori come anche agli oppressi-  una condizione di esistenza (anche se ben diverse son le sorti dei signori e degli schiavi).
“Per poter opprimere una classe è comunque necessario assicurarle quelle condizioni, che le permettano se non altro di condurre la sua misera esistenza da schiavo.”[15]
Quando, sotto certi rapporti di proprietà, la capacità produttiva di una società non è più in grado di offrire condizioni sufficienti di esistenza ad una grande massa di sfruttati ed oppressi, lo sviluppo delle forze produttive non rappresenta più un’utilità sociale a cui, sia pure in piccola parte, anche i dominati partecipino, ma addirittura quello sviluppo viene ostacolato dai rapporti di proprietà ovvero si ripercuote a danno della società, è proprio allora che sorge la necessità di mutare l’ordinamento sociale ed i rapporti di proprietà.
“Abbiamo però veduto che i mezzi di produzione e di scambio sulla cui base si eresse la borghesia, furono generati in seno alla società feudale.  A un certo grado dello sviluppo di questi mezzi di produzione e di scambio, le condizioni nelle quali la società feudale produceva e scambiava, vale a dire l'organizzazione feudale dell'agricoltura e della manifattura, in una parola i rapporti feudali di proprietà, non corrisposero più alle forze produttive già sviluppate. Quelle condizioni, invece di favorire la produzione, la inceppavano. Esse si trasformavano in altrettante catene.  Doveva­no essere spezzate, e furono spezzate. Subentrò ad esse la libera concorrenza con la costituzione politica e sociale ad essa adatta, col dominio economico e politico della classe borghese. Sotto i nostri occhi si sta compiendo un processo analogo. Le condizioni borghesi di produzione e di scambio, i rapporti borghesi di proprietà, la moderna società borghese, che ha evocato come per incanto così potenti mezzi di produzione e di scambio, rassomiglia allo stregone che non può più dominare le potenze sotterranee da lui evocate.  Da qualche decina d'anni la storia dell'industria e del commercio non è che la storia della ribellione delle moderne forze produttive contro i modemi rapporti di produzione, contro i rapporti di proprietà che sono le condizioni di esistenza della borghesia e del suo dominio. Basti ricordare le crisi commerciali, che nei loro ritorni periodici sempre più minacciosamente mettono in forse l'esistenza di tutta la società borghese.  Nelle crisi commer­ciali viene regolarmente distrutta una gran parte non solo dei prodotti già ottenuti, ma anche delle forze produttive che erano già state create.  Nelle crisi scoppia una epidemia sociale che in ogni altra epoca sarebbe apparsa un controsenso: l'epidemia della sovrapproduzione.  La società si trova improvvisamente ricaccia­ta in uno stato di momentanea barbarie; una carestia, una guerra generale di sterminio sembrano averle tolto tutti i mezzi di sussi­stenza; l'industria, il commercio sembrano annientati, e perché?  Perché la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussisten­za, troppa industria, troppo commercio.  Le forze produttive di cui essa dispone non giovano più a favorire lo sviluppo della civiltà borghese e dei rapporti della proprietà borghese; al contrario, esse sono divenute troppo potenti per tali rapporti, sicché ne vengono inceppate; e non appena superano questo impedimento gettano nel disordine tutta quanta la società borghese, minacciano l'esistenza della proprietà borghese. I rapporti borghesi sono diventati troppo angusti per contenere le ricchezze da essi prodotte.”[16]
Queste proposizioni, che traggo dal Manifesto, possiamo dirle profetiche, dacché valgono come anticipi delle crisi economiche, dei conflitti bellici mondiali che verranno ed, anche, mostrano le radici di quei disastri ecologici, che minacciano l’esistenza stessa dell’uomo.
La realtà ha confermato quelle proposizioni con l’immiserimento di gran parte del mondo che ha comportato la morte per fame di miliardi di uomini; con la produzione di armi atomiche, biologiche, chimiche, che mettono in pericolo la sopravvivenza stessa dell’umanità; con il crescente inquinamento e distruzione dell’ambiente.
“Nella stessa misura in cui si sviluppa la borghesia, vale a dire il capitale, si sviluppa anche il proletariato, la classe dei moderni lavoratori, i quali vivono sino a tanto che trovano lavoro, e trovano lavoro soltanto fino a che il loro lavoro valorizza[17] il capitale. Questi lavoratori, che sono costretti a vendersi al minuto, sono una merce come ogni altro articolo di commercio e perciò sono egualmente esposti a tutte le vicende della concorrenza, a tutte le oscillazioni del mercato.” [18]
La contraddizione (Gegensatz) di classe fra borghesia e proletariato è l’opposizione (Widerspruch) politica determinante della società capitalistica. E contro tutte le chiacchiere di coloro i quali parlano di scomparsa, oggi, del proletariato, varrebbe la pena ricordare qual è il significato del concetto di «proletariato»: “Il proletariato è quella classe della società, che ricava il proprio sostentamento solo dalla vendita del proprio lavoro e non dal profitto di un qualche capitale; è quella classe, il cui benessere o la cui miseria, la cui vita o la cui morte, insomma, la cui intera esistenza dipende dalla domanda di lavoro, dunque, dalla pura compra-vendita di tempo di fatica, dalle oscillazioni di una concorrenza che non conosce freni.”[19]
La forma esteriore in cui si configura il rapporto salariale cambia col mutare dell’organizzazione del lavoro e dei rapporti fra lavoro produttivo e lavoro non produttivo; la contraddizione di classe, però, -senza di cui non potrebbe esistere il rapporto di capitale-, non risulta toccata da quei mutamenti.
Un compito della teoria -che nella prassi del confronto politico si rafforza e verifica- è render visibile la lotta di classe per portarla alla coscienza, nonostante tutti i mascheramenti prodotti dall’ideologia borghese: è questo il modo per far nascere la coscienza di classe.

§. 3 - La dialettica della natura.
Alcune correnti filosofiche che, ingannandosi, si richiamano a Marx (ad es., la così detta Scuola di Francoforte, oppure i “filosofi della prassi” o gli esistenzialisti di sinistra) ritengono che la dialettica sia la struttura dei processi che nascono dall’attività dell’uomo nella storia e che sia legata essenzialmente al fatto che il soggetto si rapporta a se stesso e pone liberamente i suoi scopi: il presupposto è che l’uomo sia distinto radicalmente dalla natura e ad essa contrapposto.
Concepire in questo modo la particolare posizione dell’uomo nel mondo significa abbandonare il principio fondamentale dell’unità materiale del mondo stesso e, dunque, abbandonare il materialismo.
Tutti i fenomeni di questo mondo sono espressioni di una stessa realtà materiale, che si articola in complessi sviluppi e differenziazioni di livelli: ognuno di questi livelli ha proprie specifiche leggi dinamiche, le quali, però, vengono a costituire un insieme di interconnessioni.
Anche la natura non-umana definisce un sistema, costruito dall’interazione dei suoi elementi e nel quale, dunque, ogni elemento si lega all’altro, in modo più o meno diretto: proprio la crisi ecologica ci ha reso consapevoli di tale sistema di reciproche dipendenze in ambito naturale.
L’uomo, che opera sulla natura come soggetto libero, senza conoscere o senza tener in conto le interconnessioni naturali, provoca disastri non solo per la natura, ma anche per se stesso: anche per questo, non è possibile più consentire che il gioco degli interessi particolari, così densi di conseguenze  di grande estensione, possa continuare a svolgersi all’insegna del principio dell’ economia borghese «laissez-faire, laissez-passer».
In realtà, la dialettica della natura è immediatamente anche momento della dialettica sociale.
In quanto essere naturale, l’uomo ha bisogni, che soddisfa ed amplia in quanto essere sociale; in quanto essere sociale è dotato di un arco di possibilità determinate dalla natura e che, dunque, lo qualificano come essere naturale. La dialettica sociale della lotta di classe e del rapporto fra essere e coscienza corrisponde alla dialettica di natura e società nell’ interscambio dell’uomo con la natura” (Marx) e questa, a sua volta, presuppone la dialettica della natura (Engels), in quanto universalità delle forme dinamiche della materia: se astratto dalla fondamentale sua relazione con una visione del mondo dialettico-materialistica, il materialismo storico resta come sospeso in aria.
L’unità di una visione del mondo scientifica della natura e della società costituisce il fondamento dell’agire politico e della comprensione, che i comunisti hanno di sé: questi, infatti, non possono prender coscienza del loro ruolo nella storia, se non intendono l’interna connessione universale (Goethe).

§. 4 - Errori passati e prospettive future.
Quando, nel suo programma del 1978, si assumeva il compito di “approfondire fra gli operai e gli altri lavoratori la consapevolezza della propria collocazione di classe e l’inconciliabile contraddizione fra i propri interessi di classe e gli interessi di potere e di profitto del grande capitale”, il DKP si ricollegava alle consapevolezza di Marx, Engels e Lenin circa il significato di una comprensione teorica della storia per una corretta prassi rivoluzionaria.
Ma nei venti anni successivi della sua attività fino alla caduta delle società socialiste, il DKP ha acquisito anche una corretta comprensione di sè? Ha realizzato il suo compito di sviluppare la coscienza di classe attraverso la lotta politica di classe, in modo da garantire a quella stessa coscienza sicuri fondamenti teorici, almeno nell’ambito delle forze, che il Partito può organizzare? Uno sguardo retrospettivo sui 25 anni di storia del Partito e la considerazione dei compiti futuri non possono prescindere da questa domanda -anche se non si può dare un’ unica risposta a tale domanda. Torniamo, ancora una volta, al congresso programmatico di Mannheim 1978.
Il Partito, rifondato dopo lo scioglimento del DKP imposto dalla legge e che si riunisce a Mannheim, ha 10 anni e si tratta di un decennio (1968-78) ricco di svonvolgimenti politici, che accompagnano la crisi dell’ordine imperialistico fino ad allora imperante e la costituzione di un nuovo ordine per l’ultimo quarto di secolo.
La politica del roll back contro l’Unione Sovietica e la minaccia rappresentata dalla superiorità nucleare delle Potenze occidentale, entrambe, sono fallite. La fase del ‘cauto commercio’ (?), che iniziò con la cosiddetta ‘ politica di distenzione’ dell’era Brandt, sottintendeva l’uso della dipendenza economica dai paesi capitalistici, per acuire le contraddizioni interne dei paesi socialisti, fino a farne un’arma controrivoluzionaria. Dall’ideologia del ‘socialismo dal volto umano’ fino alla KSZE (?), si svolse un’intera gamma di strategie controrivoluzionarie nei confronti dei paesi socialisti.
Nello scontro sociale di questi anni il giovane DKP ha saputo conquistarsi un posto, in particolare radicandosi in una vasta alleanza anti-imperialistica nel movimento per la pace, anche se spesso pagando, come prezzo, necessario di anteporre le attività richieste da questo movimento agli scopi propri del Partito, talvolta anche sottovalutando -errore in cui, d’altronde, è caduta anche la DDR, la quale era attratta eminentemente dalla possibilità di un più ampio riconoscimento internazionale- i pericoli impliciti nella nuova “Ostpolitik”.
In tale situazione - in cui lo spazio di movimento politico del Partito era ridotto da condizioni esterne-, il lavoro teorico si è dimostrato fattore essenziale della stabilità interna e dell’efficacia esterna del DKP. E’ ben difficile che un altro PC del mondo Occidentale abbia saputo condurre, con mezzi tanto scarsi, una così ampia attività di ricerca scientifica ed abbia prodotto tante pubblicazioni. Gli studi, i materiali e i convegni dell’ Istituto di studi e ricerche marxiste (IMSF), - le pubblicazioni dell’editrice Marxistische Blätter, - gli scritti di solidali autori comunisti negli Studien zur Dialektik dell’editrice Pahl - Rugenstein o di altre imprese editoriali hanno largamente testimoniato l’impegno scientifico-culturale dei comunisti ed ampliato la loro influenza, ben oltre l’ambito strettamente comunista. Tra i lavori dell’ IMSF voglio ricordare gli annuari e resoconti - sull’occupazione operaia, - sul mutamento del movimento dei lavoratori, - sulla tipologia della crisi degli anni 80, - sul modo di vita dei salariati, - sulla teoria marxista della personalità, - sulla Rivoluzione francese e sull’odierna teoria della rivoluzione, - e l’importante volume per il Centenario di Marx. Dei trenta volumi degliStudien zur Dialektik ricordo il volume collettaneo su Antonio Gramsci, - quello sulla filosofia dal punto di vista cosmopolitico e sul socialismo scientifico, - l’altro sulla filosofia come difesa del tutto della ragione, - lo studio di W. Rügemer sull’antropologia filosofica e - le ricerche  di H. Bert Reuvers sulla Filosofia della pace. Insomma, l’attività scientifica dei marxisti nella Repubblica federale è stata ampia e di rilievo. Questo, per quanto riguarda il bilancio positivo.
Ma ad esso si contrappone il fatto che l’apporto teorico, auspicato e richiesto dall’organizzazione di Partito, solo in piccola parte riuscì a tradursi in pratica politica, capace ad un tempo di rispondere efficacemente alle urgenze delle cose, ma anche di avere un respiro più largo; in tal modo la qualità della ricerca filosofica e scientifica restò parzialmente inutilizzata e sempre più si distanziò dalla pratica politica quotidiana del Partito.
Anche per le esigenze che nascevano dalla lotta per la pace, si ebbero sottovalutazioni e ritardi nella promozione di altri movimenti democratici: ad es., il movimento per la difesa dell’ambiente ed, in parte, quello femminile.
Per quanto il DKP sia stato il primo partito ad impegnarsi praticamente e ad elaborare un programma in cui venivano delineate strategie classiste di lotta per la difesa dell’ambiente, tuttavia il Partito lasciò ai Verdi la lotta per mantenere le fondamentali condizioni naturali della vita. Il DKP fece da battistrada nella lotta in difesa degli interessi delle lavoratrici ed, espressamente, collegò strettamente la questione femminile alla più generale lotta di classe; tuttavia, per la specificazione -pur necessaria- della questione sessuale, la politica del Partito incontrò qualche difficoltà in seguito all’attività del movimento femminista: in generale si può dire che il Partito -giustamente fermo nel sottolineare il ruolo centrale della classe lavoratrice per il progresso sociale-, abbia in qualche misura sottovalutato il significato dei cosiddetti ‘nuovi movimenti sociali’ ed anche la loro capacità di attrattiva per i comunisti stessi.
Certamente questi ritardi hanno contribuito a che, nonostante l’impegno del partito a combattere le posizioni non marxiste che venivano dai ‘nuovi movimenti sociali’, queste riuscissero, invece, ad influenzare parzialmente lo stesso Partito, come chiaramente si vide alla fine degli anni 80. Presso i (militanti) ‘più nuovi’ si fecero strada tendenze ad abbandonare posizioni classiste nella lotta per la pace; il rapporto dialettico tra problemi di classe e problemi dell’umanità fu abbandonato, isolando così unilateralmente questi ultimi; rispetto alla questione ecologica si presentarono punti di vista da filosofia della vita e, rispetto alla questione femminile, si affermò la tendenza ad oscurarne gli aspetti politici, riducendo tutto ad un mèro scontro fra sessi: a questo punto, risultò inevitabile la rottura con la parte del Partito, che si manteneva, invece, su posizioni rivoluzionarie.
Le molteplici radici dei ritardi e debolezze politiche mostrate dal Partito nonostante i risultati da esso ottenuti in ambito concettuale e teorico, richiedono un’accurata indagine, che certo non può esser fonita in un semplice articolo: qui è possibile, solo, indicare un orientamento gravemente erroneo.
In Germania, come dovunque in Occidente, i comunisti hanno fatto esperienza quotidiana di quanto forte sia ancora il capitalismo e quanto, nelle metropoli del capitale, esso sia capace di legare le masse a sé anche con l’aiuto di molteplici strumenti ideologici -e tutto ciò, nonostante l’approfondirsi della crisi generale ed il sempre nuovo manifestarsi di conflitti e contraddizioni. Bisogna riconoscere, tuttavia, che il Partito, nel valutare la situazione politica, si è lasciato guidare dalla convinzione -che era dell’Unione Sovietica, ma anche degli altri Paesi socialisti, compresa la DDR-, secondo cui il campo socialista era ormai divenuto la forza determinante dello sviluppo storico mondiale, mentre le Potenze capitalistiche si trovavano, invece, sulla difensiva.
In realtà, chi avesse fatto attenzione alle differenze dei livelli di produzione e di partecipazione al commercio mondiale, avrebbe potuto convincersi del contrario.
La politica mondiale socialista avrebbe dovuto esser orientata contro il capitalismo dominante -e questo nella difficile condizione di dover costringere l’avversario alla coesistenza pacifica e, contemporaneamente, di portare avanti la costruzione del socialismo.
Questa era la situazione dell’Unione Sovietica dopo la Rivoluzione d’Ottobre: troppo frettolosamente convinti che ormai  il socialismo avesse -per così dire-  la vittoria in tasca, si ritenne anche che fosse possibile, senza pericolo per il socialismo, cooperare utilmente con le metropoli capitalistiche ed aumentare, così, la propria partecipazione al commercio internazionale; da ciò derivarono gravi errori nella gestione dei labili equilibri della coesistenza e della concorrenza internazionale.
In questo contesto, il DKP non è stato capace di tradurre in autonome formule politiche i risultati della sua esperienza pratica e delle conoscenze teoriche acquisite, né dunque di farle pesare nella generale strategia del movimento comunista.
Autocriticamente dobbiamo dire che l’essersi orientato su prospettive di politica internazionale deformate è una delle ragioni principali, per cui il DKP non è stato capace di mobilitare più ampliamente la popolazione tedesco-occidentale, né, quindi, di usare in modo adeguato le potenzialità esistenti; ciò, è ovvio, rese difficile battere i pregiudizi anticomunisti, diretti principalmente contro l’Unione Sovietica e la DDR, alle quali per altro il DKP dimostrava giustamente la sua propria completa solidarietà.
Certamente, questa solidarietà sarebbe apparsa assai più plausibile a coloro i quali, pur non essendo comunisti, erano però orientati criticamente contro il capitalismo -e, così, avrebbe rappresentato un ben maggior sostegno allo stesso socialismo di fatto esistente-, se fosse riuscita a tematizzare in modo più incisivo l’incertezza del confronto fra capitalismo e socialismo e le contraddizioni e debolezze, che da ciò derivavano al sistema socialista.
L’immagine di superiorità che diffondeva la propaganda sovietica ha causato, certo, più di un danno ideologico; ben più utile sarebbe stato, invece, un atteggiamento critico -per quanto, ovviamente, solidale.
Fino a che esiste il capitalismo come rapporto di produzione, la lotta di classe non può conoscer fine. Nelle condizioni della produzione capitalistica non esiste alcuna spontanea solidarietà fra i lavoratori, fra gli sfruttati: chi deve vendere la propria forza-lavoro sottostà alle leggi di concorrenza del libero mercato.
“Di quando in quando gli operai vincono, ma solo in modo effimero. Il vero risultato delle loro lotte non è il successo immediato, ma l’unione sempre più estesa degli operai... Questa organizzazione dei proletari in classe, e quindi in partito politico, viene ad ogni istante nuovamente spezzata dalla concorrenza che gli operai si fanno fra loro stessi. Ma essa risorge sempre di nuovo, più forte, più salda, più potente.”[20]
Per quanto difficile possa essere sul momento comprenderlo a fondo, è vero tuttavia che ogni sconfitta del movimento dei lavoratori, sia a livello nazionale che internazionale, apporta nuove esperienze nella lotta contro il capitale, forgia nuove armi per questa stessa lotta.
Oggi la disillusione è grande - almeno tanto grande, quanto lo fu la speranza che la Rivoluzione d’Ottobre avesse significato un’irreversibile mutamento nel corso della storia.
Ma dis-illusione significa, anche, superamento dell’illusione. E noi ci siamo ingannati circa le possibilità del capitalismo di trovare, sia pure nella crisi più profonda, i modi per assicurarsi nuova vita.
Eppure la crisi non è stata tolta di mezzo: la stessa permanenza del capitalismo significa produzione di nuova crisi e l’approfondirsi delle contraddizioni distruttive: quelle diagnosi di Marx ed Engels, che si volevano invecchiate e false, tornano invece -e proprio con i nuovi sviluppi- di sorprendente attualità.
Proprio le sconfitte subite apprendono alla classe lavoratrice l’impossibilità di procedere, senza conflitti, nella direzione di una società a misura d’uomo; che non si dà la possibilità di ‘dialogo imparziale’ tra sfruttatori e sfruttati; che è un incommensurabile autoinganno immaginare la possibilità di un capitalismo ‘portatore di pace’. Ogni passo in avanti, al contrario, non può che presupporre una lotta di classe contro il nemico, dura e richiedente sacrifici.

§. 5 - Urgenti compiti, oggi, della teoria.
Quali sono i problemi principali, a cui dobbiamo applicarci teoricamente, per dare una base solida alla prassi?
1 - La borghesia è riuscita a rendere la loro storia qualcosa di estraneo per gran parte dei comunisti, ottenendo così di distruggere l’identità epocale del movimento comunista. E che a ciò la borghesia sia riuscita è, ovviamente, un problema di egemonia ideologica. D’altra parte è vero che noi siamo comunisti, nella misura in cui ci riconosciamo parte e risultato della intera storia del movimento rivoluzionario dei lavoratori -con il suo eroismo, i suoi successi, ma anche con tutti gli errori e delitti, che ci si può attendere in una tale “lotta per la vita o la morte” (Hegel).
Lo snodo principale nella storia del movimento rivoluzionario è dato dalla Rivoluzione d’Ottobre, in cui la classe lavoratrice ha saputo conquistarsi la vittoria politica contro un intero mondo nemico ed iniziare, anche, la costruzione di una società socialista.
Questi son punti fermi, pur se le non risolte contraddizioni interne nella fase di costruzione del socialismo e la potenza del nemico esterno, alla fine, hanno portato alla sconfitta di questo primo tentativo.
Resta che la classe lavoratrice, guidata dal PC, ha di fatto dimostrato che, pur in condizioni certamente sfavorevoli, è capace di ottenere, lottando, effettivi progressi - l’impoverimento, dopo la contro-rivoluzione, dei Paesi un tempo socialisti non fa che sottolineare la portata delle conquiste, che erano state realizzate.
Tuttavia, non possiamo difendere la nostra eredità, se non ci impegnano a spiegare, con lo strumento dialettico offertoci dal materialismo storico, quelle stesse obiettive contraddizioni interne, che hanno portato al crollo. La solidarietà emozionale e la difesa morale -per quanto parti integrali del nostro comportamento, della nostra soggettività e del nostro slancio rivoluzionario- certamente non bastano.
Dobbiamo distinguere, infatti, tra moralità personale e strutture storiche sovra-personali, se non vogliamo precipitare in quel ‘punto di vista del cameriere’, di cui Hegel con disprezzo diceva; il quale punto di vista comporta la riduzione della politica alle categorie della vita personale: alla coscienza del borghese, noi dobbiamo invece contrapporre quella del cittadino!
Un’analisi storico-materialistica della nostra stessa vicenda come storia di un’aspra lotta di classe internazionale, ci garantisce la nostra identità di comunisti.
Identità, che comprende entro di sé Marx, Engels, Labriola, Gramsci, Lenin, Stalin e Mao; identità che -come vuole la dialettica- è identità di identità e non-identità. Solo con una critica fondata teoreticamente possiamo acquisire la forza di riconquistare l’iniziativa strategica.

2. Diciamo con nettezza che la Rivoluzione d’Ottobre non fu un errore storico, pur se avvenne in condizioni di immaturità e arretratezza. Per chiarire quale significato paradigmatico abbia la Rivoluzione d’Ottobre, dobbiamo comprendere che il capitalismo del XX° secolo possedeva sufficienti risorse e possibilità di sviluppo, da sopravvivere nel lungo termine alla crisi generale provocata dalla prima guerra mondiale. Non esiste, però, una ‘fine della storia’, come vorrebbero farci credere certi filosofi borghesi; e poiché la storia va oltre l’attuale fase di dominio universale del capitale, la nostra epoca resta quella del passaggio dal capitalismo al socialismo (oppure -in alternativa- alla barbarie, come opportunamente chiariva la Rosa Luxemburg). Ma poiché il capitalismo oggi -come nel 1917/18- è sufficientemente forte, ricorrendo sia alla repressione che alla manipolazione ideologica, da affermarsi contro le forze rivoluzionarie, permane, di nuovo come nel 1917, la possibilità che la catena si rompa in un qualche suo anello debole, vale a dire in un Paese che, per quanto arretrato, presenti tuttavia contraddizioni aspre ed esplicite.
Ma qualunque rivoluzione, oggi, non potrebbe che essere tendenzialmente socialista: infatti, in nessun paese sviluppato esiste più la possibilità che si determini una rivoluzione borghese, capace di confermare che al socialismo si può arrivare solo attraverso la società borghese. Detta in altre parole, ogni rivoluzione borghese renderebbe il paese in cui avvenisse, diponibile non ad una fase di sviluppo capitalistico proprio, ma sì oggetto di sfruttamento per l’accumulazione capitalistica delle Potenze imperialiste: a partire dal 1945 abbiamo acquisito molti esempi di ciò.
Non è improbabile che, anche nel futuro, la società che passerà dal capitalismo al comunismo, dovrà aver compiuto -così come l’Unione Sovietica del 1917- un salto da un capitalismo quasi coloniale al socialismo, con tutte le contraddizioni -economiche, istituzionali, ideologiche- conseguenti.
Da ogni rivoluzione -che avverrà o da quella che, oggi, ancora può resistere (com’è il caso di Cuba) alla pressione del capitalismo- chiamato in causa è l’intero movimento comunista mondiale: non solo per solidarietà, quanto piuttosto  per una concezione internazionalistica della lotta di classe, libera da ogni interclassismo, perché questo non altro significa se non la vittoria della classe dominante.
Mi sembra evidente che una rivoluzione, dovunque avvenga, può garantire se stessa solo costruendo un regime che, almeno in certi tratti essenziali, sia socialista; altrettanto evidente mi appare che ciò è possibile, solo, attraverso la dittatura del proletariato. Nella quale, però, si nascondono pericoli di deformazioni -e nel passato ne abbiamo sperimentato esempi precisi-, per evitar i quali è necessaria una teoria dell’organizzazione dello Stato e della società in Paesi, che vengono alla rivoluzione senza esser passati attraverso un regime di Stato di diritto, qual è proprio di società borghesi pienamente sviluppate.
Ché, infatti, un conto è passare da un sistema borghese del diritto ad uno socialista; tutt’altro è, invece, passare a quest’ultimo, partendo da livelli giuridici pre-borghesi.
Per quanto possa aver un peso decisivo la particolarità delle situazioni, tuttavia, esattamente quella particolarità storica nasconde in sé il pericolo di scadere in un pragmatismo opportunistico, il cui contrappeso può esser rappresentato dalla elaborazione teorica di precise condizioni formali della legalità socialista.

3 -  Sia l’esperienza storica cha abbiamo accumulato, sia la conoscenza dialettica delle contraddizioni strutturali di ogni costruzione sociale ci apprendono, entrambe, che la lotta di classe continua anche durante il processo di costruzione del socialismo -lotta di classe, che le minacce esterne ovviamente acuiscono. Sia Stalin che Mao hanno sottolineato questo lato della dialettica storica.
Anche dopo che siano stati instaurati rapporti socialisti di proprietà, per un lungo periodo di tempo continuano ad agire sugli uomini orientamenti, attese e scale di valore pre-socialisti.
Il potere della coscienza non gioca solo a favore della rivoluzione, ma sì anche a vantaggio dell’aperta controrivoluzione e della resistenza passiva ad essa (altrimenti, fenomeni come Krusciov e Gorbaciov risulterebbero incomprensibili).
Ogni teoria della costruzione del socialismo -e noi per poterci dare obiettivi credibili abbiamo, certo, bisogno della critica del capitalismo ma, appunto, anche di una teoria del socialismo- deve riuscire a precisare gli aspetti qualitativi nuovi della lotta di classe, quando il problema sia difendere il potere politico conquistato dal proletariato.
Prima della rivoluzione noi combattiamo un sistema di potere esistente, ma dopo la rivoluzione noi dobbiamo assumere il potere allo scopo di costruire una società priva di dominazione e, poste le crescenti resistenze interne ed esterne, il potere statale non può privarsi dell’arma della repressione: questa, appunto, era la situazione, in cui si trovava l’Unione Sovietica fra le due guerre e questa è una contraddizione che, in situazioni analoghe, si ripeterà.
Da parte nostra dobbiamo attrezziarci, anche teoreticamente, ad affrontarla, se non vogliamo commettere gli stessi errori, che son stati compiuti durante il primo tentativo di costruzione del socialismo.
E’ evidente che ogni società socialista che si svilupperà in un ambiente capitalistico ostile dovrà prepararsi a respingere atti di sovversione e di aggressione: regola aurea della sua azione politica e della sua pianificazione economica sarà non lasciarsi dettar condizioni dal nemico (la compressione del socialismo mediante le conclusione del Ksze (?), obiettivo dell’Occidente oggi apertamente confessato, a suo tempo fu sottovalutata).
L’unità politica della direzione statale socialista, la rimozione delle basi economiche delle strutture classiste ed un attento processo d’educazione sono momenti irrinunciabili d’un programma di trasformazioni di lungo periodo.
Ma su questo bisogna aver le idee chiare: la trasformazione verso il socialismo può esser raggiunta solo se ad essa collabora la maggioranza del popolo. E ciò significa: partecipazione crescente dei cittadini all’attività dello Stato, forme democratiche che dal basso vadano verso l’alto, espansione degli istituti d’autogoverno, coinvolgimento dei lavoratori nella direzione delle imprese, ecc.
Molto di ciò la Costituzione sovietica prevedeva, ma solo in parte fu effettivamente realizzato: il fatto è che, però, la democratizzazione della società costituisce un tutto e, dunque, deve improntare di sé ogni ambito dell’esperienza collettiva.
La contraddizione tra fini stabiliti e loro realizzazione non sta, in primo luogo, nella coscienza degli attori politici, ma nello squilibrio obiettivo, che segna ogni epoca di passaggio da una formazione sociale ad un’altra e che, naturalmente, si riflette anche nella coscienza degli uomini; è questa una contraddizione che può esser risolta da un’adeguata riflessione teorica.
Chiaramente, la libertà del confronto teorico è un presupposto in vista del superamento di tali contraddizioni e per rinvenire le strategie pratiche, attraverso cui giungere alle adeguate forme d’organizzazione sociale.
Ma altrettanto è chiaro che gli scontri frazionistici per il potere mettono in pericolo la già precaria stabilità raggiunta dal regime e, pure, sono un aiuto certo -per quanto involontario- al nemico.
L’unità del Partito -dunque, della forma in cui si organizzano le forze rivoluzionarie- è una condizione della sua capacità di agire. Va da sé che la costruzione di una società nuova è un percorso che prevede la possibilità di varianti: di qui l’altrettanto possibile presentarsi di dissensi all’interno del Partito. Solo un alto livello teorico può garantire che quei dissensi non si traducano in lotte frazionistiche, ma sì in dibattiti da risolvere con argomenti.
La fondatezza di questa prospettiva è data dal fatto che, nel contesto della nuova società, il problema nella sostanza non è come realizzare compromessi fra interessi diversi, ma piuttosto come giungere a decisioni, da cui derivino norme di comportamento coerenti con la stessa natura profonda della società in questione.
Nella prospettiva della costruzione di una nuova società, il modello del parlamentarismo borghese non è proponibile; nella costruzione dell’Unione Sovietica, un grave limite, foriero di autentiche sciagure, fu rappresentato dal fatto che le strutture di potere mediante cui esercitare la dittatura del proletariato furono, a dir così, assunte ‘naturalmente’ e per questo presero forme burocratico-poliziesche. Non avendo avuto il dibattito sull’ordinamento costituzionale effettive radici nella vita sovietica, la stessa Costituzione del ‘36 restò qualcosa di astratto e inefficace.

4. Nel tentativo di costruire il socialismo, i comunisti si trovarono nella condizione di procedere al progressivo raggiungimento della nuova società, immediatamente, per via puramente pratica, partendo solo dalla critica al capitalismo.
Oggi, dopo il fallimento del primo tentativo di costruzione del socialismo e per rettificare gli errori compiuti, i comunisti abbisognano non solo di una critica del capitalismo, ma anche di delineare, sia pure a larghi tratti, il profilo fondamentale d’una società socialista e del suo modo di funzionare -e ciò anche allo scopo di battere l’argomento, secondo cui il nostro progetto è già stato sconfessato dalla storia.
Per chi pensi dialetticamente risulta chiaro che la nuova qualità si va definendo solo mediante la “negazione determinata” della formazione superata: il che significa che l’analisi strutturale dell’attuale capitalismo e delle sue interne contraddizioni è un presupposto per rispondere ai problemi posti dal passaggio al socialismo.
Abbiamo bisogno di una teoria dell’economia politica nell’attuale capitalismo, che sia capace di dire a cosa porti il fatto che l’accumulazione del capitale venga perseguita con crescente rapidità e che, nello stesso tempo, il potere d’acquisto delle masse diminuisca nelle metropoli, mentre nei Paesi dipendenti progredisce un impoverimento assoluto che, ormai, colpisce la metà del genere umano.
Il fatto, inoltre, che l’accumulazione avvenga sempre di più nella forma di operazioni finanziarie e non per effetto della crescita della produttività sta a segnalare un nuovo stadio della crisi.
Quali nuove forme dinamiche ha assunto, allora, la contraddizione fra capitale e lavoro ed in quali istituzioni sociali si manifesta?
Quali effetti ha la contraddizione, che necessariamente si va approfondendo, fra economia capitalistica e condizioni ecologiche di sopravvivenza?
Quali sono le strategie che assume la spoliticizzazione, il cui effetto è mettere la sordina sulla lotta di classe?
Quali forme d’organizzazione deve promuovere la classe lavoratrice, per contrapporsi all’internazionalizzazione del capitale? Ecco le molte domande, a cui poche risposte son state date finora.
Quello che è certo è che tali risposte non possono esser ricavate dalla casualità della lotta politica quotidiana, dacché richiedono, invece, concezioni teoriche, che consentano una comprensione della realtà non per via di mère descrizioni fenomeniche, ma sì attraverso elaborazioni categoriali.

5. Oggi la coscienza gioca un ruolo quanto mai importante per il movimento rivoluzionario, se consideriamo l’opacità e la frammentarietà di dati empirici, con cui la realtà si presenta a noi; o se badiamo all’impenetrabilità di quelle strutture, che sembrano dare un corso inevitabilmente determinato ai processi sociali ed, infine, se abbiamo a mente la funzione deviante ed ingannatoria dell’ ‘industria culturale’.
Coscienza significa “tensione del concetto” volta a cogliere la complessità delle mediazioni al di sotto dell’immediato apparire; ma significa, anche, scelta di quel punto di vista di classe, a partir dal quale la lotta deve esser combattuta; infine, coscienza significa, anche, proiezione della consapevolezza del generale sui contenuti degli interessi e dei vissuti soggettivi.
Senza quell’ “algebra della rivoluzione” di cui diceva Herzen, l’immediatezza delle esperienze di vita condurrebbe ad un castrante pluralismo soggettivistico; come d’altro lato è vero che se non riuscisse a tradursi nella particolarità delle situazioni, quella stessa “algebra” si inaridirebbe in vuoto schematismo.
La via regia della dialettica si muove nei due sensi: la visione individualizzante del soggetto umano vien sollevata all’altezza dell’universalità del concetto, trovando nel punto di vista di classe il proprio superamento, dunque, conferma e negazione ad un tempo; da parte sua, l’universalità del concetto si mostra e realizza nell’unicità dell’esistenza individuale.
“La via in su e la via in giù son la stessa via”, diceva Eraclito; ma quella via va percorsa nei due sensi -appunto, in su e in giù-, perché si realizzi la dialetticità del vero, l’unità di teoria e prassi.
Nella sconfitta, la parte più consistente e solida del DKP si è mantenuta e riorganizzata: che questo nucleo possa tornare a costituire l’avanguardia combattiva della classe lavoratrice, dipende dal suo riuscire a battersi per una nuova società (socialista), senza illusioni ma anche senza disfattismo. Al fine di determinare gli scopi e la strada per raggiungerli, senza sbandamenti opportunistici, è necessario il rigore della teoria, del materialismo storico, della dialettica, del marxismo-leninismo. Poichè né la coscienza di classe né la solidarietà fra i lavoratori si danno e conservano spontaneamente ma, al contrario, per potersi sviluppare e consolidare richiedono una conoscenza generale della condizione della classe. La teoria, dunque, la visione scientifica del mondo, giocano un ruolo centrale, determinante, ineludibile: è solo sul terreno di una comune visione del mondo che la classe lavoratrice può superare la propria frantumazione, prodotta dal capitalismo stesso.
Quindici anni dopo il congresso di Mannheim, con le tesi programmatiche accolte nel 1993 (di nuovo a Mannheim), la DKP è tornata a posarsi sul terreno della visione del mondo della classe lavoratrice. Nel suo statuto il Partito si è impegnato “a contribuire dal punto di vista organizzativo alla precisazione ed ulteriore sviluppo del socialismo scientifico ed a far sì che i comprovati risultati di questo lavoro scientifico contribuiscano a determinare la sua volontà.” (art. 3). La volontà dei militanti sollecita il Partito a verificarsi, praticamente e teoricamente, nell’adempimento di questo suo impegno: il socialismo non ci cadrà in grembo, ma deve esser conquistato da un agire, che abbia alla base conoscenze e concezioni  scientificamente corrette.
3° capitolo - Carattere d’un partito leninista.

Nel Che fare? -opera decisiva per definire la teoria del Partito-[21], Lenin elabora il tema dell’unità fra orientamento scientifico-filosofico e strategia politica come forma essenziale e principio organizzativo di un PC. A circa un secolo di distanza le tesi leniniane sono ancora di somma attualità, perché non si confrontano solo con i problemi organizzativi e di linea politica di un Partito frantumato in tante formazioni locali e, per lo più, costituito di un piccolo nucleo centrale intorno al quale ruotavano simpatizzanti con deboli legami organizzativi;  ma in generale e prima di tutto quelle tesi fanno i conti con la tendenza a contenere l’orizzonte del lavoro politico nella piccola dimensione locale, nelle iniziative a corto raggio, nell’ambito immediatamente sindacale, senza dunque proiettarlo su dimensioni di più ampio respiro.
Quelle attività di base son destinate a sboccare in un orientamento riformistico, se non vengono integrate da elaborazioni teoriche e processi di formazione culturale, legati ad un’analisi complessiva della società e se non vengono, in questo modo, ricavati dalle e collegati alle contraddizioni fondamentali della società capitalistica ed al quadro storico complessivo della lotta di classe.
L’argomentazione di Lenin - in primo luogo orientata sulla situazione del POSR-, tuttavia, ha valore per l’intero movimento rivoluzionario, dacché le tendenze riformistiche da lui criticate (promosse in primo luogo dagli scritti di E. Bernstein), in ogni tempo hanno indebolito politicamente il movimento dei lavoratori ed immiserito la sua forza d’urto contro il sistema capitalistico nella prospettiva di una linea tattica, volta a ritocchi e miglioramenti del sistema stesso. In questo modo, la socialdemocrazia finiva con l’essere una forza che, dal’opposizione, contribuiva alla stabilizzazione della società borghese (in piena corrispondenza col parlamentarismo inglese, in cui l’opposizione è, appunto, “l’opposizione di Sua Maestà”). Si tratta, insomma, di una linea che, a dir così, si arrotola in se stessa, poiché manca della concezione, teoreticamente fondata, di una nuova società.

§ 1. Il “Che fare?” di Lenin.
Lenin ha criticato la corrente socialdemocratica non solo avendo in mente la Russia, ma anche in generale il riformismo di fine secolo (egli cita espressamente E. Bernstein per la Germania e Millerand per la Francia).
“La socialdemocrazia non può che trasformarsi da partito della rivoluzione sociale in partito democratico per le riforme sociali. Bernstein ha circondato questa rivendicazione politica con un’intera batteria di «nuovi» argomenti e considerazioni abbastanza ben concatenati. Si negava la possibilità di dare un fondamento scientifico al socialismo e di dimostrare che, dal punto di vista della concezione materialistica della storia, esso è necessario ed inevitabile; si negava il fatto della miseria crescente, della proletarizzazione e dell’inasprimento delle contraddizioni capitalistiche; si dichiarava inconsistente il concetto  stesso di scopo finale e si respingeva categoricamente l’idea della dittatura del proletariato; si negava l’opposizione di principio tra liberalisno e socialismo; si negava la teoria della lotta di classe, che sarebbe inapplicabile in una società rigorosamente democratica, amministrata secondo la volontà della maggioranza, ecc.”[22]
E’ in questo contesto che si colloca il chiarimento di quale sia il carattere di un Partito marxista e la determinazione delle sue forme organizzative e di lotta nelle condizioni della Russia zarista.

E’ alla trattazione di questi temi che Lenin dedica il Che fare? ed in particolare al “carattere e contenuto principale della nostra agitazione politica; dei nostri compiti organizzativi e della costruzione di una combattiva organizzazione panrussa, che sorga nello stesso tempo da parti diversi.”[23]
La struttura dello scritto ne riflette lo scopo: i primi tre capitoli si occupano dei caratteri fondamentali del Partito; il quarto della concreta forma organizzativa; il quinto dei compiti organizzativi più ravvicinati.
In apparente contraddizione con lo scopo immediato, la discussione di principio, svolta nella prima parte, occupa più spazio delle altre due messe assieme e abbraccia tre dei cinque capitoli; questo squilibrio ha, per Lenin, un significato metodologico centrale: come leggiamo nella prefazione: “E’ ora indubbio che la diversità delle opinioni sul modo di risolvere questi tre problemi si spiega in misura molto maggiore con l’opposizione radicale di due tendenze nella socialdemocrazia russa che non con una divergenza su questioni di dettaglio.”[24]
Neppure è difficile rendersi conto del fatto che l’energia con cui, nel testo, vengono messe in discussione decisioni politiche attuali, anch’essa, presuppone un preciso atteggiamento metodologico -o, strategico, per dirla col linguaggio della politica-, il quale deriva dalla forte consapevolezza dell’unità di teoria e prassi.
La teoria non è mèra riproduzione ed interpretazione del dato, ma sì anticipa norme di comportamento, adeguate a modelli sistematici della realtà ed a prospettive finalistiche, le cui radici stanno nelle possibilità che si lasciano ricavare dai modelli «reali», perché inerenti all’effettuale. Il procedimento di Lenin consiste nel ricavare dall’analisi particolare teorie che pretendono di valere ad un alto livello di generalità. Tale procedura esemplifica quella che chiamerei deduzione dialettica.
Essa si esercita non solo su una difficoltà da indagare ulteriormente, ma sì anche su una contraddizione, espressa da due correnti interne alla socialdemocrazia russa e rispetto alla quale è necessario decidere.
Questa contraddizione vien riportata al suo fondamento teoretico ed, esattamente, alla opposizione tra opportunismo e cosidetto dogmatismo; in fine si mette in luce come questa contraddizione riguardi in generale il movimento operaio internazionale.
“Infatti, non è un mistero per nessuno che nella socialdemocrazia sociale contemporanea si sono formate due tendenze e che la lotta fra di esse ora si accende e arde di vivida fiamma, ora si smorza e cova sotto la cenere di importanti «risoluzioni di tregua». In che cosa consista la «nuova» tendenza che tratta «criticamente» il «vecchio» marxismo «dogmatico», Bernstein lo ha detto, e Millerand lo ha mostrato con sufficiente chiarezza.”[25]
Che tale contraddizione non sia solo generale ma anche necessaria, lo si ricava dalle condizioni in cui nasce il movimento dei lavoratori.
Lo organizzazioni del proletariato sorgono dalla convergenza degli interessi dei lavoratori, in particolare, dall’interesse di rafforzarsi per lottare contro uno sfruttamento ed un’oppressione, sperimentati vissuti e sentiti in prima persona.
Ma, appunto, le esperienze e i sentimenti vissuti -nel loro contenuto- rimandono al caso singolo o, al più, alla somma dei casi singoli: laddove manchi la generalizzazione, che proviene da una teoria della società come un tutto, la questione si riduce al cercar rimedio ad un danno sentito come tale e, dunque, politicamente ne conseguono solo riformismo, opportunismo, trade-unionismo.
Il carattere del movimento dei lavoratori vien definito dal livello di astrazione, al quale si comprendono ed articolano gli interessi della classe lavoratrice: è per questo che Engels indicava la classe lavoratrice come l’erede della filosofia classica tedesca. Ovviamente, le astrazioni della teoria presuppongono l’esperienza dell’oppressione, dato che -e Kant lo diceva- se in mancanza di concetto le rappresentazioni sono cieche, a loro volta vuoti sono i concetti senza le rappresentazioni.

§. 2 - La forza della teoria contro lo spontaneismo e l’irresponsabilità
opportunistica.
Quella tra opportunismo e dogmatismo è un’opposizione che, sorgendo dalla pratica politica, si riflette in ambito teorico e, così, si media con la prassi. Nella misura in cui si trasferisce sul terreno della teoria, la prassi risulta allora determinata da decisioni teoriche. Il pluralismo delle opinioni -introdotto mediante lo slogan della ‘libertà di critica’-, nel momento della decisione, risulta del tutto inadeguato poiché vi è solo una verità scientifica.
“Chi fosse effettivamente convinto di aver fatto progredire la scienza rivendicherebbe non la libertà delle nuove concezioni di coesistere accanto alle vecchie, bensì la sostituzione di queste con quelle.”[26]
Per quanto importante e necessaria sia la varietà degli approcci alla verità quando si discutono concezioni e teorie, altrettanto è indispensabile il convergere unitario in un risultato del conoscere scientificamente fondato -il quale, ovviamente, resta sempre provvisoriamente vero e, dunque, superabile ma, nel momento della decisione pratica, può esservi solo una opinione e non una pluralità di pareri.
Assicurarsi la corretta conoscenza è, dunque, un compito necessario alla vita stessa dell’organizzazione proletaria: fa parte della natura stessa di una tale organizzazione che la discussione conduca, in fine, ad una sola teoria valida e praticamente impegnativa.
Per dimostrare la validità generale di tale tesi, Lenin ricorre all’esempio della situazione russa: qual è il ruolo che gioca la teoria nello sviluppo del movimento russo dei lavoratori? La conclusione a cui Lenin giunge è che  senza il lavoro teorico “uno sviluppo soddisfacente del movimento non era possibile.”[27]
L’impossibilità di prescindere da una elaborazione teorica dalle solide fondamenta nei principi, ecco qualcosa che Lenin ha ribadito in più di un’occasione: “Senza teoria rivoluzionaria non vi può essere movimento rivoluzionario. Non si insisterà mai abbastanza su questa idea in un momento in cui la predicazione in voga dell’opportunismo va a braccetto con l’entusiasmo per le forme più anguste di attività pratica... Adesso vogliamo semplicemente far osservare che soltanto un Partito guidato da una teoria d’avanguardia può svolgere la funzione di combattente d’avanguardia... Engels riconosce non due forme della grande lotta socialdemocratica (la politica e l’economica) -come si fa abitualmente da noi-, ma tre, poiché accanto a queste egli pone anche la lotta teorica.”[28]
Queste non sono mère dichiarazioni.
E’ vero piuttosto che il valore della teoria può ricavarsi dalla particolarità storico-politica e dalla costituzione stessa del movimento dei lavoratori. Il quale può raggiungere il proprio scopo -cioè, la liberazione della classe lavoratrice e, così, il superamento di ogni società classista, solo se si pone quell’obiettivo appoggiandosi allo strumento della scienza dialettica, che è, poi, il  modo stesso per individuare quali siano le strade da percorrere.
L’importanza della teoria deriva dal carattere particolare della lotta di classe proletaria, che è formulato nella terza, ottava e undicesima “Tesi su Feuerbach”.[29] Ed, ovviamente, di tanto è imprescindibile la teoria, d’altrettanto la pura spontaneità va respinta.
Com’è naturale, presupposto d’ogni movimento rivoluzionario è la spontanea resistenza allo sfruttamento ed all’oppressione da parte di chi ne fa immediata esperienza: la ribellione contro le macchine, la resistenza dei tessitori della Slesia, scioperi e dimostrazioni operaie, in cui trova sfogo il rancore accumulato, tutti questi sono esempi di manifestazioni spontanee di lotta di classe; da esse si ricava che il proletario è cosciente non solo della propria individuale situazione ma, anche, d’appartenere ad una stessa classe; ciò di cui ancora manca è la coscienza della posizione e ruolo della classe lavoratrice come un tutto -coscienza, d’altronde, che può esser conquistata solo mediante astrazioni e generalizzazioni, che assicurano la mediazione sociale delle particolarità.
In definitiva, la spontaneità, non salita ancora al livello della riflessione teorica, è una condizione necessaria, pur se non sufficiente, della lotta di classe rivoluzionaria.
“Ciò prova che, in sostanza, l’«elemento spontaneo» non è che la forma embrionale della coscienza. Anche le rivolte primitive esprimevano già un certo risveglio di coscienza. Gli operai perdevano la fede secolare nella saldezza del regime che li opprimeva, comiciavano... non dirò a comprendere, ma a sentire la necessità di una resistenza collettiva e troncavano decisamente la sottomissione servile all’autorità. Ma tuttavia ciò era molto più una manifestazione di disperazione e di vendetta che una lotta. Gli scioperi degli anni novanta rivelano bagliori di coscienza molto più numerosi: si pongono rivendicazioni precise, si calcola in anticipo il momento più conveniente, si discutono i casi e gli esempi noti di altre località, ecc. Se le rivolte erano semplicemente sollevazione di gente oppressa, gli scioperi sistematici esprimevano già embrioni di lotta di classe, ma embrioni soltanto. Presi in sé, quegli scioperi erano una lotta tradunionistica, ma non ancora socialdemocratica, annunciavano il risveglio dell’antagonismo tra operai e padroni, ma gli operai non avevano e non potevano ancora avere la coscienza del contrasto irreconciliabile fra i loro interessi e tutto l’ordinamento politico e sociale contemporaneo, cioè la coscienza socialdemocratica.”[30]
La spontaneità si orienta su quegli interessi che, immediatamente e caso per caso, vengon sentiti; si muove, dunque, essenzialmente nel limite dell’ economicismo e non va oltre l’orizzonte del miglioramento di questa o quella condizione di vita e di lavoro; è sì volta al cambiamento sociale, ma solo nel senso di combattere particolari situazioni di ingiustizia.
Con ciò la spontaneità resta dentro i confini di quei rapporti generali di potere, che rendono possibili le singole situazioni d’ingiustizia, contro cui pur si lotta. Quando l’attività politica si confina entro il solo miglioramento di situazioni particolari, con ciò stesso accetta il vincolo degli schemi ideologici, che supportano l’esistente ordine sociale.
Come scrive Lenin, “ogni culto della spontaneità nel movimento operaio, ogni trascuratezza circa la funzione dell’«elemento cosciente», della funzione della socialdemocrazia significa -lo si voglia o no- un’aumentata influenza dell’ideologia borghese sugli operai.”[31]



§. 3 - Rivoluzionari nella e contro la società.
Il fatto che l’ economicismo sia interno all’ideologia borghese dominante ha pure conseguenze sulla forma logico-scientifica. La società borghese produce da sé la contraddizione radicale tra capitalisti e proletari ed esiste nella forma di questa contraddizione radicale, come elementi strutturali di se stessa e del suo sviluppo storico. Finché l’attività politica della classe lavoratrice si limita a rappresentare la propria contraddizione radicale alla classe capitalistica come interna alla società borghese -dunque, ad intenderla come contraddizione di interessi parziali-, si mantiene sul terreno di quella società, in cui gioca e giocherà sempre il ruolo della vittima sacrificale.
Nel limite dell’economicismo, l’ideologia borghese, quale espressione della coscienza che di sé ha la società borghese e quale strumento per la perpetuazione di essa, resta l’universale entro cui si mantiene anche l’ideologia proletaria del tradunionismo e del riformismo: la conseguenza è che l’ideologia proletaria vien snaturata a modo particolare di quella borghese.
Lo “sviluppo spontaneo del movimento operaio fa sì che questo si subordini all’ideologia borghese...il movimento operaio spontaneo è tradunionismo, è purosindacalismo, e traduzionismo significa appunto asservimento ideologico degli operai da parte della borghesia. Perciò compito nostro, compito della socialdemocrazia, è lottare contro la spontaneità, deviare il movimento operaio dalla tendenza spontanea del tradunionismo a rifugiarsi sotto l’ala della borghesia e avviarlo sotto l’ala della socialdemocrazia rivoluzionaria.”[32]
Ma nella misura in cui i lavoratori si concepiscono solo come articolazione interna della società borghese, non possono sottrarsi alla coscienza spontanea dei loro interessi come mèri interessi particolari, per i quali ci si batte solo con mezzi sindacali, che non vanno oltre l’orizzonte della stessa società borghese.
La sua coscienza spontanea non consente al lavoratore di cogliere il carattere radicale dell’opposizione tra sfruttati e sfruttatori, tra produzione sociale ed appropriazione privata; né dunque di comprendere che quell’opposizione può esser tolta, solo, superando ogni forma classista di società.
L’inserimento razionale dell’interesse parziale entro quello sociale complessivo richiede una costruzione teorica, di cui la scienza offre gli strumenti. Tale scienza, tuttavia, si è sviluppata nel grembo stesso della società borghese e l’impiego dei suoi strumenti nella lotta di classe proletaria -la qual cosa comporta un mutamento qualitativo della scienza stessa- ha da essere realizzato da scienziati, formatisi all’interno delle scienze borghesi.
“Abbiamo detto che gli operai non potevano ancora avere una coscienza socialdemocratica. Essa poteva esser loro apportata soltanto dall’esterno. La storia di tutti i Paesi attesta che con le sue sole forze la classe lavoratrice è in grado di elaborare soltanto una coscienza tradunionista, cioè la convinzione della necessità di unirsi in sindacati, di condurre la lotta contro i padroni, di cercar di ottenere dal governo determinate leggi necessarie ai lavoratori, ecc. La dottrina del socialismo scientifico, invece, è cresciuta dalle teorie filosofiche, storiche, economiche che furono elaborate dai rappresentanti colti delle classi possidenti, gli intellettuali.”[33] In questo modo è posto il problema del carattere di classe della scienza.
Le dottrine scientifiche sono astrazioni teoriche circa problemi reali (Sachproblem), che si pongono in epoche determinate dello sviluppo scientifico e sociale. Queste astrazioni sono legate allo stadio raggiunto dallo svolgersi di quei problemi, il quale a sua volta è condizionato dalla società.
Le astrazioni scientifiche -come capita per la formulazione di leggi scientifico-naturali o di regole matematiche-, possono essere adeguate alla materialità del problema, anche se risultano distorte dalla prospettiva ideologica entro cui la società si pone i problemi. Per quanto, dunque, possano rimandare a stati di fatto effettivi (Sachverhalt), le ideologie non ne offrono tuttavia modelli (Abbild) adeguati.

§. 4 - Verità e partiticità.
La deformazione ideologica si opera in seguito alla pressione dei bisogni ed interessi, che una teoria scientifica serve; ma, se ben compreso, l’interesse della classe lavoratrice in quanto sta nel superamento in generale di una società classista, comporta anche il superamento di quei parziali interessi di classe, che conducono a deformare la stessa scienza. In questo senso, cioè considerando la particolare collocazione storica (dunque, anche storico-scientifica) della classe lavoratrice, non si dà propriamente un’ideologia di tale classe, perché i casi son due.
O i lavoratori non sono ancora coscienti della loro posizione di classe e, quindi, sono anch’essi portatori di un’ideologia borghese e si battono per loro interessi parziali,interni alla società borghese.
Oppure, i lavoratori giungono a prender coscienza della loro situazione di classe, ed allora pervengono ad una scienza, la socialista, che non è più affètta in generale da parzialità di interessi.
Con scienza socialista si intende una scientificità, che non rinuncia in nulla al rigoroso rapporto con il vero ed al rispetto, dunque, dei criteri di verità, ma che è caratterizzata dalla partiticità socialista e, proprio per questo, da obiettività ed indipendenza da interessi parziali.
Per la prima volta, la scienza socialista raggiunge quel livello di sviluppo nei diversi ambiti del sapere scientifico, per cui non ha più rilievo la dipendanza dallo scontro fra interessi, deformanti in quanto parziali.
Tuttavia, la stessa scienza socialista si sviluppa solo nello scontro con le posizioni ideologiche della scienza borghese; nella sua prima fase, essa è la teoria del proletariato che, all’interno della società borghese, combatte la sua lotta di classe; nella seconda fase, la scienza socialista è la teoria della dittatura del proletariato, impegnato nella transizione ad una società comunista e, dunque, priva di classi.
Usando un linguaggio comune e non tecnico, Lenin contrappone all’ideologia borghese quella socialista e per caratterizzare il carattere sovrastrutturale di qualsiasi teoria, osserva che “in ogni società contrassegnata da contraddizioni di classe, non può darsi ideologia che si collochi al di fuori o al di sopra delle classi.”[34]
In quanto la cosiddetta “ideologia socialista” assume quale contenuto delle sue teorie scientifiche l’interesse del proletariato e, dunque, la prospettiva di una società priva di classi, di nuovo per la prima volta nella storia della scienza, può essere ad un tempo l’ideologia di una classe e, però, esser libera dalle deformazioni indotte dalla parzialità degli interessi. Ciò perché l’interesse di classe del proletariato coincide con quello dell’umanità in generale. Di qui la distinzione, che opera Lenin.
“Dal momento che non si può parlare di un’ideologia indipendente, elaborata dalle masse operaie nel corso stesso del loro movimento, il problema si può porre soltanto così: o ideologia borghese o ideologia socialista.”; ma consideriamo anche l’illuminante nota posta di Lenin a questa stessa pagina: “ ciò non significa che gli operai non partecipino a questa elaborazione. Essi, tuttavia, vi partecipano non come operai, bensì come teorici del socialismo, come i Proudhon e i Weitling, in altre parole, solo in quanto riescono ad impadronirsi in varia misura delle conoscenze del proprio secolo ed a farle progredire. Ma perché  gli operai vi riescano più spesso è necessario avere la massima cura di elevare il livello della loro coscienza in generale, è necessario che essi non si segreghino nei limiti artficialmente ristretti delle «pubblicazioni degli operai», ma imparino a padroneggiare sempre di più le pubblicazioni in generale.”[35]
Chiaramente, qui, Lenin si muove dal punto di vista di una continuità nella storia della scienza, che ci mette di fronte al compito di concepire il rapporto fra scienza borghese e scienza socialista in termini sia di collegamento che di cambiamento di terreno.
Il “sapere di un’epoca” è un tutto connesso, ma che include anche contraddizioni, nel senso che queste ultime si svolgono, comunque, all’interno dell’orizzonte, circoscritto dall’autocoscienza scientifica di una certa era: in altre parole, quelle contraddizioni sono compossibili, ovvero, tutte “contemporaneamente possibili”, possono, tutte, coesistere l’una accanto all’altra. Infatti, se quelle contraddizioni fossero tali da impedire ogni unitarietà dell’autocoscienza scientifica, la scienza stessa cadrebbe in una crisi tale, da richiedere una nuova autocoscienza o comprensione di sé.
La contraddittorietà del capitalismo ha trovato subito un’espressione scientifica nella teoria borghese classica della dialettica: l’hegeliana Fenomenologia dello spirito, ad es., disegna il “sistema della scienza”, che è proprio della società borghese; mentre la Filosofia del diritto -sempre di Hegel-  analizza la struttura sociale, che sta alla base di quel sistema della scienza. Il passaggio al socialismo si compie quando queste contraddizioni interne alla società borghese son divenute non più compossibili. L’ideologia socialista si distingue da quella borghese in quanto mette chiaramente in luce come l’intollerabilità delle contraddizioni segni la caduta del sistema sociale ed in quanto fa della teoria il perno dell’azione politica, vale a dire ciò che rende possibile una prassi, legata alla comprensione della società. Ciò significa che la scienza socialista non si differenzia da quella borghese per il criterio formale di scientificità, ma sì per il suo contenuto e per la sua interna, strutturale capacità di connessioni dinamiche. Per due aspetti, in particolare, va sottolineata questa differenza strutturale e di contenuto.
In primo luogo, la scienza socialista, da un lato, individua i processi, che producono -all’interno di uno stesso sistema- contraddizioni radicali ed incompatibili, fino alla caduta del sistema-; dall’altro lato, però, sa dare di essi una esposizione scientifica e, dunque, in questo senso, sa connetterli sistematicamente: in altre parole, oggetto della scienza socialista à il rapporto fra connessione e caduta.
In secondo luogo, la scienza socialista assume l’agire finalizzato del soggetto della lotta di classe -in particolare l’attività del Partito rivoluzionario- quale effettivo fattore codeterminante della realtà -la quale ultima, dunque, vien descritta come un sistema di riflessione, nel quale i singoli elementi agiscono l’un sull’altro e sanno rappresentarsi.
Ciò significa che la scienza sviluppatasi entro la società borghese trova il proprio posto all’interno di quella socialista e che le sue asserzioni son misurate nel loro grado di validità proprio dal modo, in cui si collocano all’interno della scienza socialista, se quest’ultima procede criticamente ed ordina e “supera” i risultati scientifici del pensiero borghese.
In altre pareole, la nascita delle categorie del pensiero borghese dev’esser concepita come un momento del suo porsi entro il sistema della scienza socialista. Vale, dunque, quanto Lenin cita favorevolmente da Kautsky: “Infatti, la scienza economica contemporanea è, al pari della tecnica moderna, una condizione della produzione socialista, e il proletariato, per quanto lo desideri, non può creare né l’una né l’altra: entrambe sorgono dal processo sociale contemporaneo.”[36]
Di qui deriva che la coscienza teorica del proletariato, capace di analisi genetico-strutturali, non può -giusta la posizione del proletariato- nascere spontaneamente dall’esperienza della lotta economica (nell’ambito della quale, gli interessi dei lavoratori sono un’articolazione del sistema capitalistico). Quella coscienza, piuttosto, può costituirsi solo come riflessione scientifica sull’insieme del processo sociale. Ancora una citazione da Kautsky, che troviamo in Lenin: “Il socialismo, come dottrina, ha evidentemente le sue radici nei rapporti economici contemporanei, al pari della lotta di classe del proletariato, e deriva, al pari di quest’ultima, dalla lotta contro la miseria e dall’impoverimento delle masse generate dal capitalismo; ma socialismo e lotta di classe nascono l’uno accanto all’altra e non l’uno dall’altra; essi sorgono da premesse diverse.”[37]

§. 5 - Missione storica e avanguardia della classe operaia.
Sapere che la lotta di classe ha un’origine propria, indipendente dalla coscienza teorica della situazione di classe e che conosce forme di svolgimento, spontanee e prive di riflessione teorica - tutto ciò ha grande rilievo per valutare il ruolo del Partito.
Nello sviluppo storico del genere umano, la classe lavoratrice occupa una particolare posizione di enorme rilievo; quando, infatti, essa -che è l’unica ad opporsi al capitale (della borghesia, della classe capitalistica)- riesce a togliere il potere dei capitalisti -dunque, ad abbattere il rapporto di capitale-, poiché non esistono più altre classi, nello stesso momento essa supera la società di classe in quanto tale.
Insomma, la classe dei lavoratori dà inizio ad una nuova fase della storia umana: quella delle società senza classi e, dunque, quella in cui l’esperienza sociale umana si nutre di e produce problemi qualitativamente nuovi.
Certamente, ciò richiede un lungo periodo di transizione, nel quale pesano ancora sopravvivenze della società classista, che solo poco a poco possono esser tolte.
Dato che la sua vittoria può produrre questa svolta epocale, chiamo missione storica della classe lavoratrice la funzione, che essa può (o non) svolgere nella storia appunto.
Per quanto retorica possa suonare, tale espressione non va intesa né moralisticamente, né in senso puramente agitatorio. Infatti, essa si limita a descrivere la situazione storica come realtà della contraddizione radicale fra lavoro salariato e capitale; contraddizione, il suo superamento contiene l’ effettiva possibilità  di concludere la serie delle società di classe in generale -e si badi che la contraddizione lavoro salariato/capitale può esser tolta solo ad opera del primo, dato che il rapporto di capitale presuppone il lavoro salariato e senza di questo non potrebbe esistere.
E’ certo che quella descrizione promuove una sollecitazione pratica ad attuarne la possibilità implicita: la conoscenza dello stato di fatto contine in sé, effettivamente, questa conseguenza politico-morale, la quale -lo si comprende facilmente- è tutt’altro, però, che un “vuoto dover essere” (Hegel).
Comprendere quale sia il significato obiettivo della missione storica della classe lavoratrice, toglie alla lotta per il socialismo l’impronta, soggettiva, di mèra aspirazione corrispondente alla particolarità degli interessi dei lavoratori salariati o delle vittime sacrificali del ‘progresso’ capitalistico - il che poi significa che il socialismo non può essere il risultato di un riequilibrio di interessi parziali, ottenuto mediante le tecniche della democrazia parlamentare borghese. Quest’ultima è esattamente la concezione riformistica, che di necessità rifiuta la filosofia della storia di Marx ed Engels e, di conseguenza, il materialismo storico.
Per la prima volta nella storia delle società di classe, la classe lavoratrice ha la possibilità di aprire all’ulteriore storia umana una prospettiva nuova: questo è il senso filosofico della critica marxiana all’economia politica. Non si può accettare questa critica e rifiutarne il significato filosofico, né si possono accettare solo singoli aspetti della analisi marxiana del processo sociale, lasciandone cadere altri: la struttura fondamentale di una teoria, che esprime concettualmente la storia a partire dal processo di produzione e riproduzione della vita umana, non si lascia spezzettare in frammenti a seconda del bisogno.
La categoria «missione storica della classe lavoratrice» ha la propria collocazione all’interno di una teoria del tipo appena descritto ed è, quindi, una parte insopprimibile della concezione marxiana della storia.
Ma poiché la classe lavoratrice non è spontaneamente cosciente della sua missione storica (non si tratta, infatti, di un semplice contenuto d’esperienza, ma piuttosto di un’elaborazione categoriale dei contenuti di esperienza, insomma di un «concreto del pensiero»), per la realizzazione di tale missione è necessario un portatore del processo di presa di coscienza e della strategia politica, da essa ricavabile.
Questo portatore può assumere, solo, la forma di un’organizzazione, poiché deve riuscire ad assicurare un processo di presa di coscienza da parte di individui, non però mediante un’attività educative di singoli, ma sì attraverso attività e discussioni collettive, che giungano fino al livello della generalizzazione teorica. I membri più coscienti della classe lavoratrice -dunque, una parte solo di essa- costituiscono l’ avanguardia, ovvero la punta avanzata di un processo storico di sviluppo.
Essere avanguardia non significa avanzar pretese di comando. Significa, piuttosto, collocarsi nei punti più pericolosi della lotta di classe.
Più pericolosi, poiché l’avanguardia deve prender posto nella lotta di classe, in quanto piccola minoranza, in anticipo sulle masse e, perciò, è il settore destinato ad offrire il maggior numero di vittime.
Più pericolosi, perché è possibile che, alla prova dei fatti, l’avanguardia scopra di aver sopravvalutato le possibilità di lotta e che di ciò debba pagare il prezzo.
Più pericolosi, perché l’avanguardia può trovarsi sempre nella situazione dell’isolamento e, quindi, di chi è lasciato in asso. Insomma, la posizione di avanguardia non è un privilegio, ma sì un gravoso impegno e, spesso, un autentico sacrificio.
Lenin non ha inteso in modo diverso il ruolo d’avanguardia del Partito, né lo si può intendere altrimenti, se si comprende cosa significhi sul serio «punta avanzata».
Punta avanzata, infatti, non è il comandante di un’esercito, ma piuttosto l’unità di prima linea, chiamata ad affrontare per prima il nemico, ad infliggergli le prime perdite e, così, aprire la strada agli attacchi da parte del grosso del proprio esercito. D’altronde, anche usando «avanguardia» nel senso artistico ed intellettuale, in tale espressione non è inclusa una funzione di comando, ma sì, collocandosi al vertice del progresso culturale, la funzione, invece, di proporre e metter a prova il nuovo, di elaborar concetti, imprimere impulsi e scoprire inediti orizzonti. Dal punto di vista, poi, dell’organizzanione sul terreno della lotta di classe, «punta avanzata» significa: offrire fondamenti teorici e guidare operazioni strategiche, che preparino la strada ad un movimento di massa, mostrandogli la direzione.
La coscienza di classe si sviluppa nell’intreccio di teoria ed azione politica ed è appunto questa unità di prassi e teoria, che un PC deve realizzare in sé per guidare esemplarmente le masse, se punta, effettivamente, a raggiungere il proprio obiettivo -che è quello di fungere da fermento per il processo di presa di coscienza di classe, di organizzazione di lotta di classe, nella prospettiva della missione storica della classe lavoratrice.

§. 6 - Excursus sulla dottrina del totalitarismo.
Dall’inizio della ‘guerra fredda’, la dottrina del totalitarismo è uno degli strumenti privilegiati, a cui ricorre la demagogia anti-comunista degli ideologi borghesi, con l’obiettivo -anche- di consolidare la socialdemocrazia nel ruolo di difesa della società capitalistica. La caduta dell’Unione Sovietica e degli altri Pesi socialisti est-europei è servita come ulteriore alimento all’accusa volta al regime (“stalinista”) socialista d’esser gemello del fascismo. Questa falsificazione storica -che s’appoggia su superficiali analogie-  ha prodotto notevoli sbandamenti.
Anche comunisti, che pur intendono contrapporsi a quella ottenebrante strategia, non sono tuttavia riusciti a sottrarsi alla dottrina del totalitarismo, mettendone in luce le forme argomentative. Sennonché, coloro i quali si fanno imporre i temi dalla propaganda ideologia borghese intorno al totalitarismo, contraddicendo le proprie intenzioni, finiscono con l’accogliere, all’interno di una strategia che vorrebbe esser di difesa, esattamente la prospettiva del nemico: infatti, accettano di mettere immediatamente a raffronto fenomeni funzionali diversi, dimenticando che chi si pone, in tal modo, sullo stesso terreno voluto dal nemico, ha già perso a metà la battaglia.
Nelle scienze sono ammesse forme di confronto, che rimandano alla struttura di cose diverse.
Si può, ad es., mettere a raffronto la burocrazia dell’Impero cinese, della Prussia e dell’Unione Sovietica e ritrovare analogie nel modo di organizzare i pubblici affari. Ma con ciò ancora non si è detto nulla circa il sistema statale.
Sistemi costruiti diversamente, essenzialmente differenti l’un dall’altro e con diverse finalità, tuttavia, possono esibire analogie funzionali. La biologia ci apprende cose circa gli organismi, la sociologia circa le società; il confronto di sistemi sostanzialmente differenti mostra la loro incomparabilità, dacché mostra che è errato pretendere di rapportarli l’uno all’altro sulla base di superficiali analogie funzionali. A nessuno storico può venire in testa di stabilir raffronti -o, se si vuole, paralleli- tra Cesare, Napoleone e Mussolini.
Il socialismo nel processo della sua costruzione ed il capitalismo nella fase della sua maturazione, in linea di principio, non sono confrontabili. Poiché, in primo luogo, il confronto dovrebbe avvenire fra il primo socialismo ed il primo capitalismo, per porre in relazione corrispondenti situazioni storiche epocali. Ma la non confrontabilità risulterebbe anche sotto l’aspetto funzionale.
La Ginevra di Calvino, la Francia di Richelieu. l’Inghilterra di Cromwell erano certamente assai diverse dall’Unione Sovietica dopo la Rivoluzione d’Ottobre e che sotto questo o quell’aspetto vi potessero essere fenomeni analoghi non toglie nulla alla loro sostanziale differenza. Ancora più rilevante è, però, questa ulteriore considerazione.
La struttura del socialismo è determinata dal fatto di porre, in luogo dell’appropriazione e accumulazione privata del capitalismo, l’appropriazione ed uso sociali del plusvalore.
L’essenza del socialismo è operare per favorire l’amancipazione di un uomo che si sviluppa multilateralmente; mentre il capitalismo persegue l’obiettivo dell’emancipazione di individui che si scambiano merci, come fattori della vicenda del mercato.
Scopo del socialismo è il superamento dello sfruttamento e dell’oppressione; quello del capitalismo, invece, è la continuazione della loro esistenza.
Tutto ciò che avviene nel socialismo serve a scopi e si inserisce in un ordine, che sono tutt’altri che quelli del capitalismo.
Posta la non confrontabilità per principio del potere statale socialista (in costruzione) e delle forme di dominio capitalistico (il quale ha raggiunto nel fascismo il vertice della disumanità, ma anche il borghese “Stato di diritto” include la sua brava dose di inumanità), il nostro interrogativo diviene, invece, quali forme non socialiste -addirittura, opposte per essenza al socialismo-, nel corso della nascita e sviluppo della società socialista, sono confluite, o si sono in essa compiute: questo è il  tema del dibattito sugli errori, deformazioni e delitti nel socialismo -è una discussione che va condotta a fondo, in modo che noi si possa apprendere dalla storia per poter costruire il futuro. Attenendoci strettamente alle conoscenze ed ai metodi del materialismo storico, possiamo spiegare e comprendere -senza ricercare attenuanti, né scusanti- ilperché di quanto è avvenuto: la storia ben compresa ci rende liberi per il futuro.
Nella prospettiva di una tale spiegazione e comprensione, le forme fenomeniche sono semplici indizi -pur se terribili indizi (come le tante vittime innocenti)-, che non dovrebbero esser rimossi, ma appunto usati come indizi per arrivare alle cause ricercate. Come è stato possibile che in una società -che si pensava destinata a realizzare i diritti dell’uomo e che si poneva l’obiettivo di assicurarne la liberazione- i mezzi per raggiungere tali obiettivi siano stati così spesso con essi contradditori? Quali presupposti materiali ed obiettive contraddizioni, inerenti alla transizione dal regime zarista al socialismo, hanno dato origine a tale antinomia?
Se ci poniamo queste domande, non stiamo più sul terreno propostoci dai teorici del totalitarismo, i quali non riescono a spiegare ma, solo, descrivono fenomeni.
Noi, al contrario, fondiamo il nostro interrogarci sul diritto che abbiamo alla nostra storia, nei confronti della quale siamo responsabili: ci poniamo, insomma, sul nostro terreno e non su quello dell’avversario. Senza trascurare di interrogarci intorno a cose come i Gulag, possiamo chieder conto ai rappresentanti del capitalismo dei milioni e milioni di vittime, che hanno richiesto e richiedono su scala mondiale le guerre, il colonialismo, la fame. Interrogarci sulla nostra storia significa interrogarci su ciò che abbiamo fatto di sbagliato e sul prezzo che abbiamo pagato in vista di un futuro migliore.
Nel caso del capitalismo, però, non è vero che esso sbagli, quando scatena guerre e produce miseria e dipendenza: infatti queste son tutte cose, che gli appartengono per essenza. Perchè il capitalismo stesso è falso.
La questione nodale, che ci consente di abbandonare le false comparazioni e di metterci, invece, sulla giusta prospettiva, è quella della democrazia.
Gli ideologi borghesi riempiono la nozione di democrazia con i contenuti della democrazia borghese ed anche il confuso ed ambiguo richiamo all’ hegeliano “superamento” non cambia nulla a questo fatto: infatti, “superare” nel senso di “conservare” dovrebbe identificarsi con “divisione dei poteri, parlamentarismo, pluralità di partiti concorrenti...”, insomma, con lo Stato di diritto.
E’ naturale che nel socialismo non tutte le conquiste della società borghese debbano esser gettate a mare: ma altrettanto è vero che bisogna ben distinguere tra conquiste che valgano solo per l’ordine borghese ed altre che abbiano invece un significato storico per l’umanità in generale. Il concetto di “Stato di diritto” non può semplicemente essere identificato col formalismo del nostro ordinamento borghese del diritto: che tutti gli atti amministrativi debbano essere legittimi rispetto al diritto, mi sembra norma ben sensata e parimenti mi sembra lo sia che istituzioni statali e di Partito risultino ben distinte.
Al contrario, parlamentalismo e pluralità dei partiti mi sembrano piuttosto un ridurre la vita sociale a ricerca continua di compromessi fra gruppi che hanno interessi diversi, in modo tale che chi più ha filo meglio riesce a tessere la sua propria, particolare tela.
Insomma, si tratta di qualcosa di completamente diverso rispetto ad una società, che punta a realizzare il solidarismo di uomini liberi: autodeterminazione ed integrazione dell’uomo entro il pianificato processo sociale generale, forse, trovano migliore realizzazione in un sistema di consigli.
L’ordinamento giuridico degli Stati socialisti segnò effettivi progressi democratici al livello del vivero quotidiano (diritto del lavoro, legislazione famigliare,....?), anche se certi diritti politici restarono invischiati nel gioco formale delle società borghesi. A ciò dovrebbero riflettere coloro, i quali si abbandonano facilmente all’equivoco di confrontare sistemi sociali diversi.
Il punto è cosa s’intenda per democrazia. Forse la sceneggiata delle nostre campagne elettorali, dominate dai mass-media e da slogans privi di senso e contenuto? Forse l’impotenza dei parlamenti nazionali in Europa di fronte al parlamento di Bruxells? Oppure l’influenza dei grandi potentati economici nell’attività legislativa?
Tutte queste son ‘conquiste’ della democrazia borghese, fortemente radicate nella struttura della società borghese e non deformazioni ad essa apportate dal capitalismo.
Nessun socialista ha, oggi, elaborato adeguatamente il quadro di una futura società socialista -ed, in effetti, farlo avrebbe dell’utopico.
Tutti noi dobbiamo impegnarci in questo compito, ma in stretto legame con la battaglia politica per il socialismo; tuttavia sicuramente è vero che, dal fatto che la democrazia socialista non sia stata realizzata, non dobbiamo ricavare la necessità di attestarci sulla democrazia borghese. Dobbiamo difendere la democrazia contro tutti i tentativi di appiattirla sulla difesa degli interessi capitalistici; sappiamo, tuttavia, che, nel socialismo, dovrà riempirsi di nuovi contenuti, che dovremo darle nuove forme, in modo che si tratti effettivamente di democrazia, dunque, di potere del popolo.


4° capitolo - Lotta di classe.

Politici e scienziati borghesi non amano sottolineare che viviamo in una società di classe. Lo stesso termine «classe» è piuttosto lasciato all’uso da parte della corporazione dei sociologi; i quali, per altro, preferiscono parlare di «strati sociali» o di società «livellata sul ceto medio». Questa resistenza ad usare perfino un concetto classico della scienza sociale, ovviamente, non è casuale e non è da escludere che si tratti di un’allegia terminologica, che segnala un problema sociale. Forse i politici usano come alibi il fatto che i sociologi abbiamo messo in cantina la dottrina della lotta di classe?
Senonché, spesso, proprio in cantina si rinvengono dimenticati capolavori, che la corporazione si ostina a non valutare. Ma appunto questa perseveranza nell’ evitare ilconcetto di classe diviene, per il critico attento, segno che la società di classe continua ad esistere.
Naturalmente, ciò che conta è un uso scientificamente corretto del concetto di classe: è facile, infatti, abbattere uno spauracchio, che sia stato precedentemente costruito proprio in vista dell’abbatterlo; ed è questo, d’altronde, il modo in cui oggi procedono molti critici, che vogliono dimostrare l’insignificanza storica, ormai, del marxismo.
«Classe» -nel senso di classe sociale, -dacché esiste ovviamente anche il concetto logico di classe o quello che serve a classificare le automobili-, in primo luogo, è un concetto economico.
Il 3° volume del Capitale doveva terminare con una esposizione della struttura di classe della società capitalistica, dunque, con la definizione della sua essenza di classe; Marx però non ha potuto portare a termine questa parte conclusiva della sua opera, che ci resta, solo, sotto forma di frammento dell’ultima sezione; tuttavia, ne risulta un’introduzione assai ricca, che mostra come il concetto di classe si rapporti alla formazione sociale ed economica.
“I proprietari della semplice forza-lavoro, i proprietari del capitale e i proprietari fondiari, le cui rispettive fonti di reddito sono salario, profitto e rendita fondiaria, in altre parole, gli operai salariati, i capitalisti e i proprietari fondiari, costituiscono le tre grandi classi della società moderna, fondata sul modo di produzione capitalistico.”[38]
Proseguendo, tuttavia, Marx chiarisce che le classi non si giustappongono l’una all’altra in modo netto, in quanto esistono tra l’una e l’altra forme equivoche e di passaggio; inoltre Marx mostra come gli appartenenti alla classe dominante leghino a sé le classi dominate, al fine di consolidare la propria condizione.[39]: in altre parole, chi appartiene obiettivamente alla classe dei lavoratori salariati può, tuttavia, sentirsi soggettivamente solidale con la classe capitalistica. Si tratta di un problema, che si lega a quello dell’analisi della «falsa coscienza».
Il concetto di classe ha una dimensione politica, immediatamente connessa al suo contenuto economico. Le classi in senso economico legandosi necessariamente l’una all’altra in una stessa comunità, per quanto contraddittoria, ed agendo l’una sull’altra, ecco che mostrano, anche, una dimensione politica. Collocandosi le classi nella dimensione politica, la lotta di classe risulta uno scontro che si gioca, anch’esso, sul terreno politico. Poiché la struttura di classe non sta solo a indicare una differenziazione funzionale e di proprietà ma rimanda anche ai rapporti di proprietà, ecco che diviene rivelatrice di un sistema di potere. Una gran parte dei comportamenti, condizionati dal punto di vista di classe, della classe dominante servono a edificare e mantenere il sistema di dominio, che le garantisce il potere. La concentrazione del potere nell’articolazione delle istituzioni democratiche, il mantenimento dei privilegi culturali, la garanzia di una giustizia conforme agli interessi di classe, la manipolazione dell’opinione pubblica mediante il controllo dei media: questi sono alcuni degli strumenti di cui si serve il potere, per mantenere il sistema dato.
Già da quanto detto ricaviamo eclatanti segni a conferma che non è proprio il caso di parlare di “livellamento delle differenze di classe”: chi sostiene tale livellamento fa sempre riferimento alla partecipazione di singoli al benessere generale -fenomeno che, per altro, è circoscritto alle metropoli. A ciò si aggiunga che il disfacimento sociale, che caratterizza anche i Paesi ricchi, rende il discorso sul livellamento ancor meno credibile, anche se, rispetto all’abbassamento dei livelli di vita, il limite di guardia non sia stato ancora raggiunto. Ma quando si parla di classi non è di questo che esattamente si tratta.
Dal punto di vista politico, la questione è quella del diverso grado di integrazione degli uomini nel processo sociale, come conseguenza della loro diversa collocazione economica.
Chi appartiene alla classe dominante può e deve identificarsi con la società, che gli garantisce un alto livello di auto-determinazione ed auto-realizzazione: per molti aspetti, egli può dire d’esser libero quanto vuole.
Al contrario, chi appartiene alla classe dominata resta -in gradi e quantità diverse- escluso dalla possibilità di contribuire a plasmarla ed ha tanto poche occasioni di auto-determinazione ed auto-realizzazione, quante gliene concede l’ordinamento sociale esistente. In conclusione, egli è libero quanto può.
Una classe dominante che voglia mantenersi tale deve impedire che quella dominata prenda parte senza limitazioni alla vita sociale, vale a dire partecipi anche all’uso del potere.
Vi è sempre una “lotta di classe dall’alto”, ovvero condotta con strumenti che ne occultano la brutalità: di tanto ha successo una classe dirigente, di quanto riesce ad occultare questa forma “dall’alto” di lotta di ed a evitare, in tal modo, che venga provocata una lotta di classe dal basso. Il prodigioso raffinamento conosciuto nella nostra epoca dagli strumenti d’influenza ideologica, consente, come mai era avvenuto nel passato, di mascherare la realtà della lotta di classe. D’altra parte è noto come pratiche di mascheramento della lotta di classe -con l’ausilio in particolare della religione istituzionalizzata- si siano avute in ogni tempo.

§. 1 - Interessi e coscienza di classe.
Tuttavia, sempre vi sono - e vi sono state- continue esplosioni degli ingorghi di malcoltento per le ingiustizie, legate alle aperte contraddizioni sociali ed alle riproducentisi situazioni di emarginazione, oppressione e sfruttamento. A partire dalle ribellioni degli schiavi nell’antica Roma, dalle sollevazioni plebee nei Comuni medievali, dalle guerre contadine all’inizio dell’epoca moderna fino a giungere alla resistenza dei tessitori della Slesia, abbiamo una ricchissima e documentata serie di esempi di aspre lotte di classe. Le ideologie occultanti, di cui la classe dirigente si serve allo scopo di assicurarsi l’egemonia anche sulla coscienza delle classi sottoposte e, dunque, perché esse stesse accettino gli esistenti rapporti sociali, sempre si scontrano ad un certo punto con limiti insuperabili, che ad esse oppone l’effettiva, immediata esperienza. Anche le momentanee concessioni sociali, che alimentano, presso i dominati, l’illusione ideologica del riformismo e dell’opportunismo politico, possono ottenere solo una momentanea integrazione degli sfruttati entro l’ordine sociale esistente. Esiste sempre il momento, in cui la contraddizione sociale radicale esplode.
Tuttavia, l’esperienza dell’emarginazione e dello sfruttamento non fa -da sola- il concetto della condizione di classe.
La «coscienza ribelle» reagisce ad una situazione particolare di oppressione, senza vederne le relazioni ed interdipendenze con le forme generali di movimento e di esistenza del tipo di società e, dunque, con le altre particolari situazioni di oppressione, che ne derivano.
Di contro alla spontanea insoddisfazione e critica, che si legano alla contraddizione vissuta, all’oppressione e sfruttamento di cui si fa esperienza, un’educata coscienza di classe sa comprendere tutto ciò come manifestazioni di una connessione sistematica essenziale, alla cui base c’è un modo d’appropriazione del prodotto sociale.
Come abbiamo visto, Lenin ha distinto con chiarezza la coscienza di classe dalla spontanea articolazione dei  particolari interessi di classe. Lo stesso concetto di classe è una generalizzazione teorica, che presuppone l’astrazione dalle casuali forme di manifestazione della vita sociale e la formulazione dei tratti essenziali del processo di socializzazione.
La coscienza di classe è “l’autocoscienza” di un soggetto storico universale, che non può essere concepito semplicemente come sommatoria o media statistica di individuali soggetti psicologici. Piuttosto, ogni soggetto individuale, poiché astrae le proprie generalizzazioni teoriche dalle particolari prospettive della sua esperienza, va di nuovo ricondotto alla coscienza di classe, come all’universale di cui rappresenta solo una delle particolarità.
Nella teoria, questo divario può esser superato, ma certo al prezzo di riempirlo di contenuti, che diminuiscono la presenza delle esperienze individuali - l’atteggiamento di “distacco dalla vita” e il dogmatismo, che inclina verso forme burocratiche di realizzazione, con le sue istruzioni e soluzioni astratte, tutto ciò sta a dire che la teoria si è separata dall’esperienza.
D’altra parte, la traduzione della teoria nella pratica quotidiana si lega sempre all’inevitabile rimpicciolimento e deformazione prospettici  che vengono dal punto di vista dell’esperienza individuale, a cui la teoria è ricondotta nella sua applicazione. Ciò produce gli sbandamenti soggettivistici  nell’attivismo dei singoli, non adeguatamente mediato dall’organizzazione.
Il processo di costruzione della coscienza di classe va condotto, correndo il rischio di questi due pericoli di snaturamento. Si tratta della coscienza, costruita sul piano teorico, di un “complessivo lavoratore sociale” -dunque della coscienza universale di una “persona astratta”, che trova espressione nelle “persone naturali”.

§.2 - Le basi organizzative della coscienza di classe.
La coscienza di classe e il suo volgersi nella pratica non va concepita come quell’ “astuzia della ragione” che, secondo Hegel, si afferma dietro le spalle degli individui in quanto “spirito oggettivo”, assumendo la forma irrazionalmente reificata di un “destino storico” feticizzato (ma d’altronde questo è un limite insuperabile per la coscienza borghese della storia). La coscienza di classe, invece, ha bisogno che si operi continuamente la mediazione fra i contenuti di coscienza individuali della persona naturale e l’universale coscienza di classe del lavoratore sociale complessivo. Tale processo di mediazione presuppone un terreno su cui costruirsi ed i cui risultati possano precipitare in una teoria unita alla prassi, continuamente sottoposta ad arricchimenti e mutazioni, proprio perché non si arresta il processo di mediazione.
Il ‘terreno’ di cui dicevo è l’organizzazione politica della classe lavoratrice in lotta. L’organizzazione svolge la propria attività sulla base dell’esperienza dei suoi membri, impegnati nell’applicare e nello sviluppare la teoria scientifica, la quale generalizza le esperienze sotto le categorie della totalità sociale; teoria sacientifica che può, dunque, essere descritta come costituzione dell’insieme sociale, attraverso la formulazione delle leggi essenziali della socializzazione. Il carattere politico-economico e filosofico di una tale teoria si inferisce dai compti, che essa si dà.
In ogni singolo membro dell’organizzazione, la teoria vale come ingrediente della sua prassi, ma nel senso che solo mediante l’attività politica organizzata essa può darsi la completezza di un tutto. E’ mediante il Partito che gruppi di individui possono assumere come risultato astratto la teoria, che altri hanno costruito su base d’esperienza, e dare ad essa una realizzazione nella prassi, mediante una solidarietà che può essere efficace, anche là dove non si diano le immediate condizioni d’esperienza.
In realtà, la solidarietà stessa diviene generale contenuto d’esperienza nell’organizzazione e mediante l’organizzazione; ed è proprio così che le astrazioni della teoria possono penetrare nella prassi. Insomma, la solidarietà nella lotta è un momento essenziale della coscienza di classe, così come lo sono le azioni in cui tale solidarietà prende corpo. Naturalmente, tali azioni presuppongono l’esistenza di una determinata base comune d’esperienza e debbono avere un effetto chiarificatore, per produrre realmente quell’esito.
Là dove esiste un movimento dei lavoratori, forte e ricco di tradizioni, son presenti anche modelli solidaristici di comportamento, che sanno persistere pure al di là di azioni sbagliate. Il livello della coscienza di classe è pure condizionato dallo stadio storico d’esperienza di lotta di classe.
Tutte le azioni di lotta di classe del proletariato nella società borghese nascono da una posizione, che certamente è povera di diretti strumenti di potere, ma su cui invece fa affidamento la classe dominante, che s’appoggia sul suo strumento, lo Stato. Sul terreno della lotta di classe -di cui la resistenza armata è, per i rivoluzionari, l’ultima ratio- tanti sono gli strumenti di cui lo Stato può giovarsi, quanti sono quelli di cui è priva la classe lavoratrice.
Sempre la violenza è lo strumento primo, di cui si servono gli organi dello Stato; al proletariato -in quanto componente necessaria della società borghese- è offerta la possibilità di bloccare il funzionamento della società borghese, negativamente, mediante lo sciopero e, positivamente, conquistando posizioni particolari di potere.
Certamente la società capitalistica è potente; però, è anche vulnerabile. La forza, che un’organizzazione orientata alla lotta di classe può contrapporre al potere organizzato dello Stato, sta nella disciplina dei suoi militanti.
Da solo, il singolo lavoratore è impotente; in quanto classe -ovvero, in quanto parte rilevante della classe, dunque, in un’azione di massa-, il lavoratore è imbattibile, dacché sarebbe tolto il sistema stesso, se venisse tolta una condizione necessaria della sua esistenza. Ora: la massa per principio invincibile è tanto vulnerabile, quanto lo sono gli individui in essa riuniti; infatti, per risultare vittoriosa, la lotta di classe richiede vittime individuali e, dunque, disponibilità al sacrificio; l’inasprimento della lotta di classe fino al confronto violento ha senso, se gli individui in essa impegnati assumono -e non episodicamente- tale disponibilità al sacrificio! Ciò implica, naturalmente, un alto livello di coscienza di classe, intelligenza e morale combattiva, le quali risultano dalla disciplina, che nasce da un lungo lavoro di maturazione.
Da ciò non si cava, è ovvio, che la disciplina diviene necessaria solo al momento della sollevazione rivoluzionaria, mentre prima non è che un mèro ‘esercizio’; è vero, piuttosto, che, proprio nei lunghi periodi di scontri parziali e continui all’interno della società borghese, la disciplina è il presupposto per far sì che le esperienze e i livelli individuali di coscienza possano mediarsi e, così, elevarsi a coscienza di classe.
Se è vero che l’attività politica organizzata è il luogo in cui si costituisce la verità storica della coscienza di classe, allora è vero, anche, che son necessari il rifiuto delle azioni individuali, spontanee, ed il loro ricondurle invece, alla totalità del piano strategico;  nonché la disponibilità ad un impegno che importa sacrifici, pure nelle minute attività, le quali, poi, non sono che il lato individuale dell’impegno collettivo.
In questa disciplina, di cui il singolo si fa carico, si disegna l’aspetto formale della coscienza di classe, così come il suo contenuto materiale deriva dalla rielaborazione teorica delle esperienze individuali.

§. 3 - Mutamenti nella struttura di classe e compiti del Partito.
Resta da esaminare se -posti i mutamenti avvenuti nella struttura sociale dei Paesi ad alto sviluppo industriale- siamo ancora autorizzati a parlare di classe lavoratrice e di proletariato.
La sociologia borghese contesta tale pretesa, citando le forme diverse in cui si realizza il modo di vita dei lavoratori salariati. Senonché, «classe» non è concetto interpretabile ad arbitrio.
Di essa vi è, al contrario, una definizione scientifica che, prendendo le mosse dalla caratterizzazione datane da Marx e che abbiamo precedentemente citato, distingue le classi sulla base dell’appropriazione o non-appropriazione del plusvalore.
Capitalista è chi si appropria in forma privata il plusvalore prodotto socialmente; al proletariato, invece, (o alla classe lavoratrice) appartengono tutti coloro, che ciò non fanno e che possono solo vendere la propria forza-lavoro; questo vale, quale che sia la classificazione in cui il lavoratore venga collocato dalla sociologia, quali che siano gli ‘strati intermedi’ che essa distingue.
I cambiamenti strutturali, le nuove professionalità o i nuovi strati sociali prodotti dai mutamenti nella forma delle forze produttive, tutto ciò resta, comunque, inscritto entro la cornice dei rapporti capitalistici di produzione, dunque, dell’appropriazione privata del plusvalore per effetto della proprietà privata degli strumenti di produzione; si tratta, insomma, di modicazioni interne ad una società, già definita nella sua intima spaccatura di classe.
Ciò significa che se pure è vero che la contraddizione di classe continua a determinare la struttura fondamentale della società, tuttavia è necessaria un’attenta analisi, che sappia riconoscere i sotto-gruppi interni alla classe lavoratrica, ma anche ricondurli all’insieme del processo sociale di produzione e di scambio.
Naturalmente ciò non sta a dire che sia scomparsa la contraddizione reale tra capitale e lavoro salariato; va sostenuto, piuttosto, che, oggi, essa ha assunto aspetti assai più impersonali e anonimi, tanto da non poter più esser immediatamente avvertita.
L’autentico problema è, piuttosto, come sia possibile ricostruire una combattiva coscienza di classe -che comprende, sappiamo, solidarietà e disciplina-, a partire da gruppi, interni alla massa dei lavoratori salariati, la cui coscienza tende ad accentuare le differenze delle condizioni particolari.
Tanto meno unitarie son le condizioni di vita della propria posizione di classe, tanto più rilievo acquista la generalizzazione teorica che, partendo pure da esperienze ed interessi diversi, giunge comunque ad una coscienza sociale sistematica, in cui i differenti punti di partenza trovano la possibilità di una ricomposizione unitaria.
Per la ricostituzione della classe come fattore politico, il lavoro teorico è doppiamente necessario: in primo luogo, per l’elaborazione di modelli d’interpretazione di alto livello di generalità, che risultino da una fitta rete di mediazioni basate sull’esperienza; in secondo luogo, per assicurarsi un metodo, che consenta la larga diffusione di massa di tale conoscenza teorica, dunque, per garantire una vasta attività di propaganda e agitazione, che si leghi all’esperienza dello sfruttamento e dell’oppressione, ma che sappia, anche, riferirsi centralmente ai conflitti attuali, collegandoli ai fini politici di mutamento del sistema. Conflitti sindacali, iniziative di cittadini ed altre iniziative di lotta fungono, in questa prospettiva, da punto di partenza.
A questo punto, la questione della formazione della coscienza di classe in vista d’una cosciente unità politica torna al tema dell’organizzazione, la quale può offrire il terreno su cui si costruisce proprio quel processo di formazione.
L’organizzazione della lotta di classe richiede l’esisteza di un Partito, basato su una coscienza di classe, elaborata teoreticamente a partire dal socialismo scientifico. Un tale Partito deve fungere da punto di cristallizzazione e da perno dell’opposizione al sistema dominante.
Quella del Partito non è una mèra questione di sociologia dell’organizzazione, che possa esser affrontata in questo o in un altro modo: è piuttosto un aspetto centrale della consapevolezza storica.
Se la nostra è e deve essere l’epoca del passaggio dal capitalismo al socialismo, dacché altrimenti si fallirebbe l’obiettivo dello sviluppo e dell’umancipazione umani, allora il Partito, cosciente di questo carattere epocale, è quello che conduce al superamento politico della mancanza di libertà, propria di qualunque società di classe; è, insomma, il portatore della verità storica del nostro tempo.

5° capitolo - Il concetto di epoca.
Il carattere di un’epoca non è deciso da un singolo evento politico, per quante ripercussioni questo possa avere sulla vita dei contemporanei. Undici anni dopo la decapitazione di Carlo I d’Inghilterra (1649), gli Stuarts tornarono dall’emigrazione e restaurarono la monarchia assoluta per quasi trent’anni: eppure, ciò restò solo un’episodio all’interno del “secolo delle rivoluzioni borghesi”. Non altrimenti avvenne nel 1815 con la Restaurazione guidata da una classe dirigente piena d’odio per le sconfitte subite, ma impotente a cancellare gli effetti dell’avvenuta Rivoluzione francese. Il tempo del feudalesimo era irrimediabilmente concluso e, nonostante le sconfitte, il trionfo della borghesia risultava inarrestabile: industrie, ferrovie, Istituti bancari rappresentavano forze storiche assai più incisive di qualunque potere statale in mano alla Santa alleanza, dacché determinavano il modo di produzione della nuova era e richiedevano, per il proprio sviluppo, un nuovo ordine sociale e nuovi rapporti di produzione.
Il carattere di un’epoca è determinato dalla produzione sociale e dalla riproduzione della vita civile che essa consente. Quali forze produttive sono a disposizione di un’epoca? In quali modi e forme di organizzazione lavorativa, dello scambio e della distribuzione esse sono usate? Quali forme proprietarie e giuridiche ciò comporta? Quali interessi -concordi e/o contraddittori- generano i rapporti di produzione dominanti? Come si mediano i differenti scopi individuali nell’orizzonte degli interessi collettivi di classe, in cui si esprimono le contraddizioni fondamentali di un’epoca?
Queste son le domande a cui dobbiamo rispondere, se vogliamo renderci conto non degli eventi episodici e superficiali, ma sì delle tendenze fondamentali di un’epoca. Ciò che avviene in questo o quel punto temporale o spaziale costituisce indizio di un significato, che l’occhio esperto dell’indagatore deve scoprire, se il suo intento è cogliere le forze generali, che operano sotto la superficie.
Il materialismo storico è il metodo per condurre una tale indagine; così come lo scarto -fra sviluppi delle forze produttive e resistenza opposta ad essi dai rapporti di produzione- è la chiave per determinare il carattere di un’epoca.

§. 1 - La rivoluzione tecnico-scientifica.
Nella nostra epoca, il fattore determinante della produzione materiale è dato dalla “grande industria” -come Marx aveva già visto più di cent’anni fa (cf. Das Kapital, 1. XIII).
Il rimpiazzo della forza lavorativa umana con le forze della natura; la sostituzione di un’attività, ormai divenuta routine, con l’impiego consapevole della scienza e l’accelerazione del ritmo e intensità del lavoro, in modo tale che tale aumento sistematico ed “ogni perfezionamento del macchinario si trasformi in strumento per succhiare una quantità maggiore di forza-lavoro”[40] -, ecco, nel fondo, la descrizione adeguata a render conto di quel processo di sviluppo tecnico del capitalismo, che conduce fino all’automazione ed all’elaborazione dei dati.
Dalla fine del XVIII° secolo, un’ingegneria tecnica sempre più raffinata ha legato scienza e produzione, in modo tale che la crescita dell’una implicita la crescita dell’altra.
La scienza stessa è divenuta una delle principali forze produttive, a ritmi di crescita sempre più accelerati e giungendo a conquiste conoscitive sempre più spettacolari. Le conoscenze in tal modo acquisite non solo hanno conquistato un’estensione, che va ben al di là della portata di un singolo intelletto; ma anche sono riuscite a penetrare nella struttura profonda della realtà materiale (fisica delle particelle, biologia molecolare, tecnologia genetica, psicoformacologia, ecc.).
Senonché, a questa prodigiosa estensione e capacità tecnica delle scienze particolari non si accompagna una visione generale del mondo e della società, che consenta al singolo di entrare in relazione con il tutto.
Le conoscenze scientifiche vengono valorizzate in funzione degli scopi individuali dei proprietari degli strumenti di produzione e ciò, naturalmente, ha conseguenze anche rispetto al modo di orientare lo sviluppo scientifico.
Al momento attuale, il posto dei singoli capitalistici è stato accupato dalle concentrazioni di capitale, dai consorsi e dalle società finanziarie, che perseguono i loro scopi particolari  con forze e possibilità ancora maggiori.
Avvenuta questa sostituzione -dell’individuo capitalista con il consorzio-, le finalità particolari divengono sempre più esclusivamente quelle dell’accumulazione capitalistica, perché con le società anonime risultano tolti anche gli scopi privati, ma nel senso di personali, che il singolo capitalistica tuttavia aveva.
La legge che ha retto, per due secoli circa, la rivoluzione industriale, naturalmente, continua a valere -ed è la legge, appunto, dell’accumulazione del capitale.
Il capitale privato investito deve produrre plusvalore, in modo che ne risulti un profitto da convertire, anche, in nuovi investimenti. E’ in questo modo che i capitali finiscono col contrapporsi ai loro stessi proprietari, in quanto “valore valorizzantesi”, ovvero in quanto “feticcio nella sua forma più pura”.[41]
In questa sua astratta coazione all’autovalorizzazione, il rapporto di capitale diviene il più concreto -e più estraniato- modo di vita sociale dell’uomo all’interno della società borghese, che si imprime -direttamente o indirettamente- su ogni manifestazione della vita sociale. Una conseguenza è che i progressi della RTS, invece che risolversi in strumenti per la liberazione umana dalla costrizione esterna, si riducono a mezzi dell’aggiogamento umano alle finalità autonome della valorizzazione del capitale.
Valorizzazione del capitale significa continua crescita della produttività, quale che sia lo scopo e il contenuto della produzione. Ma significa, anche, continuo sorgere -manipolato!- di nuovi bisogni, che possano portare alla messa in circolo di merci, capaci d’assicurare sufficienti profitti.
Non appartiene ai comunisti assumere acriticamente questa continua espansione di bisogni, promossa dal principio della valorizzazione del capitale o accoglierla addirittura come criterio per valutare i progressi dello standard di vita delle masse.
Esattamente un grave errore, che caratterizzò la concezione dello svuluppo fatta propria dal XX Congresso del PCUS, fu di presentare come obiettivo socio-economico il superamento -in un tempo quale che fosse- dello standard di vita degli USA. Assumere questa finalità, infatti, implicava il sottomettersi al meccanismo d’una produzione mercantile sempre crescente e così sostituire i valori comunisti con l’ideologia piccolo-borghese del consumismo.
Il progresso in una società comunista implicita il superamento dell’estraniazione umana nel feticismo mercantile e il dispiegarsi, invece, dei valori dell’autorealizzazione umana, la quale trova adeguata espressione non solo negli standards di consumo, ma anche nella struttura stessa del modo di vivere.
Proprio il progresso tecnico, capace di sottrarre sempre più l’uomo all’oppressione del lavoro e di assicurargli una quota sempre maggiore di tempo libero (cioè, tempo non impiegato nell’immediata riproduzione della vita), consente l’espansione delle capacità ed attività umane, la differenziazione degli interessi e l’elaborazione di nuovi contenuti di vita. Il passaggio ad una nuova cultura, fondata sullo sviluppo multilaterale delle persone, è la chance che si offre ad un’epoca, in cui le forze produttive hanno raggiunto livelli, in grado di consentire all’intera umanità di emanciparsi dai bisogni materiali.
Va da sè che si faccia in modo d’assicurar la crescita dei bisogni materiali: in ciò consiste, appunto, la strategia volta ad assicurare la continua espansione della produzione mercantile, che è la stessa forma d’esistenza del capitalismo. Senonché, ben presto si mostra che tale unilaterale strategia di sviluppo produce insuperabili contraddizioni nel generale modo di vita umano.
La rapidità delle innovazioni tecnologiche porta con sé l’etica del rapido esaurirsi dei modi del consumo. Ogni produzione, inoltre, deve riprender l’avvio da materie che si trovano in natura; ogni consumo di materia, però, dà origine a scarti, che hanno da esser rigettati nell’ambiente naturale. La RTS che avviene all’insegna della valorizzazione capitalistica, per il nostro ambiente naturale, costituisce un danno sotto due aspetti:  esaurisce risorse e distrugge le condizioni fisiche, chimiche e biologiche degli equilibri ecologici, che poi son ciò che garantisce la sopravvivenza stessa della vita. I possibili benefici della RTS, all’interno del capitalismo, si rovesciano in maledizione per l’umanità: la crisi ecologica è una conseguenza dell’ordinamento economico-politico in cui viviamo.
(Anche gli Stati socialisti, sotto la pressione della concorrenza col capitalismo all’interno del sistema capitalistico mondiale, dovettero cedere a questa costrizione -d’altronde, tutti i deboli economicamente sono soggetti alle leggi economiche dalla “grande industria”).

§. 2 - imperialismo e sottosviluppo.
Nella forma che le vien data dal processo di valorizzazione del capitale, la RTS determina il volto del nostro mondo. Con le sue nuove produzioni, essa dà l’impronta anche al tipo di sviluppo di Paesi che, con grande fatica e lentezza, debbono riuscire ad integrarsi al livello di sviluppo degli Stati industrializzati.
Perché la produttività di una moderna industria possa realmente contribuire allo sviluppo delle masse di un Paese, è necessario che il momento di partenza del processo già si collochi ad un determinato livello di sviluppo, per quanto modesto, e che sia caratterizzato da un certo standard di vita: in caso contrario, non si potranno trasformare miserabili in forza-lavoro qualificata e in consumatori.
Le strategie capitalistiche di sviluppo -orientate, sappiamo, non allo sviluppo dell’uomo, ma sì alla valorizzazione del capitale- non sono in grado di assicurare quelle necessarie condizioni di partenza; solo programmi di solidarietà -e nel lungo periodo- possono superare l’arretratezza tecnologica ed operare le adeguate trasformazioni di rapporti e modi di vita (già presenti all’interno dei Paesi sviluppati), che corrispondono al processo di sviluppo d’una generazione. L’attesa di vantaggi a corto o medio termine possono condurre ad una politica di investimenti, che in realtà riproduce uno scarto fra una ristretta cerchia, capace di godere dei vantaggi del progresso, e masse sempre più immiserite e, così, determinare una crisi, che investe centinaia di milioni, miliardi forse, di uomini dei Paesi poveri. Il capitalismo non dispone affatto degli strumenti per dare una soluzione umana al problema del sottosviluppo.
La limitatezza delle risorse e degli sbocchi commerciali, a disposizione d’una ulteriore espansione del capitale, non fanno che approfondire una contraddizione radicale interna al capitalismo.
Le guerre di concorrenza, fin dal suo sorgere, appartengono al capitalismo; la vittoria dei più forti sui più deboli porta con sé processi di concentrazione. Oggi, l’incrocio di concorrenza e concentrazione ha condotto alla formazione di tre blocchi, che costituiscono superpotenze economiche: gli USA con i loro satellici; la Comunità europea, segnata dalle pretese egemoniche della Germania ed, in fine, il blocco Giappone/Sud-est asiatico.
Le divisioni tra questi tre gruppi si fanno ogni giorno più manifeste e mostrano i segni di possibili conflitti. Dal punto di vista politico, questi conflitti già danno occasione a numerose piccole guerre “indirette”: la Guerra del Golfo per il controllo del petrolio; la dissoluzione della Jugoslavia attraverso una sanguinosa guerra civile manovrata dall’esterno; gli scontri fra Armenia e Azerbaijan; la guerra in Cecenia; le aggressioni contro la Libia, Cuba; in molti altri luoghi del mondo,inoltre, si minacciano o addirittura si svolgono già altri scontri militari.
Dissolta l’Unione Sovietica e, con ciò, il cosiddetto equilibrio mondiale delle due “Superpotenze”, il mondo si è fatto meno sicuro.
Sullo sfondo delle “piccole” guerre si profila la rivalità tra i “Grandi” ed il fantasma di una futura guerra tra loro. All’interno del capitalismo non c’è modo di unificare l’espansione capitalistica, ché sempre essa comporta conflitti tra i diversi gruppi capitalistici e le strutture politico-statuali che li sorreggono. Il capitalismo non è apportatore di pace.
La situazione mondiale -caratterizzata da problemi globali, quali la crisi ecologica, l’impoverimento massivo e le minacce alla pace- scaturisce dal carattere espansivo del capitale nella sua attività di auto-valorizzazione su scala universale. Questa fase del capitalismo si chiama imperialismo e la valutazione che Lenin ne dette è, nella sostanza, ancor oggi valida -in particolare dopo la provvisoria vittoria riportata sul socialismo.
I problemi globali son la manifestazione d’una acuta crisi del sistema capitalistico, che giunge a render possibile addirittura l’auto-annientamento dell’umanità. La stessa strutturazione essenziale dell’economia capitalistica -valore che si valorizza o capitale che si incrementa- si contrappone ad una possibile soluzione di questi problemi.
Ogni intervento sul sistema, che sia orientato a curare questo o quel particolare cancro particolare, che qua e là si rivela, è destinato a mostrare tutta la sua insufficienza e, in definitiva, si condanna al fallimento, sino a quando non venga rimossa la causa profonda di quegli stessi mali -vale a dire, la coazione sistematica all’accumulazione di capitale. Presupposto del dominio sulla crisi è la modifica del sistema dei rapporti di produzione.

§.3 - Riforme e rivoluzione.
Cambiamenti d’un sistema si compiono solo dopo un lungo periodo di elaborazione. Prima che abbia successo la rottura rivoluzionaria, si snodano molti piccoli passi riformistici, volti ad edeguare un sistema inadatto alle condizioni della propria sopravvivenza. Questi passi sono i primi segni di un ‘passaggio’ più radicale, quando vengano concepiti ed usati come fasi inziali di più profondi cambiamenti.
Ovviamente, ciò non significa che le riforme siano superflue o addirittura indesiderabili, per il loro parziale esito stabilizzatore; giungere a questa conclusione sarebbe dar prova di frettolosità estremistica, dimentica della dialettica di quantità e qualità.
La nuova qualità -dunque, anche la nuova forma politica di organizzazione dei rapporti di produzione- non nasce per esplosione improvvisa, se così si può dire, dal seno stesso della vecchia società. Ha bisogno, invece, di molti piccoli cambiamenti, capaci di mettere progressivamente in forse l’unità sistematica della società in questione: ha bisogno, dunque, di molti interventi, che introducano in questo o quel punto la nuova qualità. Mediazione e rottura sono i due rovesci di una stessa medaglia, i due lati di uno stesso processo.
Ma il rovesciamento o la rottura non nascono ‘da soli’; al contrario, richiedono sempre soggetti operanti, che quel rovesciamento o rottura vogliano, che per essi si battano e li preparino.
L’ideologia riformistica si contenta dei cambiamenti interni al sistema esistente e dà così l’illusione di poter in tal modo combattere quelle deficienze, che son proprie, invece, del sistema come un tutto e in quanto tale: è in questo modo che il riformismo finisce col farsi puntello del sistema.
Un ruolo stabilizzatore non lo hanno le riforme in quanto tali, ma sì l’ideologia delle riforme (il riformismo), dacché smorza la volontà rivoluzionaria e giunge a sancire l’esistente fino al punto di comprimere ogni impulso rivoluzionario.
Lo sviluppo storico, tuttavia, segue sue proprie leggi: l’umanità non vuol precipitare nel baratro e, dunque, spinge per nuovi sviluppi, fino all’abbattimento dei rapporti esistenti.
Quest’ultimo risultato consegue ad un lungo e continuo processo di mutamento sociale; ma il passo politico decisivo per l’ingresso nel nuovo regime sociale è il mutamento del potere, ossia l’abbattimento rivoluzionario del potere d’una classe.
Non lasciamoci ingannare dall’abuso, che il linguaggio corrente oggi fa del termine ‘rivoluzione’: ogni paio d’anni, assistiamo ad una ‘rivoluzione’ -ad es., nella moda, col variare della lunghezza delle gonne; nel mercato, con l’introduzione di un qualche nuovo prodotto -per non parlare della ‘rivoluzione’, che l’ultimo libro pubblicato regolamente segna rispetto alla concezione del mondo! Le rivoluzioni effettive sono, invece, rare e coinvolgono l’intera società, in tutte le sue manifestazioni.
Un’effettiva rivoluzione disgrega l’esistente formazione sociale e comincia a far emergere il modello fondamentale di una nuova; a monte però di quel disgregarsi c’è un lungo processo, nel corso del quale la vecchia società comincia a mostrare crepe e segni di decadenza. Dall’altra parte è vero che al primo abbozzo di una nuova formazione sociale si richiedono ancora numerosi cambiamenti, perché un nuovo ordine si stabilisca effettivamente.
I mutamenti rivoluzionari non sono eventi improvvisi ed eccezionali, da cui sorga bell’e fatto il nuovo; al contrario, richiedono un lungo periodo di lotte -dunque, di vittorie e sconfitte, di innovazioni e di ricadute all’indietro.
Nel corso di questo lungo e complesso processo, però, vi è un momento, in cui i mutamenti introdotti appaiono con piena chiarezza in tutta la loro portata: è allora che ci si accorge che si è realizzato un mutamento di formazione sociale.
Son questi momenti, che fungono da segnale del fatto che si è entrati in una nuova epoca, che una rivoluzione è avvenuta e che essa dà il tono al’intera epoca.

§. 4 - La Rivoluzione d’Ottobre come segno di una nuova epoca.
La crisi del capitalismo, che scaturisce dall’acuirsi devastante delle sue interne contraddizioni, è un fenomeno secolare: per la prima volta, si manifestò nell’insieme della prima guerra mondiale.
In questa prima esplosione della crisi generale, la sconfitta militare portà al crollo della Russia zarista -nella quale andava svolgendosi ancora il processo di industrializzazione, ma in cui, anche, le masse popolari non avevano alcuna esperienza di lotta politica democratica, sia pure un senso borghese.
La borghesia, per altro relativamente poco sviluppata, non fu in grado di rispondere agli impetuosi colpi del movimento operaio e contadino con gli strumenti di una democrazia borghese funzionante, che si contrapponesse alla dittatura zarista: per questo fu trascinata nel suo stesso crollo.
L’«anello più debole» della catena imperialistica si ruppe; proprio l’immaturità delle condizioni, in questo caso, rese possibile la rivoluzione socialista.
Se in alcuni casi, la rivoluzione è stata l’acme o la conclusione di un lungo processo di sconvolgimenti radicali (si pensi al 1789 francese o alla Rivoluzione borghese del 1848), l’Ottobre del ‘17, invece, fu -e ciò vale anche per i primi anni dell’Unione Sovietica- il punto di avvio del processo mondiale di passaggio dal capitalismo al socialismo; essa non fu il frutto di mutamenti storici già realizzati: piuttosto, segnalò il primo ingresso in nuovi territori della storia; non sancì l’avvenuta vittoria del proletariato, ma sì l’inizio della lunga lotta per una società mondiale priva di classi, contro un avversario storicamente superato, ma ancora potente.
Con la Rivoluzione d’Ottobre inizia l’epoca del processo rivoluzionario, in cui il capitalismo sarà superato e la RTS sarà posta al servizio dell’uomo e non della valorizzazione del capitale.Trionfo e caduta del’Unione Sovietica sono stati una prima fase di questa epoca; noi  -che, ora, viviamo all’interno di un capitalismo apparentemente vittorioso ma, in realtà, dalle contraddizioni sempre più aspre ed acute-, siamo entrati in una seconda fase dello stesso processo.
La Rivoluzione d’Ottobre ha dato l’indimenticabile prova che gli sfruttati e gli oppressi -quelli che, oggi, vengon chiamati i deboli e gli esclusi- hanno la forza di ribellarsi. Essi sono in grado di edificare il loro proprio Stato, la loro propria società e di imporre limiti ad un potente nemico.
Fu l’Unione Sovietica ad abbattere il fascismo; fu essa ad assicurare la retrovia dei movimenti anti-colonialistici di liberazione nazionale; molte concessioni ai lavoratori negli stessi Paesi capitalistici, d’altronde, furono fatte proprio per la paura, che incuteva l’alternativa socialista. Insomma, “lo spettro del comunismo” ha turbato effettivamente l’animo dei potenti.
Tuttavia, il primo sistema sociale socialista è stato sconfitto.
Le sue basi economiche erano troppo deboli per poter vincere il confronto col sistema capitalistico, portando avanti contemporaneamente l’edificazione del sistema sociale sovietico.
La prosecuzione del processo rivoluzionario dopo la Rivoluzione d’Ottobre, nelle condizioni di persistente arretratezza tecnologica e di accerchiamento politico-militare, comportò a poco a poco deviazioni dagli scopi rivoluzionari.
In luogo della libera associazione dei produtori, si ebbe il progressivo rafforzarsi di un apparato burocratico, senza il quale non era possibile costruire il gigantesco Stato sovietico; il Partito non era più l’avanguardia del progresso sociale, ma sì chi esercitava effettivamente la funzione statuale e finì in tal modo col trasformarsi in un reale strumento di potere, invece che essere il mezzo collettivo, attaverso cui potesse costruirsi la volontà sociale.
Il Partito non riuscì ad essere il medio per l’integrazione delle masse in una complessa struttura d’istituzioni d’autogoverno. In questo modo, sempre più i singoli si rendevano autonomi dalla responsabilità verso la vita sociale e nel momento della crisi venne a mancare la prontezza necessaria alla difesa ed al rinnovamento della società socialista.
Ciò significa, forse, che la Rivoluzione d’Ottobre è stata nel suo complesso un fallimento? Oppure, che sia stata una sciagura, in quanto ha avuto come conseguenza il discredito dell’idea socialista?
Chi fraintendendo in modo sostanziale la Rivoluzione d’Ottobre la considera come stravolgimento del socialismo, non solo formula tali domande, ma anche risponde loro affermativamente.
Chi ritiene, invece, che la Rivoluzione d’Ottobre fu l’aurora di una nuova epoca mondiale e non il suo crepuscolo, non ha bisogno di negare il corso del sole, solo perché, al crepuscolo, il cielo si è oscurato.
Gli obiettivi per il futuro prossimo dell’umanità, che furono posti sia dal Manifesto comunista che dal Programma bolscevico, non hanno perso il loro contenuto.
L’aumentato sviluppo delle forze produttive, entro la pelle del capitalismo ed operando le sue leggi d’accumulazione, conducono alla distruzione dei presupposti ecologici della vita umana ed alla cancellazione ad opera dell’imperialismo di parte dell’umanità e delle cultura (non solo nel cosiddetto terzo mondo, ma anche nelle metropoli, sotto  forma d’immiserimento mentale e fisico di coloro i quali patiscono gli effetti della cosiddetta «società dei due terzi»).
Ecco perché la risposta al capitalismo è data dalla lotta rivoluzionaria per un ordine sociale alternativo, il socialismo, -non a causa della Rivoluzione d’Ottobre, ma sì in quanto lotta di classe, che si riproduce dall’interno stesso del capitalismo, persistendo ed acuendosi le sue contraddizioni radicali.
Alla vigilia dell’Ottobre rosso, nei materiali per la ristesura del Programma del partito bolscevico, Lenin formulò questa legge epocale: “ Il grado eccezionalmente alto di sviluppo del capitalismo mondiale in generale, la sostituzione del capitalismo monopolistico alla libera concorrenza, la creazione da parte delle banche e delle associazioni capitalistiche di un apparato per disciplinare socialmente il processo di produzione e di ripartizione dei prodotti, il carovita e l’oppressione della classe operaia che si accrescono con lo sviluppo dei monopoli capitalistici, le gigantesche difficoltà della lotta economica e politica della classe operaia, gli orrori, le calamità, le devastazioni, le atrocità generate dalla guerra imperialistica: tutto questo converte il capitalismo, giunto al suo attuale grado di sviluppo, nell’era della rivoluzione proletaria socialista. Quest’era è già incominciata.” [42]
Si badi: Lenin scrive che “l’era” è cominciata e non semplicemente è venuto “il momento”. Egli era consapevole, quindi, che si trattava di una lunga fase dello sviluppo storico mondiale.

§. 5 - Vittoria o sconfitta: una partita ancora aperta.
E’ col 1917 che si è aperta l’era della rivoluzione proletaria. Ma anche rivoluzioni, che son giunte al culmine di uno sviluppo storico-sociale, non si sono svolte senza sconfitte.
La Grande Rivoluzione francese del 1789 ratificò il passaggio alla società borghese, che dopo più di un secolo mediante cambiamenti al livello dei rapporti di produzione fu portata a termine; e tuttavia con il Congresso di Vienna del 1815 -dopo la sconfitta militare di Napoleone-, per un’intera generazione, le potenze della Restaurazione riuscirono ad imporre di nuovo la monarchia assoluta, mediante la “santa alleanza” con lo Zar, con l’Imperatore austriaco e con il Monarca prussiano. Per questo bisogna dire che la Rivoluzione del 1789 fallì e che naufragarono i suoi ideali? In nessun modo.
Lo sviluppo dal faudalesimo al capitalismo ed alla democrazia borghese fu solo ritardato, ma non arrestato.
I maggiori spiriti del tempo, anche durante la reazione, continuarono ad apprezzare la Grande Rivoluzione: un personaggio dalla statura di un Hegel -per altro calunniato come “filosofo dello Stato prussiano”- era solito brindare il 14 luglio, giorno anniversario della presa della Bastiglia.
La Rivoluzione d’Ottobre è quella soluzione di continuità, da cui storicamente ha inizio l’attuale epoca della storia dell’uomo. A partire dall’Ottobre rosso comincia la lotta per l’emancipazione dalla società borghese, poichè il superamento della proprietà privata degli strumenti di produzione e dell’appropriazione privata del plusvalore prodotto socialmente (insomma, la logica negazione determinata del capitalismo), con il primo tentativo di costruzione d’una formazione sociale socialista, ha trovato una sua determinata concretizzazione storica. Va da sé che proprietari privati e direttori d’imprese non hanno mancato di contrapporsi a tale tentativo e non significa certo cadere nel disfattivo affermare che essi, posta la grande superiorità materiale su cui potevano fare affidamento, erano perfettamente in condizione di vincerla la battaglia.
Altrettanto certamente è un successo storico il fatto che coloro che hanno cominciato la costruzione di una società socialista, non solo, siano stati capaci di resistere per settant’anni e di conquistarsi un effettivo ruolo mondiale, ma che siano anche riusciti, in molti ambiti, a costruire modelli funzionanti di un nuovo insieme sociale. Questo è un successo che neppure la provvisoria rivincita del capitalismo può cancellare, dacché son stati prodotti esempi effettivi, che operano nella coscienza e possono motivare il comportamento politico.
La realtà è che il progresso nella storia non si compie in modo lineare, ma sì pagando il prezzo di sconfitte, anche, e di arretramenti; tuttavia, la storia è pure, come Hegel diceva, “progresso nella coscienza della libertà”: il che significa che quanto è stato una volta conquistato non è più dimenticato dagli uomini, ma continua ad operare nel “dominio della rappresentazione”.
Per tutti questi motivi è dalla Rivoluzione d’Ottobre che inizia l’epoca del passaggio dal capitalismo al socialismo. L’esito di questo passaggio, però, non è scontato: può riuscire, ma anche può fallire; è certo, comunque, che il suo successo presuppone che si lotti per la nuova società, dato che i proprietari capitalistici debbono contrapporsi ad ogni mutamento dei rapporti di proprietà, poiché l’essere sempre più soggetti al feticismo della valorizzazione del capitale, per essi, acquista l’aspetto del profitto.
Solo la classe, che non si appropria del plusvalore -dacché si limita a produrlo-, non ha il minimo interesse a che continui l’accumulazione di capitali; solo questa classe può cambiare il sistema, senza entrare in contraddizione con se stessa.
Coloro i quali vendono una forza-lavoro, da cui altri ricavano profitto, non hanno alcuna ragione di legare i propri interessi a quelli della difesa del capitale privato; debbono solo prender coscienza della loro condizione di classe e coglierne la radicale contraddizione con l’epoca presente.
La crisi del capitalismo è inscritta nel suo stesso sistema economico ed il trionfo su tale crisi è una questione di classe: insomma, la nostra epoca è tale, per cui o si ha fuoriuscita socialista dalla crisi o non si ha affatto fuoriuscita.
Abbiamo tutti i motivi per non dimenticare i colpi sparati dall’incrociatore Aurora, con cui iniziò la Rivoluzione d’Ottobre. Come poteva dire Goethe a proposito delle cannonate di Valmy (quando i soldati rivoluzionari francesi misero in fuga l’armata interventistica austro-prussiana), anche noi possiamo asserire: qui abbiamo l’inizio di un nuovo tempo. Le cannonate dell’Aurora inaugurarono una nuova epoca, al cui termine l’umanità o avrà dato a se stessa  un nuovo ordinamento sociale, oppure avrà perso se stessa.
Con questa alternativa ben presente ai nostri occhi, possiamo continuare a vedere nella Rivoluzione d’Ottobre il segno d’una speranza, ma anche di un dovere: quello della lotta internazionale per i diritti dell’umanità.

6° Capitolo - Crisi generale del capitalismo.
L a caduta del sistema socialista nell’Europa dell’est e il trionfo del capitalismo, come vittoriosa formazione sociale apparentemente stabile, hanno condotto al fatto che una serie di categorie storico-materialistiche per la comprensione della storia e dell’epoca siano state abbandonate in quanto giudicate inservibili.
Questo disfattismo teoretico significa che una costruzione propriamente concettuale è stata demolita senza un’effettiva verifica critica, ma semplicemente sulla base dell’apparenza esteriore.
La conseguenza è che si è, così, riconosciuta anche l’egemonia ideologica dell’avversario e si sono abbandonate posizioni strategicamente importanti al livello della visione del mondo.
Non infrequentemente tale arretramento è stato giustificato con il fatto che nel passato scienziati socialisti son caduti nell’errore di generalizzazioni grossolane ed hanno usato in modo inadeguato, se non addirittura falso, categorie discutibili, ottenendo così il risultato di discreditarle. Che tale giustificazione testimoni piuttosto di un’insicurezza soggettiva e non abbia validità logica lo si puà mostrare con un semplice paragone: chi se la sentirebbe di affermare che la sottile costruzione intellettuale di un Tommaso d’Aquino perda, essa, di valore, per l’appiattimento che subisce all’interno dell’insegnamento religioso?
Le categorie dialettiche denotano sì una realtà e la descrivono; ma lo fanno in modo tale, da lasciar trasparire, anche, la funzione che hanno nella prospettiva di una teoria dell’«insieme», orientata alla prassi e finalizzata a guidare il comportamento -funzione, che appunto quelle categorie possono avere, se e solo se vien riconosciuta la loro intima connessione con la teoria in questione. Estrapolate da tale connessione ed utilizzate isolatamente, esse perdono ogni capacità di significare la realtà e si capovolgono in strumenti di auto-accecamento -come dimostra ampiamente la storia del pensiero e delle visioni del mondo.
Perché una teoria continui ad esser vitale è sempre necessario -lo diceva Hegel- che si rinnovi la “tensione del concetto”. La conclusione è che il lavoro in ambito teoricoè un compito ineludibile per coloro, i quali puntano ad un agire politico, supportato dalla conoscenza scientifica del mondo.
Naturalmente, il lavoro nella teoria implicita che il contenuto concettuale si modifichi, modificandosi la realtà -la capacità di arricchirsi e di modificarsi è, forse, ciò che indica se un concetto continua a valere come forma del pensare, oppure se ha cessato di esser qualcosa di utilizzabile. Far sì che al livello dei concetti e della teoria il movimento della realtà trovi una propria, adeguata espressione è una pratica quotidiane delle scienze, che ha nella filosofia il suo riflesso.
Tra le formule discreditate, che giocano un ruolo centrale nella teoria storico-materialistica contemporanea, c’è quella della “crisi generale del capitalismo”.
Bisogna riconoscere che spesso questa formula è stata usata come un cliché, che mal nascondeva l’incapacità di analizzare ed elaborare a livello concettuale i processi determinati, in cui quella crisi si manifesta ma che consentono, anche, la riproduzione e perfino il consolidamento dei rapporti capitalistici di produzione. Parlare della crisi generale del capitalismo era divenuto quasi il ricorso ad una formula magica, con cui si cercava di sottrarre ad ogni dubbio  la vittoria del socialismo, pur se questa richiedeva ancora sacrifici e non era affatto scontata. Usata come incantesimo propiziatorio, che libera il pensiero dalle contraddizioni in cui noi stessi siamo invischiati, quel modo di caratterizzare l’epoca impediva l’approfondimento teorico dei processi in cui si snoda la crisi sociale e rendeva impossibile un agire politico, capace di incidere su quegli stessi processi.
Innanzi tutto, teorici marxisti caddero nell’errore d’un eccesso d’ottimismo nel valutare la forza del socialismo nella sua prima fase di costruzione: in questo modo si giunse a considerare l’esistenza stessa del campo socialista un essenziale fattore determinante la crisi generale del capitalismo.
Ma i fattori effettivamente determinanti la crisi di un sistema debbono esser ricercati in quei fenomeni, che nascono dal suo interno, dalla sua stessa essenza; fattoriesterni, infatti, divengono determinanti, solo nel caso in cui un sistema, per il suo stesso mantenimento, risulti troppo unilateralmente dipendente dalla coesistenza con e dall’aiuto di potenze esterne. Proprio questa dipendenza dall’esterno tende a divenire un interno fattore destabilizzante.
Da parte loro, i Paesi capitalistici non dipendevano unilateralmente dalla coesistenza e cooperazione con i Paesi socialisti: ben al contrario, il loro sistema poteva perfettamente prescindere da tale coesistenza o cooperazione ed, anzi, era in grado di sopportare perfino scontri militari (sia pur contenuti al di qua del confronto mondiale fra Potenze atomiche); e tutto ciò era stato, per altro, dimostrato dalle guerre in Corea e in Viet-nam e, ancor più ampiamente, dalla «guerra fredda» con la conseguente corsa agli armamenti, che poi non era altro se non una continua preparazione alla guerra e perfino quasi una sua prima fase.
Senonché, dopo il 1956 i Paesi socialisti divennero in crescente misura dipendenti dalle prestazioni economiche e, in seguito al processo apertosi con la Conferenza per la sicurezza e la collaborazione in Europa, anche dagli interventi politici delle Potenze capitalistiche, nonché favorirono lo sviluppo di ineguali relazioni economiche con le strutture egemoniche del capitalismo mondiale. E tutto ciò progressivamente divenne non un effetto della crisi dei Paesi socialisti, ma addirittura momento del loro stesso sviluppo.
Bisogna liberarsi dall’idea che la crisi generale del capitalismo vada definita mediante la correlazione con il sistema socialista: infatti, i tratti caratterizzanti quella crisi devono esser ricercati nell’essenza del processo di socializzazione capitalistico e, in definitiva, nell’inasprirsi della sua contraddizione fondamentale, quella, cioè, tra capitale e lavoro.
Ciò significa che dobbiamo rinunciare alla categoria di crisi generale del sistema capitalistico ? Oppure che essa manchi di un qualunque senso effettivo, che possa e debba esser conservato, una volta liberata quella categoria dal suo appiattimento? Non dice proprio nulla della situazione del sistema sociale, in cui viviamo e che -apparentemente con nuove forze- continua a dar l’impronta di sé al mondo intero, ad influenzare le condizioni della riproduzione di Paesi non capitalistici -come la Cina e il Viet-nam- o precapitalistici -come in Africa-?
Una formazione sociale, -che produce oggi distruzioni ambientali, guerre, impoverimento di massa e svuotamento di senso della vita umana-, come altrimenti potrebbe essere caratterizzata se non da un concetto, che esprime il divorzio radicale fra scopi e realtà sociale ed il rompersi stesso del tessuto sociale?
Quella di crisi generale del capitalismo è una categoria storica, che ci dice che le sue contraddizioni interne -sulle quali poteva ancora esser esercitato un controllo nella fase di sviluppo del sistema sociale-, oggi, nella sua fase matura, non generano altro che scompensi gravidi di pericoli tra le condizioni d’esistenza dell’umanità.
Crisi generale significa che le contraddizioni capitalistiche hanno ormai assunto forme, che derivano dal loro intrecciarsi, influenzarsi e incastrarsi l’un nell’altra, generando così un sistema, in cui caoticamente i singoli elementi entrano in conflitto l’un con l’altro.
La categoria in questione non appartiene al vocabolario marxista, quale si trova nelle opere di Marx e di Lenin; e ciò perché le manifestazioni di una crisi generale del capitalismo sono apparse, solo, nella sua fase imperialistica con l’acuirsi profondo delle sue contraddizioni interne.
Quando Lenin parla di crisi del capitalismo si riferisce alla prima guerra mondiale ed alle acuite contraddizioni economiche che ne erano la conseguenza, nonché alle contrapposizioni politiche fra Stati capitalistici.
Certamente in Lenin vi sono numerose indicazioni circa il fatto che “l’imperialismo è entrato in un’epoca di crolli giganteschi e di violente decisioni e crisi militari a livello di massa”, di cui il 1918 poteva esser diagnosticato come solo l’inizio[43] . Inoltre, in una comunicazione al Comitato esecutivo del Comintern, nel 1920, Lenin elencava una serie di decisioni, che caratterizzavano in tal senso la situazione, sempre ovviamente nel contesto del quadro internazionale.[44]
Il concetto di crisi restò, comunque, confinato all’ambito economico-politico ed usato, solo, in riferimento a situazioni spazialmente circoscritte.
Anche Stalin, nel 1925, disse con tutta chiarezza che la disgregazione del capitalismo non ne imperiva, tuttavia, un ulteriore sviluppo, anche se ciò avrebbe comportato la creazione di relazioni, che avrebbero reso più acute le contraddizioni basilari del capitalismo; Stalin parlò, perfino, di una fase di stabilizzazione del capitalismo.[45]
Per la prima volta nel 1934, analizzando nel rapporto al XVII Congresso del Partito la crisi capitalistica del momento, Stalin disse che si trattava della crisi più seria, che aveva ormai investito tutti i Paesi capitalistici senza eccezione, esattamente perché “la crisi industriale cresceva sulla base della generale crisi del capitalismo.”[46]Comunque, neanche in quell’occasione, si chiariva cosa comportasse l’aggettivo generale.
Dall’insieme risulta che la combinazione di crisi industriale ed agricola per il mantenimento di altri prezzi delle merci ne costituiva un aspetto essenziale, così come il montare del fascismo e del pericolo di guerra; Stalin, comunque, ammoniva, sulla scorta di Lenin, a non considerare la crisi della borghesia come priva di vie d’uscita.[47]
“Crisi generale del capitalismo” non significa che il sistema sociale capitalistico si trovi in una processo di auto-dissolvimento, ma solo che le conseguenze delle sue interne contraddizioni saranno scaricate sempre più pesantemente sulle masse. Il capitalismo non crolla da sé per la sua crisi, ma se -e solo se- le masse si costituiscono come soggetto alternativo, come forza che lotta per un nuovo ordinamento sociale.[48]
Ma cosa distingue, dunque, quella ‘generale’ dalle crisi cicliche, che hanno accompagnato ed accompagnano tutto lo sviluppo del capitalismo e che son l’espressione stessa della dinamica delle sue contraddizioni interne?
Il passaggio ad un’attività economica che si estende sul piano mondiale -in particolare, l’attività del capitale finanziario- ha come conseguenza l’esplodere più facile e rapido di crisi regionali; è questo che cosegue dall’universalità economica, che si costituisce col mercato mondiale.
La reciproca dipendenza delle economie nazionali, ma anche dei singoli settori economici, fa crescere la possibilità di esser colpiti dalla crisi del sistema, i cui meccanismi di ricaduta si svolgono, in una crescente dimensione, spontaneamente (“naturalmente”), ad opera delle leggi del libero mercato.
Di qui la necessità, al fine di gestire la crisi all’interno del sistema, di far ricorso ad Istituzioni ed a strumenti, che riescano ad introdurre momenti di direzione e di sistematicità (ad es., gli interventi delle Banche centrali sul mercato finanziario, per il controllo dei cambi), allo scopo di attutire gli scossoni che volta a volta si determinano.
Ma quando un sistema non può più funzionare sulla base delle sue proprie leggi strutturali ed ha bisogno, invece, di ricorrere a strumenti che quelle leggi contraddicono, allora esso dà  prova della sua instabilità e riesce a conservare un’apparenza di stabilità solo per produrre nuove contraddizioni (le quali, a loro volta, genereranno nuova instabilità ad un livello crescente, e così via).
Non è dubbio che un simile ordinamento economico è in grado di conservarsi a lungo nel tempo -se non altro quando può fare affidamento su grandi riserve di ricchezza sociale e quando non incontra, al proprio interno, un nemico combattivo. In ultima istanza, però, esso si mantiene, solo, facendo gravare, via via maggiormante, sugli strati più deboli del sistema sociale il costo dei tentativi di equilibrare le proprie contraddizioni: un risultato di ciò è l’inasprimento delle interne distanze sociali. Tuttavia, questo è, per quanto fondamentalesolo un aspetto -quello economico- della crisi del sistema.
Tale crisi in tanto può essere generale, in quanto dall’ambito dei rapporti di produzione, le contraddizioni si espandono fino ad investire il complesso della vita sociale.
L’aggravarsi delle crisi economica dal punto di vista degli interessi della classe dominante ben presto si accompagna allo smantellamento delle strutture politiche equilibranti, che dovrebbero assicurare l’integrazione degli sfruttati e dominati all’interno del sistema. In luogo di una sia pur limitata partecipazione al potere politico, mediante istituzioni democratiche, va sempre più affermandosi la subordinazione ad istanze amministrative, fino all’instaurazione di un autentico ordine statale poliziesco e di un imperscrutabile, anonimo meccanismo di regole e di sistemi di controllo.
Non più organi statali sottoposti a limiti costituzionali, ma sì aumentato ruolo del potere finanziario in decisioni, che riguardano direttamente la vita dei cittadini (ad es., a proposito dell’installazione di impianti tecnicamente rischiosi; di piani commerciali; di strategie di ricerca; di investimenti, con le connesse implicazioni occupazionali, ecc.).
La crisi della democrazia è un aspetto essenziale della crisi del capitalismo e, di qui, estensione della corruzione, della perdita di rispetto per l’ordinamento giuridico, di una insicurezza giuridica progressivamente crescente.
Se, all’interno, la dimensione politica della crisi economica assume l’aspetto della crisi della democrazia, all’esterno invece, assume quello di un carattere sempre meno pacifico delle relazioni internazionali.
La connessione di espansione economica e militare, di crisi economica e di avventure armate è talmente sotto gli occhi di tutti, che non va neppure dimostrata: la guerra non è che la forma manifesta della crisi del capitalismo in epoca imperialistica.
L’abbattimento o lo svuotamento dei diritti democratici, l’estendersi in ambito politico della crisi economica, tutto ciò consegue all’inasprimento delle interne distanze sociali, che -a loro volta- sono il frutto di una gestione della crisi nell’interesse della classe dominante. Questo trasferimento dei guasti della crisi significa abbassamento dello standard di vita in alcuni Paesi, aumento dello sfruttamento della forza-lavoro, aumento crescente della disoccupazione e, per quanto possibile, esportazione dell’immiserimento in Paesi poso sviluppati.
Regressione sociale, abbandono della gioventù, crescita della criminalità e del tasso di violenza quotidiana, immigrazione con conseguenti difficoltà di inserimento: ecco altre conseguenze  della crisi sociale.
Così la società perde la sua capacità di integrare. Gli individui vengon ricacciati nel chiuso e nell’isolamento della loro individualità; si disgregano i legami familiari e comunitari, dacché vengono a mancare scopi generali, capaci di legare e responsabilizzare; sempre più misere si fanno le attese per il futuro ed il singolo non vede più la possibilità di un proprio ruolo positivo nella costruzione dell’insieme sociale. Sollecitazioni privatistiche isolano sempre di più dalla vita pubblica; la stessa identità personale si fa problematica e si finisce col ricercar sicurezza aderendo a sette o piccoli gruppi, anche passando ripetutamente dagli uni agli altri.

Tutto l’insieme dei valori che orientano la vita si disgrega e ciò che resta è la vuota parola libertà, all’interno di un realtivismo pluralistico e scettico, nonché la facile disponibilità alla rinuncia a qualsivoglia opinione in nome della novità, dell’ innovazione.
Ma esattamente il disperdersi di qualunque visione del mondo costituisce il presupposto della manipolazione delle coscienze, che si sostituisce all’autonoma capacità di giudizio critico: è così che la crisi sociale diviene, anche, crisi del senso stesso della vita. Tale perdita di senso porta con sè anche il dissolversi delle tradizioni culturali, che fanno da tessuto connettivo di una società.
Costumi, stili di vita, coscienza storica, contenuti culturali illanguidiscono e vengono sostituiti da mode, che rapidamente si esauriscono -mode, che ovviamente non sono in grado di dare agli uomini stabilità e consistenza di concezione della vita.
Con l’abbandono di obiettivi culturali di fondo, anche la scuola scade a luogo in cui si accostano l’uno all’altro apprendimenti particolari che, però, non hanno più un’anima, un punto di riannodo, che sia capace di dar loro un senso; e così il pensiero non è più in grado di comprendere e ordinare, all’interno di una visione sistematica, la massa sempre crescente delle scoperte e innovazioni, che son prodotte dalla RTS. A questo punto, la crisi culturale diviene anche crisi delle capacità tecniche, per soddisfare i nostri bisogni e per strutturare il nostro rapporto con la natura.
Ed ecco come il cerchio si chiude: sotto la pressione della legge fondamentale del capitalismo -la necessità dell’accumulazione capitalistica-, il crescente sviluppo delle capacità tecnico-scientifiche conduce ad un perturbamento dei rapporti naturali, gravido di pericoli per le stesse condizioni della vita umana.
Lo sfruttamento spontaneo delle risorse naturali non solo modifica lo stato biologico della terra (ad es., abbattimento di foreste o perdita di risorse d’acqua), ma, anche, muta le condizioni stesse dell’ illimitata produzione dei beni della civiltà (ad es., mediante il dannoso inquinamento atmosferico, il buco dell’azono e l’ accumulo di residui inquinanti).
Per la prima volta nella storia, si mostra oggi una fondamentale contraddizione naturalistico-dialettica del capitalismo: quella tra crescita economica e disastro ecologico. Questa è, appunto, la crisi dei rapporti fra uomo e natura o crisi ecologica.
Il concetto «crisi generale del capitalismo» acquista tutto il suo senso solo sulla base di quanto abbiamo detto; si tratta di una categoria, che appartiene alla storia delle formazioni sociali.
Se ogni formazione sociale conosce periodi di crescita (quando lotta contro una preesistente formazione, in via di decadenza), di maturazione (quando il suo sviluppo coincide con le richieste progressive dell’umanità) e di decadenza (quando si contrappone con la sua forma di sviluppo a finalità sociali umanistiche), il capitalismo -la cui forma di sviluppo è quella delle crisi cicliche-, una volta entrato nella fase della sua decadenza, non conosce più crisi in quanto momenti di passaggio ad un più alto livello d’organizzazione del sistema produttivo, ma sì in quanto momenti di disgregazione  delle condizioni complessive della vita sociale e, così, è lo stesso sistema capitalistico, che taglia l’erba sotto i piedi a quelle che sono le condizioni della sua riproduzione.
Di conseguenza, la crisi non è più solo una generale crisi economica, una crisi dell’ordinamento economico (che potrebbe esser valutata ancora come ciclica e, dunque, destinata ad esser superata); sì piuttosto è la crisi generale del sistema sociale. Essa ne abbraccia tutte le manifestazioni ed opera guasti in progressione. Questi sono i segni caratteristici di tale situazione:
- crisi economica;
- crisi politica della democrazia fino a forme di fascismo;
- crisi politica fino a possibilità di guerra;
- crisi sociale;
- crisi di senso;
- crisi culturale e d’orientamento;
- crisi delle capacità tecniche;
- crisi ecologica.
E’ chiaro come i vari momenti di questa crisi generale agiscano l’un sull’altro, sulla base delle fondamentali contraddizione e crisi economiche.
Nella stessa misura in cui quello di crisi è un concetto economico - “la crisi ha origini interne, nei modi di produzione e quindi di scambio, e non in fatti politici e giuridici...”[49]-, esso deve ampliarsi a concetto, che designa un’intera epoca storica e non si chiude nel ristretto ambito economico, poiché “è difficile nei fatti separare la crisi economica dalle crisi politiche, ideologiche ecc., sebbene ciò sia possibile scientificamente, cioè con un lavoro di astrazione.”[50]
E’ appunto l’amalgamarsi dei vari momenti della crisi, che la rende una determinata fase storica dello sviluppo capitalistico e, dunque, la eleva a crisi generale.
Insomma, l’espressione «crisi generale del capitalismo» ha un senso teoricamente preciso, da cui una teoria materialistica della storia non può facilmente prescindere, qualora non voglia sottrarsi al compito di dare una caretterizzazione complessiva della fase attuale del capitalismo.
Che questa fase non sia necessariamente di breve durata e che non comporti l’automatico crollo del capitalismo ed il passaggio al socialismo, Lenin lo ha già detto con estrema chiarezza.
“Compagni, siamo così giunti alla questione della crisi rivoluzionaria, che costituisce il fondamento della nostra azione rivoluzionaria. E qui bisogna indicare anzitutto due errori molto diffusi. Da un lato, gli economisti borghesi presentano questa crisi come un semplice fenomeno di «irrequietezza», secondo l’elegante espressione degli inglesi. Dall’altro, i rivoluzionari si ingegnano talvolta di dimostrare che la crisi è assolutamente senza sbocco. Questo è un errore. Nessuna situazione è assolutamente senza sbocco. La borghesia si comporta come un rapinatore sfrontato, che ha perduto la testa, fa una sciocchezza dopo l'altra, aggrava la situa­zione e affretta la sua rovina.  Tutto questo è vero.  Ma non si può «dimostrare» che la borghesia non abbia assolutamente alcuna possi­bilità di addormentare una minoranza di sfruttati con qualche conces­sione e che non riesca a schiacciare questo o quel movimento, questa o quella insurrezione di una parte degli oppressi e degli sfruttati. Sa­rebbe pura pedanteria, significherebbe baloccarsi con le parole e le idee, cercare di «dimostrare» in anticipo che la situazione è «assolu­tamente» senza sbocchi.  In questo e in altri problemi del genere una «dimostrazione» effettiva può venire soltanto dalla pratica.”[51]
La pratica -vale a dire l’organizzazione e la mobilitazione delle masse, che sono le vittime della crisi; la formazione di un soggetto collettivo, che si assuma il compito di battere questa società produttrice di crisi. E questo è un compito lungo, che non va mai dismesso.

7° capitolo - Modernizzazione o lotta di classe?

E’ una giusta osservazione che “la critica sociale non è mai riuscita ad armarsi con tanta rapidità, come nei momenti di crisi sociale”. E certamente, la coscienza che il sistema economico-sociale capitalistico ha prodotto di se stesso non ha mai offerto lo spazio ad una critica sistematica di principio.
“Un pragmatismo, incapsulato entro gli eternizzati confini dell’economia di mercato e della democrazia” ha sempre dominato le teorie di provenienza borghese, così come le molteplici varianti del revisionismo e riformismo socialdemocratici - a partire da Bernstein, fino ad arrivare a Karl Schiller, Helmut Schmidt ed Oskar Lafontaine (per tacere del tutto dell’ideologia di retroguardia, che domina la dirigenze del PDS[52]).
Una critica radicale al sistema capitalistico in quanto tale, invece, poteva scaturire da una contrapposizione radicalmente dialettica (cioè, capace di pensare lanegazione determinata del capitalismo), giungendo, così, ad una “differenza rispetto al tutto” (Th. Adorno).
Non è questo il momento di soffermarsi sugli errori e sui punti dubbi, che caratterizzano le “teorie critiche”[53]. Dopo tutto, anche quando polemizzavano con grande veemenza politica contro la realtà sociale del “socialismo realmente esistente” e svolgevano argomentazioni anti-comuniste, quelle teorie potevano vivere per il fatto che vi era stata la Rivoluzione d’Ottobre, che aveva dimostrato la possibilità storica di un’alternativa al capitalismo e che tale alternativa era -almeno come tendenza- politicamente realizzabile; insomma, quelle teorie vivevano poiché il fatto stesso che la Rivoluzione vi fosse stata offriva possibilità d’ulteriori sviluppi.
Inoltre, il sistema degli Stati socialisti -per quanto in maniera incompleta- costituiva una forza politica a livello mondiale, la quale -con la sua sola esistenza- riusciva ad avere un’influenza tutt’altro che trascurabile sui processi sociali delle metropoli capitalistiche e, più ancora, dei Paesi del Terzo mondo liberatisi dal colonialismo.
E’ anche vero, tuttavia, che l’esistenza dell’Unione Sovietica e del <campo socialista> faceva organicamente parte -col ruolo di contropotere o antitesi-  del concetto di attuale crisi sociale o, più specificamente, di crisi generale del capitalismo: per quanto ciò fosse del tutto corretto dal punto di vista descrittivo, era tuttavia falso dal punto di vista concettuale.
Concettualmente falso, poiché la crisi generale del capitalismo era, invece, da intendere come, costitutivamente, la manifestazione esteriore  delle contraddizioni interne del sistema capitalistico, nella fase di sviluppo della RTS, cioè del rivoluzionamento delle forze produttive. Le difficoltà esterne dovevano valere, invece, solo come fenomeno aggiuntivo.
La scomparsa dell’antitesi -cioè del <campo socialista>- e l’estendersi del dominio capitalistico ormai senza alcun impedimento su tutto il sistema mondiale degli Stati, lascia i principali critici del sistema senza più argomenti.
Gli stessi ideologi della “terza via” vedono dissolversi la loro tematica, esattamente perché non esistono più le due vie tra le quali inserire la loro prospettiva.
Insomma, il concetto di crisi, assunto del tutto empiricamente, non è più utilizzabile. E chi se la sentirebbe di dichiarare al vincitore, in un confronto mondiale senza lotta, che proprio la sua vittoria è un momento della crisi, se si considera l’epoca nel suo insieme? Chi volesse così mettere le cose sulla testa (o forse anche sui piedi), dovrebbe essere un maledetto dialettico, dato che il common sense si compiace di parlare di “fine della storia”. Robert Kurz, invece, non ha paura di porsi sul piano delle sottigliezze dialettiche.
Egli non intende accettare “la condanna della teoria in senso forte” e neanche vuol limitarsi a lamenti; egli vuole piuttosto lacerare il manto della superficie e superare l’apparenza fenomenica, per riuscire, così, a cogliere strutture e connessioni, che gli consentano di spiegare i processi; il suo interesse epistemologico lo spinge ad andare fino in fondo: - la sua mancanza di riguardo nei confronti della limitatezza sociologica mi risulta in effetti simpatica; ciò non di meno son costretto a contraddirlo.
Proprio per il fatto che condivido parzialmente i suoi giudizi, temo proprio che la strada della verità richieda che quegli stessi giudizi non restino senza replica: verità parziali non sono ancora una verità -e, perfino, facilmente si capovolgono in mancanza di verità; nella contraddizione si costruisce la concezione dell’insieme. Tenterò, ora, di condensare sotto forma di tesi alcuni punti di vista di Kurz (pur rischiando, così, di impoverirli), allo scopo, poi, di farne risultar con chiarezza le antitesi.
1Tesi: Il capitalismo ed il socialismo (di Stato) finora avutisi, entrambi, sono momenti di un’epoca, la cosiddetta <modernità>. Quest’ultima è determinata dalla rivoluzione tecnica, la quale -dalla fine del XVIII° secolo- ha prodotto una crescente accelerazione nello sviluppo di un’esperienza tecnica sempre più produttiva. Il periodo compreso tra il 1789 e il 1989 va caraterizzato come quello della dinamicizzazione del capitalismo. Nel corso di questo processo sempre di più la crescente produttività e accumulazione di capitale ha consentito la sostituzione di lavoro umano con strumenti scientificamente elaborati.

Ha ragione Kurz quando sottolinea che ogni formazione sociale conserva in sé per lungo tempo elementi della formazione precedente e che, prima del proprio trapasso, contiene, anche, elementi della formazione sociale successiva. Ha anche ragione quando sottolinea che le varie fasi di una stessa formazione sociale non son tra loro divise da confini netti, ma che invece presentano momenti di aggancio dall’una all’altra. Il carattere di un’epoca, dunque, può essere fissato solo mediante l’astrazione teorica della sua essenza e solo la dialettica di essenza e parvenza consente di coglierne movimenti e tendenze.
L’essenza del capitalismo è l’accumulazione del capitale. “L’accumulazione o produzione su scala crescente... diviene... una necessità per ogni capitalista individuale. Il continuo accrescimento del suo capitale diviene condizione per la sua stessa conservazione.”[54] 
Il capitale è effettivamente tale solo nelle mani del capitalista, il quale -per necessità strutturale- non può far altro che reinvestire il plusvalore ottenuto in vista di un’ulteriore produzione di plusvalore. “Tutti i metodi per la produzione di plusvalore sono, anche, metodi per l’accumulazione e, a sua volta, ogni ampliamento dell’accumulazione è un mezzo per lo sviluppo di quei metodi.”[55]
All’interno del capitalismo, è certamente contraddittoria rispetto al sistema una pianificazione sociale che, tra l’altro, destini il plusvalore alla soddisfazione delle necessità sociali, ovvero, una pianificazione che non lo utilizzi necessariamente in vista della produzione di ulteriore plusvalore. L’immediato abbattimento di ogni progresso sociale e prestazione culturale dello Stato socialista, dopo l’annessione della DDR (come d’altronde è avvenuto in ogni Stato ex-socialista), fornisce di ciò abbondanti esempi.
Allo stesso modo, in cui ciò mostra che gli Stati socialisti potevano prevedere una divisione del prodotto del lavoro sociale sottratta alla legge capitalistica della “riproduzione su scala allargata” e, dunque, ad una accumulazione sempre riproducentesi.
Non è dubbio che il prezzo da pagare era il ritardo della produttività nella concorrenza con il sistema capitalistico, nel quale le esigenze del reinvestimento di capitale privato debbono prevalere sulla crescente soddisfazione dei bisogni sociali.
Quella dei due sistemi non era, però, la concorrenza tra sfere di circolazione e consumo, isolate l’una dall’altra e, dunque, non significava l’astratto confronto fra ricchezze sociali.[56]
Vi era, piuttosto, un intreccio a livello di mercato mondiale, il quale ultimo -per parte sua- funzionava solo sulla base delle leggi capitalistiche, che imponevano, dunque, la propria norma anche sulle possibilità di concorrenza delle economie socialiste. Del tutto indipendendemente dall’handicap di partenza -di cui dice la Tesi 3-, le società socialiste non erano assolutamente in grado di affrontare una concorrenza secondo le regole del gioco capitalistico: avrebbero dovuto adeguare il proprio commercio estero a condizioni, contraddittorie rispetto al loro proprio sistema di distribuzione del plusvalore.
E’ anche giusto dire che, dal 1917 al crollo del socialismo, non si può parlare di coesistenza fra sistemi sociali contraddittori, ma ugualmente consolidati; la situazione, piuttosto, era descrivibile come esistenza di una società socialista in costruzione (con tutte le difficoltà e contraddizioni del periodo di transizione), all’interno di un sistema mondiale organizzato capitalisticamente, di cui la prima rappresentava certo un momento contraddittorio, nel quadro, tuttavia, di una persistente egemonia del capitalismo.[57]
Una ideologia legittimante, che mascherava il processo di costruzione del socialismo, con tutte le lotte implicite, spacciandolo per realizzazione già avvenuta del socialismo stesso (in tal modo non potendo, ovviamente, spiegarne gli aspetti di immaturità, di debolezza e di squilbrio), non era certamente in grado di assicurare una comprensione dialettica della situazione mondiale.
Analogamente, fu messa del tutto da parte la costruzione di una coscienza politica, quale necessario presupposto per una democrazia che si costituisse nella lotta di classe; fu, invece, favorita l’ affermazione di una visone del mondo, che puntava sull’addottrinamento e sull’uniformizzazione.
Ciò premesso, sussumere immediatamente sotto la categoria di moderno sia il capitalismo che il socialismo (di Stato) significa porsi fuori da una concezione dialettica del processo storico.
Il fatto che la formazione sociale a cui noi apparteniamo sia sempre (anche dopo la Rivoluzione d’Ottobre) capitalistica, non esclude, ma addirittura include - in forza della figura logico-dialettica di quell’ universale che non coincide mai con le sue proprie figure[58]- il costituirsi internamente del suo stesso opposto; né impedisce che l’universale contenga in sé tale opposto, fino a che quest’ultimo non si rafforzi tanto da dar luogo ad una nuova formazione sociale.
Dunque, tale universale, come diceva Hegel, contiene sé e il proprio opposto: ed, appunto, analogamente il capitalismo nella fase sviluppata della propria contraddittorietà interna contiene se stesso (nella varietà delle proprie forme) ed il proprio opposto, cioè il socialismo.[59]
Il concetto di <modernità> è troppo grossolano e generico per riuscire ad esprimere adeguatamente il movimento sociale e politico mondiale successivo alla Rivoluzione d’Ottobre. E ciò perché tale concetto si limita allo stadio dello sviluppo delle forze produttive e del modo di produzione (compresa la sovrastruttura ideologica), ma non riesce ad abbraccaire quello dei rapporti di produzione.

2Tesi: il movimento dei lavoratori fa parte della modernità. I suoi scopi ed il loro (parziale) raggiungimento son elementi dell’economia capitalistica come sistema. Ogni vittoria del movimento dei lavoratori ha comportato una conferma ed un ulteriore sviluppo del capitalismo, in quanto stimolo a realizzare nuovi livelli di modernizzazione. Proprio perché teorico della classe lavoratrice, Marx lo è anche della modernizzazione e, dunque, si colloca all’interno del capitalismo; e ciò mentre la sua critica radicale della <forma-valore> anticipa, invece, una alternativa storica.

Il punto di partenza di questa tesi è triviale: è noto, infatti, che -per la loro stessa natura- capitalisti e proletari sono figure, reciprocamente condizionantesi, interne al capitalistico, nel quale lavoro salariato e capitale rimandano l’uno all’altro, essendo gli elementi centrali del sistema produttivo.
“Nella stessa misura - si legge nel Manifesto di Marx ed Engels- in cui si sviluppa la borghesia (dunque, il capitale), si sviluppa anche il proletariato, la classe dei moderni lavoratori, i quali vivono finché trovano lavoro e trovano lavoro, fin tanto che il capitale si accresce.”[60]
Se la modernità la si definisce come l’epoca della formazione sociale capitalistica (che si va costruendo a partire dal tardo feudalesimo e che trova compimento nelle rivoluzioni borghesi del XVII° e XVIII° secolo), allora è ben certo che il movimento dei lavoratori sia parte della modernità.
Il costituirsi stesso della classe dei lavoratori salariati appartiene al processo di industrializzazione; il miglioramento delle condizioni materiali di vita dei lavoratori sta in una stretta connessione con il progresso tecnico, anche se senza lotta dei lavoratori di certo non si sarebbe avuto né si avrebbe attualmente.
Se tutto ciò è corretto, non lo è, invece, mettere semplicemente insieme classe capitalistica e classe lavoratrice nei rapporti capitalistici di produzione, in modo da ridurre la classe lavoratrice a mèro coagente delle crisi economiche capitalistiche.
Indiscutibilmente, il lavoratore salariato è anch’esso articolazione e, in questo senso, protagonista del sistema capitalistico, che, mediante il salario, gli dà la possibilità di vivere e riprodursi e non c’è “gran rifiuto”, che possa liberare il lavoratore dalla sua dipendenza dal sistema (come sognava, invece, H. Marcuse)[61]
Il fatto che lavoro salariato e capitale stiano in un rapporto contraddittorio insanabile -per quanto ciò possa momentaneamente non apparire- , sia pure in altro modo, è confermato dallo stesso Kurz nella Tesi 4. E’ questa una condizione oggettiva che fa tutt’uno con la immanente costrizione all’accumulazione di capitale, cioè con l’appropriazione privata di plusvalore.
La classe lavoratrice, da un lato, con il suo fare sollecita l’accumulazione ma, dall’altro, è ciò che si oppone contraddittoriamente alla stessa accumulazione. Nei momenti culminanti della crisi, tale opposizione si manifesta appieno e può assumere la forma dell’antagonismo politico. La politicizzazione della contraddizione sociale raggiunge la sua pienezza solo in connessione con una crescente consapevolezza delle condizioni di nascita e di svolgimento della crisi; è importante sottolineare che ciò non richiede necessariamente una corretta, adeguata conoscenza, dacché anche una consapevolezza in qualche modo falzata può avere esiti politici, pur se -è ovvio- nella prospettiva di finalità e secondo un orientamento falsi. La politicizzazione, dunque, si collega a forme di interazione e di organizzazione sociali, in cui si costruisce la coscienza e può nascere un potere collettivo.
Certamente, in quanto “teorico della classe lavoratrice”, Marx ha riflettuto organicamente su questi processi, che comportano mutamenti sistematici nella classe e nelle forme d’organizzazione del movimento. Non è giusto, dunque, sostenere che, in Marx, la teoria economica della forma-valore non si leghi organicamente al programma politico della lotta di classe. Né è corretto concepire la teoria leniniana del Partito o quella gramsciana dell’ “intellettuale organico” come deviazioni dalla concezione marxiana: si tratta, piuttosto, rispettivamente di una sua ulteriore elaborazione nella fase rivoluzionaria e di un suo riadattamento in condizioni, invece, di controrivoluzione.
Sembra a me che Kurz rielabori lo status storico (e, direi, filosofico-storico) del movimento dei lavoratori in una falsa prospettiva sociologistica, legata al concetto di modernizzazione; operazione, questa, che non può esser supportata dalla così detta evidenza della “scomparsa del proletariato” nelle metropoli capitalistiche.
La contraddizione, infatti, tra capitale e lavoro salariato non è superata ma ha, solo, mutato le proprie forme (dal che, certamente, deriva la necessità di nuove strategie per la costruzione della coscienza di classe). Ma, inoltre, quella contraddizione si ripropone su un nuovo terreno, nella forma di uno scarto tra crescente aumento della produttività nelle società industrialmente evolute ed immiserimento crescente nei Paesi arretrati.
Già Marx colse questa contraddizione quale inevitabile conseguenza della sottomissione del lavoro al dominio del capitale nello sviluppo delle forze produttive: “Le legge, secondo cui una massa sempre crescente di strumenti di produzione può esser messa in movimento da una massa analogamente decrescente di lavoro umano -grazie al progresso nella produttività del lavoro sociale- ... determina che all’accumulazione del capitale corrisponda un’accumulazione della miseria.”[62]
E che, in questo processo, il proletariato sia, ad un tempo, protagonista dei rapporti di produzione capitalistici ma, anche, loro elemento antagonistico, è quanto Marx sottolinea, in critica a Proudhon, dando una formulazione dialettica  dei rapporti di produzione: “Di giorno in giorno diviene sempre più chiaro che i rapporti di produzione in cui  vive la borghesia non hanno un carattere unitario e semplice, sì piuttosto duplice. Che quegli stessi rapporti, in cui si produce la ricchezza, si produce anche miseria; che nel quadro dei rapporti in cui le forze produttive si sviluppano senza difficoltà, si sviluppa anche una forza repressiva; che quegli stessi rapporti in tanto possono produrre la ricchezza borghese -dunque, la ricchezza della classe borghese-, in quanto continuamente distruggono la ricchezza del singolo borghese ed in quanto aumentano costantemente il numero dei proletari.”[63]

3Tesi: La storia dell’Unione Sovietica dopo la Rivoluzione non è quella di un tentativo (insufficiente) di costruzione del socialismo; s^ piutosto la storia della modernizzazione di un Paese arretrato, per ricongiungersi, mediante la pianificazione statale, all’economia di mercato.

Certamente è vero che, al momento della Rivoluzione d’Ottobre, i rapporti economici e politico-sociali, come anche il livello culturale di massa (si pensi all’analfabetismo!), non erano maturi per il passaggio al socialismo, partendo da uno sviluppo capitalistico solo iniziale e segnato, per altro, dall’impronta dell’assolutismo zaristico-feudale; in nessuna misura quelle condizioni corrispondevano, per altro, alle premesse obiettive, che per un tale passaggio postula la teoria marxista.[64]
Non ci soffermeremo, qui, a discutere i motivi, per cui si ebbe tuttavia la Rivoluzione e per cui addirittura vinse. E’ comunque fuori discussione che, dopo la Rivoluzione, il primo, dominante compito del regime sovietico era perseguire una strategia di industrializzazione e innalzamento di livello tecnologico, che fosse capace di superare l’arretratezza del Paese e di elevare progressivamente il livello culturale di massa; si aggiunga a questo la necessità di attrezzate lo Stato per la difesa da aggressioni militari esterne. Si tratta di obiettivi, che furono raggiunti -ma pagando un grande prezzo.
Rientra in quel prezzo anche la rinuncia ad alcune finalità, essenzialmente proprie del socialismo (ad es., una concezione non borghese della democrazia), e la loro sostituzione con una dittatura dispotica e paternalistica (allo scopo di non sviluppare a dismisura la discussione delle posizioni di Robert Kutz, tralascio qui la pur necessaria analisi differenziata del periodo che, con falsificante personalizzazione, vien detto stalinismo).
E’ unilaterale e, dunque, falso ridurre  alla categoria generale di modernizzazione tutto il processo, che iniziando dal 1917, arriva fino allo scoppio della seconda guerra mondiale. Le strategie basate sull’imperativo del raggiungimento degli obiettivi costituivano, solo, un aspetto essenziale della costruzione dell’Unione Sovietica ed erano, naturalmente, imprescindibili per poter cominciare la costruzione di uno Stato, fondamentalmente orientato verso il socialismo.  La sincerità di questo scopo non potrei porla in questione: un’indicazione di ciò è iol tono della Costituzione del 1937.
Ma già con i primi Decreti del governo risoluzionario del 1917 non solo si cominciò ad assicurare la proprietà comune degli strumenti di produzione, ma anche ad organizzare servizi sociali in modo adeguato ad una prospettiva socialista e capace di contribuire alla sua progressiva realizzazione. Lo stesso vale per aspetti importanti dell’ordinamento giuridico, ad es., il diritto del lavoro.[65]
La specificità della società sovietica si mostra adeguatamente nel fatto che dovette raggiungere livelli di sviluppo, che appartengono propriamente alla formazione sociale capitalistica, ma dovette farlo nel corso del passaggio al socialismo.
I problemi politico-economici e le contraddizioni specifiche, che comporta un tale ‘salto’ di fasi storiche intermedie, non sono stati oggetto di riflessione teorica né in Unione Sovietica né altrove. Va da sè che un tale studio sarebbe fondamentale per comprendere le particolarità del primo tentativo di costruire una società socialista, nel contesto -per di più- di un mondo dominato dal capitalismo, e per far emergere le cause del suo fallimento finale.
Dà maggiore importanza a tale compito il fatto che analoghi problemi si pongono in tutte le società socialiste, che sono sorte dopo la 2° guerra mondiale in regioni arretrate del mondo (Cina, Nord-Corea, Viet-nam, Cuba).

4Tesi: Si può caratterizzare la fase attuale del capitalismo con la crescita della produttività e la conseguente diminuzione di forza-lavoro umana, ché viene da quella sostituita. La crescente efficienza degli strumenti tecnici, in conseguenza della cosiddetta RTS, consente un aumento del plusvalore insieme con la diminuzione del costo del lavoro. Oggi, il capitale è solo in minima parte orientato allo sfruttamento del lavoro astratto, per cui va considerata obsoleta la tendenza all’espansione imperialistica.

Con questa tesi - dalla valutazione del socialismo quale si è avuto finora, delle sue cause e del suo fondamento teorico, passiamo al giudizio sulla situazione attuale. E’ certa la sensatezza del modo in cui Kurz caratterizza il capitalismo attuale -che, per altro, corrisponde all’analisi di Marx, che abbiamo precedentemente visto. Quando Kurz scrive che il capitalismo “non ha solo la tendenza a nutrire con tutta la forza-lavoro del mondo la sua astratta e redditizia macchina economica, ma anche quella opposta a sostituire, pressato dalla concorrenza in produttività, la forza-lavoro umana con strumenti prodotti dalla scienza”, questo non è altro che il modo attuale di funzionare della legge, “per la quale la sovrappopolazione relativa -o esercito industriale di riserva- equilibria ampiamente l’accumulazione.”[66]
Tanto meno il plusvalore reinvestito deve coinvolgere l’<esercito industriale di riserva>, tanto più cresce la miseria di quanti vivono del loro salario.
“L’accumulazione della ricchezza da un lato equivale, dunque, ad accumulazione di miseria, ad angoscia per il lavoro, incertezza, abbrutimento e degradazione morale dall’altro.”[67]
Oggi noi ci troviamo nel bel mezzo di questo passaggio ad una nuova fase del capitalismo, che è resa possibile dalla RTS; la distruzione di forza-lavoro vivente che ciò comporta si dispiega in momenti come: la riduzione razionale di posti di lavoro, la disoccupazione strutturale nei Paesi industrialmente avanzati e l’immiserimento di massa, in quegli altri Paesi, che sembravano essere in via di sviluppo.
“... tutti i mezzi per lo sviluppo della produzione si capovolgono in mezzi di dominio e di sfruttamento del produttore, mutilano l’operaio facendone un uomo parziale, lo avviliscono a insignificante appendice della macchina, distruggono con il tormento del suo lavoro il contenuto del lavoro stesso, gli estraniano le potenze intellettuali del processo lavorativo nella stessa misura in cui in quest’ultimo la scienza viene incorporata come potenza autonoma...”[68]
Il lavoratore vien derubato delle sue proprie forze, che poi son proprio quelle senza di cui il capitalismo non potrebbe esistere, senza le quali non potrebbe realizzare la propria valorizzazione.
Con ragione, a proposito di questo sistema Kurz parla di “autocontraddizione logica”, così come Marx parlava di “carattere antagonistico dell’accumulazione capitalistica”:[69] infatti, sempre più lavoratori vengono eliminati dal processo produttivo, e così diminuisce la capacità d’acquisto dei consumatori, di cui pur abbisogna la produzione mercantile per la realizzazione del plusvalore e per un’ulteriore accumulazione di capitale.
Le crisi periodiche di sovrapproduzione, caratteristiche del capitalismo, in tal modo si trasformano in una continua crisi strutturale, che solo momentaneamente può essere occultata, sostituendo l’espansione mercantile con quella
del capitale. E’ ben pensabile che per un lungo periodo l’equilibrio tra accumulazione di capitale e la riproduzione della massa di lavoratori espropriati della loro forza-lavoro venga assicurato da misure quasi-socialiste, all’interno di un sistema di potere fascistico nell’interesse dei grandi capitalisti. Con ciò ovviamente la contraddizione radicale dell’accumulazione capitalistica non viene fatta scomparire ma solo ritardata.
In ogni caso, l’accumulazione capitalistica è orientata allo sfruttamento delle risorse naturali (materie prime, fonti di energia, ecc.). Con ciò non comprendo, però, il motivo per cui il capitalismo dovrebbe “disamorarsi dell’imperialismo”: il capitalismo cercherà sempre di tener saldamente nelle sue mani tutto ciò, che possa servire come risorsa; da ciò la necessità di mantener soggette le popolazioni locali.
Tuttavia anche un crescente impoverimento delle masse non riuscirà ad assicurare la tranquillità necessaria alle condizioni capitalistiche di produzione, per via dei fenomeni migratori e dei turbamenti sociali: lo stesso dominio imperialistico dovrà estendere il proprio dominio su scala e problemi finora sconosciuti. Con tutto ciò possono di nuovo formarsi masse di sfruttati, oppressi o di privati d’ogni diritto, che si muovano contro il sistema imperialistico.
La globalizzazione delle contraddizioni proprie del capitalismo e della corrispondente forma di riproduzione del capitale e della forza-lavoro produrrà, anche, nuove condizioni per un’internazionalizzazione della lotta di classe -come già, di fatto, possiamo cominciare a vedere.[70]

5Tesi: L’accumulazione del capitale avviene mediante operazioni, per cui una quota-parte del valore prodotto viene consumato in quanto <costo di produzione>. Tale quota-parte, in seguito alla modernizzazione del capitalismo, verrà sempre di più spostata a) dal denaro alla natura, b) dal presente al futuro, c) dai profitti -del capitalista- alle spese -degli sfruttati; e così il sistema stesso si taglierà l’erba sotto i piedi.

Ci soffermeremo brevemente su questa tesi. Giusta è la descrizione della condizione di fatto; questa, però, non è tale da indicare una qualche modifica essenziale e strutturale del capitalismo, sì piuttosto un suo estremizzarsi.
La produzione capitalistica è sempre orientata ad elevare la parte della produzione, che non costa nulla; ed esattamente a questo fine “essa può solo assicurare uno sviluppo di tecniche e combinazioni del processo sociale di propduzione che, contemporaneamente, distruggono la fonte stessa della ricchezza.”[71]
Così come questo valeva agli inizi del capitalismo per l’accaparramento, in qualunque modo ed al prezzo migliore, delle materie prime necessarie alla produzione o allo sfruttamento massimo della terra, il problema si è oggi in varie forme inasprito, in seguito alle ricadute distruttive sull’ambiente naturale della produzione industriale e dell’utilizzo stesso di prodotti dell’industria, nonché per l’accumulo di scorie dannose. La crisi ecologica è un momento della crisi generale del capitalismo.[72]
Non bisogna tuttavia pensare che l’instaurazione dei rapporti socialisti di produzione comporti automaticamente il superamento della crisi ecologica, poiché, anche nel quadro di tali nuovi rapporti, potrebbe esser ricercato un aumento della ricchezza sociale in tempi rapidi, proprio attraverso l’intenso sfruttamento della natura; comunque, resta vero che solo nel quadro di una coordinamento socialmente pianificato di bisogni e scopi, dunque in una società socialista, possono essere armonizzate, facendo del tutto astrazione da interessi particolari, le esigenze della produzione e quelle della sopravvivenza stessa della natura. La critica dell’economia politica del capitalismo, come anche la sistematica della economia politica del socialismo, richiedono una teoria dialettica della natura e del rapporto uomo-natura. Ciò che può esser detto a proposito dei costi di produzione sulla natura, vale anche come anticipo sul futuro.
Possiamo parlare di danneggiamento delle future condizioni naturali (per es., mutamenti climatici come conseguenza del disboscamento massiccio, buco dell’azono); di esaurimeno delle risorse naturali (patrimonio fondiario, riserve d’acqua) o, infine, di aggravamento delle condizioni finanziarie delle future generazioni (indebitamento statale).
L’eccessivo sviluppo di questo processo e la mancanza di un piano generale, capace anche di vincoli e restrizioni, fa sì che il ‘normale’ comportamento dei capitalisti divenga progressiva auto-distruzione del sistema.
Insomma, lo stesso principio (lo scarico dei costi di produzione sugli sfruttati) opera come interna negazione delle condizioni di riproduzione del capitale; d’altronde, abbiamo già avuto occasione di parlare dell’eliminazione della forza-lavoro umana dal processo di produzione: di qui, l’evidenza del carattere autocontraddittorio del capitalismo, già da Marx, in quanto critico dell’economia politica, messo in piena luce anche nelle forme del suo svolgimento storico.
Concludendo, ritengo che la descrizione dei fenomeni fatta da Kurz possa esser compresa fino in fondo solo mediante la teoria marxista e, così, possa tradursi in alternativa politica al capitalismo. Veniamo ora all’ultima tesi di Kurz, qualla per così dire programmatica.

6Tesi: La crisi del capitalismo è indice di un rifiuto del sistema mercantile. E’, di fatto, giunto storicamente ad esaurimento il principio dell’economia monetaria, cioè, dello scambio dei beni attraverso un equivalente generale, il quale parifica -in quanto valori semplicemnete- beni, che son destinati a soddisfare necessità differenti e fa di un valore astratto, per sè sussistente -il denaro- il medio, che ne consente lo scambio nel processo di distribuzione. Al posto del mercato deve nascere una organizzazione sociale della distibuzione dei beni, corrispondenti alle necessità sensibili.

Qui vediamo dove si va a parare, quando la critica di Marx all’economia poliica non viene intesa come teoria dello svolgimento storico della società umana a partire dai primordi fino al capitalismo (ed oltre, in prospettiva), ma sì -da un lato-, in senso riduttivamente economico, come una critica della forma-valore, e -dall’altro- come una teoria sociologica della modernizzazione, del tutto distinta dalla critica economica.
La crisi del capitalismo, in realtà, segna un momento di gravissimo pericolo per l’esistenza stessa del genere umano. Il mercato è il medio, in cui si compie il processo di accumulazione del capitale secondo la formula D - M - D’[73]. Se da questa formula togliessimo il medio, cioè il mercato, il denaro perderebbe ogni sua funzione -poiché tale funzione consiste, appunto, nel permettere l’ingresso nel circuito dello scambio di beni, considerarti astrattamente dal loro valore d’uso e proprio così trasformandoli in merci. [74]
Senza denaro, dunque, non vi sarebbero merci; senza merci non vi sarebbe mercato e senza mercato non vi sarebbe accumulazione di capitale. Ma è vero  che le cose stanno semplicemente così? No, non è vero.
La “divisione delle risorse secondo bisogni sensibili” è il principio di un’economia di semplice sussistenza: essa può funzionare in un accettato sistema di bisogni relativamente semplice, che ogni membro della società puà avere facilmente di fronte agli occhi anche nelle sue specificazioni più minute. Già società antiche di più ampia dimensione e dotate di una sviluppata divisione del lavoro abbisognavano di un ben diverso meccanismo di scambio..
“Giuseppe il nutritore”, che nei sette anni grassi riempì i depositi del Faraone e che, quindi, potè distribuire a tutti secondo le loro necessità nei sette anni di carestia, è una figura utopistica; Talete, invece, che si serviva della speculazione per ricavare un profitto dalla raccolta delle olive, è la realtà.
Certamente, meno che mai la moderna società di massa rende possibile la semplice allocuzione delle risorse. Come che possa essere pensata e organizzata la società, che succederà lla distruzione del capitalismo (ed a patto che, nel frattempo, l’umanità non sia scomparsa), essa, comunque, non potrà evitare di ricorrere al mercato come meccanismo regolatore la distribuzione dei beni, servendosi di un astratto strumento che misura l’utilità sociale, sia esso chiamato denaro o altrimenti.Gli sviluppi storici sono irreversibili, ma è anche vero che la storia non si arresta nel suo corso.
Non il valore né il plusvalore rappresentano il male del modo capitalistico di produzione, ma piuttosto l’appropriazione privata di quest’ultimo ed il fatto che la produzione e la distribuzione non abbiamo altro scopo che l’autoconservazione.
“La circolazione del capitale è scopo a sé, dato che la valorizzazione del valore esiste solo all’interno di questo movimento, che si rinnova in continuazione. Dunque, il movimento del capitale è privo di misura.”[75]
La “negazione determinata” del capitalismo auto-contraddittorio non sta nell’abbattimento della complessità e diversificazione del sistema dei bisogni, con la produzione e la distribuzione che ad esso corispondono. Piuttosto la si trova, quelle ‘negazione’, nello spezzare la continua riproduzione dell’accumulazione di capitale e nell’orientare la produzione sociale secondo responsabilità sociali, secondo finalità umane e naturali a corto e lungo raggio.
Si tratta di un compito certo economico e politico, ma anche morale. Il quale, per giunta, non può esser perseguito a dir così dietro le spalle dell’individuo, ma sì partecipando egli pienamente ad un impegno politico collettivo organizzato, il cui scopo sia quello di costruire una volontà ed una cultura comuni.
Non è dubbio che costruire tale comune volontà e cultura implicita una forma di democrazia ben diversa rispetto a quella tradizionale, basata su Parlamento e pluralità di partiti. Come si possa rappresentare una tale nuova democrazia diverrà, tuttavia, una questione concreta, solo allorché all’ordine del giorno vi sarà l’abbattimento dei rapporti capitalistici di produzione.


7° capitolo: Riflessioni sul concetto di situazione politica.

Un’importante tappa nella storia culturale dell’umanità si ebbe quando, con l’elaboraione dei fondamenti del materialismo storico -dunque, con la teoria di Marx, Engels e Lenin-, per la prima volta si rese possibile una concezione scientifica, capace di abbracciare la totalità dell’epoca presente (della società borghese, cioè) ma, anche, dello sviluppo storico in generale. Il vantaggio del marxismo consiste, appunto, nel potersi basate su una tale concezione.
Questo è qualcosa di cui dobbiamo prendere appieno coscienza, quando ci confrontiamo con l’esperienza, in particolare dopo la caduta delle società socialiste e la perdita conseguente di tutta una serie di coordinate teoriche pur necessarie ad orientarci.[76]
Il senso di ciò è che non possiamo volgerci a considerare cosa vogliamo perseguire e conseguire nel futuro, se non prendiamo le mosse da una serie di considerazioni, sia pure destinate ad esser riesaminate, che abbiamo a loro oggetto non solo il nostro futuro, ma sì anche il nostro passato.
Va da sé che la nostra autocoscienza non può prescindere dall’analisi di ciò, che profondamente ha determinato lo scacco del primo tentativo di realizzare società socialiste -quali che siano i limiti di superficialità e inaccuratezza con cui, oggi, spesso si discute di queste cose.[77] E’ altrettanto  chiaro che parte di tale riflessione è, anche, se il marxismo -vale a dire, ciò da cui prendiamo le mosse, in quanto socialisti scientifici- riesca o no a superare quella prova cruciale che è data, appunto, dalla crisi delle società socialiste.
Nostro problema centrale -in quanto organizzazione, ma anche in quanto individui- è quello dell’identità del comunista (identità, di cui inevitabilmente fa parte l’intera nostra storia di Partito, comprendendo in essa anche tutti gli errori fatti). Non possiamo, infatti, cavarcela, pretendendo di appartener sempre alla tradizione del movimento comunista ma, contempraneamente, scrollandoci di dosso i nostri errori; tutto al contrario, dobbiamo vederci in continuità col movimento comunista, con le sue grandi luci e le sue drammatiche ombre. 
E’ una comprensibile conseguenza psicologica della nostra sconfitta che oggi la ricerca degli errori stia per noi al primo posto e che assuma anche l’aspetto dell’ autoaccusa. E’ vero, però, che troppo facilmente questa ricerca degli errori si risolve in una autocondanna, con qualche masochismo, di insufficienze individuali ed in una valutazione strutturalmente negativa dell’organizzazione di Partito (fino a poco prima accettata senza discussdione alcuna). Il tutto termina, poi, con il render responsabile una sola -demonizzata- persona o un sistema di arbitrarie deformazioni: la parola-chiave di questo modo di fare i conti con la nostra storia à stalinismo.
Tutto ciò mi appare falso, sul piano teorico, e indegno, sul piano umano.
Teoreticamente falso, perché in tal modo si salta a piè pari un’analisi storico-materialistica dei motivi profondi che, nel processo di costruzione dell’Unione Sovietica, hanno condotto ai crimini politici e morali dell’epoca staliniana; contemporaneamente si rimuovono, anche, dal quadro di questa fase rivoluzionaria i gigantischi risultati, in qualche modo legati al Terrore, che hanno consentito di gettare le basi per una generalizzata sicurezza materiale e sviluppo culturale delle larghe masse.
Indegno dal punto di vista umano, perché noi, membri del Partito e coattori -più o meno attivi e consapevoli- del processo, è come se volessimo nasconderci dietro le spalle di qualcuno.
Noi ci siamo voluti portatori di una rivoluzione; dunque, noi dobbiamo farci carico e prendere piena coscienza di tutte le manifestazioni di questa rivoluzione nella totalità delle sue manifestazioni: nelle sue speranze e nei suoi limiti, nei suoi successi e nelle sue sconfitte.
Solo se saremo capaci di analizzare con piena chiarezza teorica, senza alcuna forma di ignavia morale e di fiacchezza piccolo-borghese il nostro passato, saremo anche in condizione di evitare nel futuro la ripetizione degli errori.

§. 1 - Essenza e manifestazione; connessione e contraddizione.
Riflessioni, che abbiano lo scopo di definire la situazione attuale o, per dirla filosoficamente, che vogliano elaborare il concetto delle situazione in cui ci troviamo, ci appaiono particolarmente necessarie perché, in tutti i colloqui, discussioni ed anche confronti teorici in cui ci impegnamo, è come se esperienze ed impressioni -spesso aneddotiche e soggettive- venissero da noi considerare sufficienti a cogliere effettivamente la storia e il concetto della situazione del nostro movimento. Insomma, succede che al posto di un’esatta valutazione ed elaborazione concettuale abbiamo, invece, sentimenti, impressioni ed aneddoti.
Conquistarsi il concetto di una situazione implicita distinguere tra essenza della situazione stessa e suoi modi di manifestarsi. Quei fenomeni che appartengono alla superificie o quelli, che possono aver costantemente accompagnato l’esperienza personale nelle diverse fasi di sviluppo delle società socialiste, dobbiamo imparare a distinguerli rigorosamente dai grandi processi sociali e dalle loro contraddizioni, dei quali i detti fenomeni non sono che modi di manifestazione. Insomma, dobbiamo riuscire a determinare le contraddizioni, non a partire dai fenomeni, ma sì dai processi strutturali.
L’obiettivo di determinare il concetto d’una situazione comporta anche, pare a me, non limitarsi all’analisi di questo o quel singolo momento, sì piuttosto cercare di cogliere la connessione dei momenti.
Questo cogliere la connessione dei momenti -in effetti, di un’enorme quantità di momenti, dato l’inevitabile orizzonte mondiale della ricerca- non è certo operazione che un singolo possa condurre a termine; al contrario c’è bisogno che vengano  intrecciate prospettive diverse: quella dell’ economia politica, della  teoria della cultura, della filosofia, delle scienze storiche e sociali.
In terzo luogo, se intendiamo elaborare dialetticamente il concetto d’una situazione, dobbiamo prender le mosse dalle contraddizioni obiettive, che caratterizzano la situazione in questione.
Una situazione storica mondiale non è, in effetti, qualcosa di compatto ed omogeneo; piuttosto va intesa come il luogo di contraddizioni, che si scontrano l’un con l’altra; ciò che specifica un’epoca sono, esattamente, le contraddizioni che essa conosce ed il modo in cui si rapportano l’una all’altra -modo che è descrivibile mediante la logica dialettica.
Ora, che ci riesca -anche sulla base delle osservazioni precedenti- di garantirci un concetto dell’attuale situazione -nel senso della differenza tra essenza e manifestazione sua e della conoscenza delle connessioni come anche delle contraddizioni obiettive-, è una condizione perché sia possibile elaborare una strategia politica per gli ulteriori sviluppi storici, nei quali per altro, in quanto soggetti politici, siamo già implicati.
Per strategia politica si ha da intendere non la costruzione di finalità che crescano pragmaticamente l’un sull’altra, ma sì l’elaborazione di uno scopo a lungo termine, dal quale possano ricavarsi anche le mosse tattiche, che situazioni determinate pretendano. Un’ultima annotazione.
E’ sostanzialmente un’ovvietà dire che possiamo darci una tattica -se si vuole, una pragmatica dell’agire quotidiano- solo a patto di possedere una strategia di lungo periodo, teoreticamente fondata.
Quest’ovvietà -che, appunto, si comprende da sé-, nel passato, è stata più volte misconosciuta e, addirittura, è successo spesso che prospettive strategiche teoreticamente giustificate siano state elaborate post festum, al solo scopo di legittimare decisioni tattico-pragmatiche già prese. Ma, appunto, questo va ben fissato: ecco una pratica che non dovrebbe più trovar cittadinanza nel nostro movimento. Ed è chiaro che nel dir ciò mi rivolgo non tanto a coloro i quali si limitano a riflettere su queste cose in ambito seminariale, quanto a coloro che si impegnano attivamamente nel fare politico.

§. 2 - Coscienza della crisi.
Quali sono, dunque, i fondamentali momenti determinanti, dai quali prender le mosse o, se si vuole, in quale epoca viviamo della storia del mondo?[78]
La definizione dell’epoca, come quella del passaggio dal capitalismo ad una formazione sociale liberata dal capitalismo stesso, è del tutto indipendente dal fatto che si dia o meno un sistema di società socialiste, che costituisca un campo operante al livello politico mondiale.
Nessuna formazione sociale, inoltre, permane immutata ed inerte nelle sue strutture sociali e ideologiche. Lo stesso capitalismo attuale non è più quello dei suoi inizi; dal tempo in cui Marx compose Das Kapital ad oggi, il capitalismo ha conosciuto non solo modifiche al livello delle sue manifestazioni, ma sì anche cambiamenti, che riguardano aspetti di fondo del processo di produzione. Ciò è vero, tuttavia, senza che si sia modificato ciò che rende il  capitalismo appunto tale.
In altri termini, il sistema che realizza l’essenza del capitalismo, conosce sì una svolta storica -in una con lo sviluppo delle forze produttive-, senza, però, che risulti superata la contraddizione fondamentale tra capitale e lavoro. Pur restando il capitalismo quello che è, tuttavia è possibile un suo ulteriore sviluppo.
Se ci muoviamo dal punto di vista dialettico, quindi, se riconosciamo  che le interne contraddizioni del sistema sono anche le forze, che ne sollecitano lo sviluppo, allora diviene pronosticabile con sicurezza che queste contraddizioni raggiungeranno quel certo punto temporale e causeranno quelle tali trasformazioni strutturali, che comportano la dissoluzione del sistema ed il passaggio ad un’altra formazione sociale.
Non per caso mi son finora espresso in termini così generici senza parlare esattamente di socialismo come alternativa; ed ho così fatto allo scopo di chiarire che per determinare le tendenze alla modificazione della formazione sociale in cui viviamo, non è sufficiente il mèro fatto della modificazione.
Modificazione è termine insufficiente, dacché non dice in che senso o direzione la modificazione avvenga -anche l’annichilimento, ad es., è una forma pensabile di essa.
Ciò che noi, oggi, con particolare insistenza, chiamiamo i <problemi globali> (la questione ecologica, il problema dell’esplosione demografica, dell’immiserimento massivo del Terzo mondo e dell’inaridimento di intere regioni del mondo), implicitano la catastrofica possibilità della scomparsa dell’umanità o, almeno, della civiltà umana.
Da ciò si ricava che non è auto-evidente che da quella formazione sociale, così foriera di pericoli disastrosi, che è il capitalismo, si possa pervenire ad un’altra formazione sociale, che abbia superato le contraddizioni radicali della prima; è possibile, infatti, che quelle contraddizioni condocano, invece, l’intero genere umano alla catastrofe.
A mio parere, questa consapevolezza della (possibile) catastrofe è un momento fondamentale della coscienza attuale e credo che ciò valga, anche per quanti non ne hanno una chiara immagine teorica.
Il generale disagio, che caratterizza il nostro momento storico e che, dunque, non è proprio solo di noi socialisti ma che ha assunto, addirittura, i contorni di un dato della psicologia sociale nei Paesi capitalisticamente evoluti, mostra con chiarezza che la minaccia di una catastrofe, che coinvolga l’umanità intera, è -più o meno confusamente, con forza maggiore o minore- avvertita generalmente ed è percepita come un riflesso della condizione storica.
Per lungo tempo questa consapevolezza d’una minaccia, di una catastrofe, ha assunto la forma del pericolo di una guerra nuclerare fra i due campi politici contrapposti e, dunque, di un disastro capace di coinvolgere l’umanità tutta.
Nella stessa misura in cui, dopo la dissoluzione del campo socialista, non vi è più una grande potenza politica alternativa al sistema capitalistico nel suo insieme, mi pare che la questione di una possibile guerra mondiale nuclerare non occupi più il davanti della scena.
Ciò non toglie che quello di garantire la pace resti un problema che si pone in modo acuto, anche se in termini nuovi: contraddizioni e problemi, che generano conflitti regionali -e periferici, se consideriamo le cose dal punto di vista delle metropoli-, i quali, però, non rapresentano più un’immediata minaccia per il genere umano.
Ciò su cui voglio soffermarmi è la misura, in cui i guasti ecologici siano conseguenza di tali conflitti e quale minaccia generale per il genere umano rappresentino.
Sembra a me, infatti, che, al momento, la consapevolezza della catastrofe, che caratterizza il nostro tempo, sia alimentata in assai grande misura da problemi come quello ecologico, dell’esplosione demografica e, sia pure ancora in misura minore, dalla possibilità che precipiti una crisi della produzione mercantile.
Il modo in cui -per dirla con Hegel- si sviluppa nel nostro tempo “il sistema dei bisogni”, particolarmente nelle metropoli capitalistiche, contiene in sé la tendenza ad un crollo catastrofico. E ciò perché, allo scopo di soddisfare bisogni che vanno sempre più crescendo, si sviluppa continuamente una produzione di beni, che perde progressivamente di senso e che ha in sé la conseguenza di rompere l’equilibrio uomo-natura.

§. 3 - Negazione determinata.
Dunque, molteplici punti critici nel nostro presente; e si tratta, in questo caso, di un presente che non ha la corta durata di un decennio, dacché quei punti critici hanno le loro radici nelle tendenze fondamentali della dinamica sociale contemporanea.
E’ per ciò che mi pare tutt’altro che falso affermare che ci troviamo in una fase storica di passaggio: quella in cui il capitalismo va sempre di più scontrandosi con i proprio confini essenziali in quanto “fattore di civilizzazione”, e si caccia invece sempre più in un rapporto insuperabile di contraddizione con il processo di sviluppo storico umano.
Se è vero che ci troviamo di fronte al bivio - da un lato il passaggio ad una nuova situazione catastrofica per l’umanità; dal’altro la possibilità di sviluppare una soluzione alternativa- e se ci atteniamo ad un punto di vista dialettico, comprendiamo bene come la possibile alternativa non debba avere caratteri arbitrari. Le alternative storicamente possibili, infatti, non costituisco una sorta di spazio neutro in cui si possa ad arbitrio scegliere l’una o l’altra di esse: al contrario, le alternative ad una situazione storicamente determinata hanno la forma di ciò che, con Hegel, si chiama “negazione determinata”. Ciò significa che una situazione data non è semplicemente negata, ma sì lo è in un modo determinato.
Nel caso delle leggi dinamiche e strutturali del capitalismo, la negazione determinata è stata elaborata dal materialismo storico.
Se sono i rapporti di produzione e, ancora più esplicitamente, i rapporti di proprietà a definire una formazione sociale, allora l’alternativa al rapporto di capitale ha il tratto determinato del superamento della proprietà privata degli strumenti di produzione, sostituita dalla proprietà sociale: questa è  la negazione determinata della formazione sociale capitalistica.
Da ciò ricavo che il socialismo, comunque venga pensato (perché, certamente, la forma che ha assunto nel corso del suo primo tentativo di realizzazione non ha il valore d’un paradigma ed altre forme son pensabili), è comunque -sulla base di principi rigorosi sia logicamente che metodologicamente- l’unica alternativa e negazione determinata, appunto, della società capitalistica.
Da quanto sopra si ricava che la nostra epoca è quella del passaggio dal capitalismo al socialismo, per quanto quest’ultimo appaia al momento sconfitto. Solo il passaggio al socialismo ha la forma della negazione determinata ed in questo si differenzia da tutte le altre possibili negazioni -in particolare da quella generale negazione, che coincide col disastro dell’umanità intera. Queste son considerazioni di natura logica, dacché hanno a che fare con la forma generale della storia; certamente non sono tali da contenere analisi particolari della formazione sociale, ma ciò perché hanno lo scopo, appunto, di chiarirne l’andamento essenziale.

§. 4 - Crisi generale del capitalismo e Rivoluzione d’Ottobre.
Insomma, sembra a me che possiamo effettivamente definire la nostra epoca come quella del passaggio dal capitalismo al socialismo, in quanto sua negazione determinata. Ma, certo, esiste anche l’altra alternativa.
Ovviamente, se definiamo in tal modo la nostra epoca, siamo per ciò stesso autorizzati a parlare di crisi del capitalismo. Ed in effetti il capitalismo vive una crisi fondamentale rispetto ai temi, che ho ricordato.
D’altro lato è vero che, finora, abbiamo commesso l’errore di non spiegare adeguatamente la crisi generale del capitalismo, sostenendo che prima o poi sarebbe crollato. Le cose, però, non sono così semplici.
Infatti, noi sappiamo, grazie a Marx, che la <crisi> è la forma stessa del movimento del capitale, cosicché, di primo acchito, la crisi generale del capitalismo è il terreno stesso della sua esistenza e della sua continuazione.
In altre parole, la sua crisi generale non conduce necessariamente né automaticamente al crollo dello stesso capitalismo, come forse si attendevano gli stessi Stati socialisti.
Ben al contrario, almeno nelle metropoli -che hanno un ruolo decisivo per valutare lo stato di salute del sistema-, il capitalismo appare essere immediatamente una formazione sociale in piena fioritura.
E tale appare, poiché esso crea una grande massa di ricchezza sociale; ha saputo dare un enorme contributo al processo della RTS ed in nessun modo è entrato nella fase della decadenza finale.
Notoriamente, abbiamo finora dedicato ben poco lavoro teorico alla differenza tra concetto di crisi generale e forme di vita all’interno di questa crisi generale e di qui son derivati alcuni errori di valutazione circa la forza del sistema capitalistico. Per l’esattezza storica va aggiunto che il DKP non ha sostenuto la tesi dell’imminente crollo del capitalismo.
Se, dunque, il capitalismo, nonostante la sua crisi generale, si dimostra vitale ed anche tenendo conto della sconfitta degli Stati socialisti, ribadisco in forza di principi fondamentali che viviamo nell’epoca del passaggio dal capitalismo alla sua negazione determinata, vale a dire il socialismo, e che il sistema capitalistico, a partire dalla prima guerra mondiale, è entrato nell’epoca della sua crisi.
In connessione con questo modo di definire l’epoca storica va adeguatamente valorizzata l’apparizione delle prime società socialiste, vale a dire l’evento della Rivoluzione d’Ottobre. Certamente, il socialismo come forma statale -costruitosi, prima, nell’Unione Sovietica e, poi, in tutto il campo socialista- è crollato; rispetto a tutta una serie di conquiste del socialismo, in particolare riguardo ai rapporti di proprietà, nei Paesi ex-socialisti si è ampiamente tornati indietro. I rapporti capitalistici di proprietà sono stati restaurati non solo là dove -come è il caso per i cinque nuovi Länder della Repubblica federale di Germania- è avvenuta un’ annessione, ma anche negli altri Stati che, in quanto indipendenti, avrebbero potuto prendere una o l’altra strada particolare di sviluppo sociale.
Tuttavia -questo è il mio parere-, l’esito negativo dello Stato sovietico, la decomposizione dell’Urss e poi del campo socialista, con il processo di restaurazione che ne è derivato, nulla hanno tolto al peso storico della Rivoluzione d’Ottobre e all’importanza sua per il giudizio da dare della nostra epoca.
La Rivoluzione d’Ottobre in quanto tale -ma, pure, i mutamenti che essa ha determinato nella coscienza delle masse, come anche nelle strutture socio-politiche del capitalismo stesso-, è all’origine di un immenso impulso verso lo sviluppo politico e sociale del nostro secolo.
Sotto la pressione della concorrenza tra i sistemi, il capitalismo è stato costretto a tutta una serie di progressi sociali, di cui pure conteneva la possibilità. L’esistenza per ottant’anni di un forte campo socialista, depositario di aspettative -bene o male realizzate che fossero-, significava, per il capitalismo e per le sue contraddizioni, un enorme, oggettivo sostegno alle forze riformistiche, che operavano per modifiche migliorative -sociali e strutturali- interne al sistema.
I grandi risultati che, dal 1917 ad oggi, hanno ottenuto i sindacati nelle metropoli capitalistiche nell’interesse dei lavoratori, avevano a monte e confermavano la possibilità di un’alternativa di sistema, da cui il capitalismo doveva guardarsi e da cui ha saputo guardarsi: per poter vincere nella concorrenza tra i sistemi, il capitalismo dovette ammantarsi di tutta una serie di attrattive sociali.
Per dir la cosa con la terminologia filosofica di Lenin e di Gramsci,[79] in tanto la borghesia potette mantenere la propria egemonia -far sì, questo significa, che i suoi valori conservassero la capacità di imporsi-, in quanto, date le condizioni della concorrenza tra i due sistemi, seppe fare una serie di concessioni, opportune a quello scopo.
Tutto ciò appartiene alla dialettica reale del processo storico; ed anche per questo ritengo che la Rivoluzione d’Ottobre fu, nel nostro secolo, un evento epocale, della cui importanza né dovremmo dubitare, né consentire che si dubiti. E ciò del tutto indipendentemente da come sono state costruite le società socialiste, nel quadro di grandi contraddizioni e debolezze.
Il significato, però, della Rivoluzione d’Ottobre non ha, solo, questa dimensione materiale; ma sì, anche, uno spessore culturale.
Quella Rivoluzione fu un evento tale, da determinare grosse ripercussioni dal punto di vista delle concezioni generali, al livello del mondo intero -come si comprende bene, se si studiano ad es. gli sviluppi culturali degli anni Venti in diretta connessione con la Rivoluzione d’Ottobre. E’ innegabile, comunque, che quelle ripercussioni si estesero per tutta la cultura dei decenni successivi.
Insomma, anche indipendentemente dai suoi effetti storico-materiali, la Rivoluzione d’Ottobre fu un evento centrale, in quanto componente strutturale della coscienza del nostro secolo e fonte ispiratrice di valori sociali e storici.

§. 5 - Mutamenti nel movimento mondiale.
Cosa significa per il movimento comunista internazionale questo modello della Rivoluzione d’Ottobre in relazione al crollo delle società socialiste? Già, perché esiste un movimento comunista internazionale, non limitato affatto alle sole metropoli capitalistiche.
Dopo la Rivoluzione d’Ottobre, il movimento comunista internazionale -e ciò va considerato tra i suoi grandi risultati storici- si trovò di fronte all’inderogabile compito di appoggiare la prima società socialista in costruzione, la giovane Unione Sovietica, e di impegnarsi per la sua sopravvivenza e stabilità sia interna che esterna. Con la vittoria del fascismo, in molti Paesi europei il sostegno all’Unione Sovietica divenne l’impegno principale. Per il movimento dei lavoratori la lotta contro il fascismo si identificò con quella per la sopravvivenza dell’umanità dalla barbarie ed in tale lotta i comunisti seppero immolarsi nelle prime file. La lotta contro il fascismo faceva tutt’uno con quella per il sostegno e rafforzamento dell’Unione Sovietica.
In tale contesto mondiale, vi fu un momento perfino, in cui per certi versi il movimento comunista dovette subordinarsi alla strategia di sopravvivenza del primo Stato socialista.
Si può certo dire che da tale situazione derivarono deformazioni nel movimento internazionale ed, anche, nella lotta di classe si reintrodussero interessi nazionali, che favorivano la politica estera e la stabilità interna dell’Unione Sovietica. Insomma, si possono indicare le contraddizioni che nascevano da quella situazione.
Ciò che non si può dire, invece, è che tale orientamento del movimento internazionale vada attributito a colpa di diktat sovietici, di Stalin o di chi altri si voglia, il cui scopo era di piegare gli interessi internazionali a quelli della potenza sovietica.
Dal momento della Rivoluzione d’Ottobre e della fondazione dell’Unione Sovietica, era logicamente necessario che assicurare le condizioni di sopravvivenza di questo Stato divenisse l’impegno centrale del movimento comunista internazionale; in tutto il periodo del confronto tra i due sistemi sociali antagonisti, questa situazione è continuata ed è stata fonte per noi di difficoltà, poiché naturalmente il campo socialista, che si andava costruendo pur fra contraddizioni ad esso proprie, assunse forme diverse e si dette differenti caratteristiche istituzionali, che certo non erano previste nel programma ideale socialista e che non dovevano trovare necessaria applicazione nello sviluppo pur socialista di altri Paesi. Tuttavia, il campo socialista esisteva e noi eravano, ovviamente, con esso solidali, né è dubbio che ciò fosse corretto ed inevitabile, sia politicamente che logicamente. Ora la situazione è cambiata alla radice e ciò rappresenta una nuova determinazione della nostra epoca.
Il movimento comunista internazionale è ricaduto, per così dire, in una situazione analoga a quella, che precedeva la Rivoluzione d’Ottobre e quali sviluppi ciò comporti lo abbiamo visto, ad es., con le decisioni dell’ONU in occasione della Guerra del Golfo: gli interessi immediati del capitale sono spacciati per interessi della comunità mondiale e quali espressione degli stessi diritti umani.
Sia detto di passata, non è certo mia intenzione dare un’immagine trasfigurata del ruolo giocato dal presidente irakeno Saddam Hussein: egli non è certo un campione della libertà del Terzo mondo; ben al contrario.
Il fatto, però, che l’ONU - secondo la sua Carta costitutiva, un’organizzazione per la pace- abbia, all’unanimità e con il sorprendente sostegno dell’Unione Sovietica, consentito, non solo, una cosa come questa guerra contro l’Irak, ma anche che fossero gli Usa a condurla in porto, ebbene ciò sta a dire chiaramente quanta capacità gli interessi particolari del capitalismo hanno, oggi, di imporsi.
Il movimento comunista internazionale ha, oggi, a che fare con un sistema di metropoli capitalistiche, che dominano il mondo: gli Usa, la Comunità europea in via di formazione, il Giappone, anche se in tali metropoli le stretegie molto differenziate dei grandi gruppi economici, solo in parte, sono coordinate, poiché, in parte, sono invece fortemente in contrasto l’un con l’altra.
Il mondo intero è sottoposto al dominio comune di queste metropoli capitalistiche che, però, si scontra con la resistenza delle proprie vittime.
L’alternativa di cui ho parlato, la negazione determinata del capitalismo, è qualcosa per cui bisogna riprendere a lottare e per la quale abbisognano movimenti organizzati, che coinvolgano direttamente le masse popolari dei diversi Länder, a partire dai loro particolari interessi.
Un altro problema è che, al momento, nel nostro Land non riusciamo a mettere im movimento masse popolari: resta che la situazione internazionale è, oggi, tale che, di nuovo, il movimento comunista deve entrare in scena muuovendosi, prima, sul terreno della lotta di classe nazionale e regionale, per poi far crescere il movimento di massa nel senso dello scontro di classe internazionale.

§. 6 - I problemi umani come problemi di classe.
Al tema della lotta di classe è dedicata la mia ulteriore osservazione. Dopo l’ineffabile libro di Gorbaciov dedicato alla Perestroijka, si è spesso affermato che i problemi umani non hanno contorni di classe, sono neutri dal punto di vista di classe.
I grandi problemi umani - quello della pace nel mondo; del mantenimento delle condizioni naturali necessarie alla vita umana ed all’equilibrio ecologico; quello dello sviluppo del Terzo mondo; della sconfitta della fame e del rispetto dei diritti umani, ecc.-, che restano insoluti a causa delle contraddizioni interne del capitalismo e che caratterizzano l’epoca politica che viviamo, nella loro essenza, derivano dalla struttura di classe della società capitalistica.
In tutte le formazioni sociali, i problemi fondamentali che le caratterizzano, ovviamente, riguardano l’umanità intera ed, in questo senso, sono promeni umani generali; ciò non toglie che, per la loro struttura e per la loro forma, siano sempre specifici dal punto di vista di classe.
Ciò significa che quando oggi abiamo di fronte problemi generalmente umani che debbono essere risolti, quando la continuazione della specie ha bisogno d’esser garantita, quei problemi non possono essere avviati a soluzione da un programma d’intervento, neutro dal punto di vista di classe e, solo, genericamente razionale.
L’appello al mèro valore morale, politicamente, conta ben poco ed ha assai scarsi effetti: solo nel quadro della lota di classe, i problemi umani possono esser avviati a soluzione.







E’ a questo punto che possiamo precisare il ruolo essenziale, che i comunisti hanno da giocare in questa battaglia.
Quando parlo di problemi e di lotta di classe, prendo le mosse dal concetto generale di classe, quale lo abbiamo ereditato dalla tradizione marxista: “Con il termine <classe> si indicano gruppi umani, che si distinguono per il posto che occupano nel sistema storicamente determinato della produzione sociale, per il rapporto con i mezzi di produzione (per lo più fissato dalle leggi), per il ruolo giocato nell’organizzazione sociale del lavoro e, di conseguenza, per il modo e la quantità di partecipazione alla ricchezza sociale. Le classi sono gruppi di uomini, alcuni dei quali possono appropriarsi del lavoro altrui per il posto determinato, che occupano nel sistema dell’economia sociale.”[80]
Nel loro Dizionario filosofico, Klaus e Buhr aggiungono: “ciò che essenzialmente differenzia le classi è il posto che occupano nel sistema storicamente determinato della produzione sociale e, quindi, per il loro rapporto con gli strumenti di produzione.”[81]
Le classi si definiscono per l’appropriazione del plusvalore: capitalisti son coloro i quali si appropriano del plusvalore sotto forma di profitto privato; alla classe lavoratriceappartengono, invece, coloro i quali producono il plusvalore mediante l’erogazione del loro lavoro.
Questa generalissimo definizione delle classi si colloca sul piano astrattamente teorico; ma la condizione di classe vive nelle determinate forme di esistenza, con cui gli uomini partecipano di fatto al processo di lavoro e di valorizzazione del capitale: in questo senso, qualcosa è effettivamente cambiato nella realtà.
Le condizioni esterne in cui gli appartenenti alla classe dei lavoratori -vale a dire la grande massa degli uomini- producono il plusvalore non sono più le stesse di un secolo fa -come d’altronde non lo sono le forme dello sfruttamento.
Lo stesso concetto di classe, d’altronde, non ha più dalla parte sua l’evidenza che aveva all’inizio del movimento dei lavoratori ed all’epoca delle grandi lotte sindacali della fine del secolo scorso.
Almeno nelle metropoli capitalistiche, i rapporti di sfruttamento sono velati e, dunque, non riescono ad imporsi con piena evidenza alla coscienza. In conseguenza di ciò, la coscienza di classe -che a suo tempo apparteneva alla gran parte dei lavoratori- attualmente non è più posseduta dall’insieme di quegli stessi lavoratori.
Insomma, per quanto la gran massa degli uomini appartenga alla classe lavoratrice, tuttavia non ha coscienza di questa sua condizione. Come riplasmare la coscienza -questo è un obiettivo, a cui dovrà volgersi la nostra ricerca teorica ed attività d’agitazione; ma anche è questione che si lega agli obiettivi processi di sviluppo negli stessi luoghi di lavoro. Ciò che fin d’ora possiamo dire è che il concetto di classe deve riempirsi di contenuti di coscienza e di esperienza vissuta, nuovi rispetto a quelli che potevano esser propri dei lavoratori negli anni Venti. Questi son compiti, che abbiamo di fronte a noi.
Tuttavia, non ritengo che il concetto di classe sia divenuto superfluo: ciò che è mutato è l’insieme delle forme in cui si manifesta e specifica; forme, che spetta a noi studiare.

§. 7 - Problemi del potere.
Indubbiamente è vero che il sistema di potere capitalistico, oggi, si presenta alla coscienza in modi assai meno trasparenti che nel passato. I meccanismi di dominazione a cui siamo sottoposti si son fatti anonimi e astratti. Il lavoratore non vede più un oppressivo padrone in fabbrica, al quale possa contrapporsi; lo stesso poliziotto per la strada non è più per noi uno sbirro o un ‘celerino’, se proprio non ci scontriamo con lui in una manifestazione. Tutt’altra era la situazione al tempo della legislazione anti-socialista; i meccanismi di potere son divenuti non immediatamente visibili.
A rigore, anche il manager di un’impresa, che persegue e realizza gli interessi del capitale, è solo un momento dell’anonimo processo della valorizzazione del capitale: non è più l’immediato proprietario del capitale, che intasca direttamente il profitto. Ciò significa che l’alto grado di astrazione degli odierni processi sociali richiede una capacità di penetrazione teorica, ben maggiore che in periodi precedenti; ma ciò significa, anche, che il movimento comunista può sottrarsi, ancor meno che nel passato, alla necessità di legare intimamente la propria politica alla comprensione scientifica e all’ulteriore elaborazione del socialismo scientifico: gli attuali anonimi rapporti di sfruttamento e di potere possono esser chiariti, solo a condizione che ci si sappia muovere ad un alto livello di astrazione.
E si badi che quando dico <astrazione> non intendo, solo, ricerca scientifica, ma proprio il livello del pensiero astratto, che può essere garantito, solo, da una formazione teorica, che sia parte organica dell’impegno formativo dell’organizzazione politica.
Non è dubbio che ci troviamo, oggi, in condizioni più difficili di quelle conosciute dalle generazioni precedenti; nel XIX secolo e nella prima metà del XX, le strutture formative di Partito avevano a che fare con masse, che desideravano -in vista della loro liberazione- di impossessarsi degli strumenti teorici e che avvertivano con forza il bisogno di cultura.
Al contrario, oggi, le masse sono uno spazio pressocché tutto coperto dell’influenza della classe dirigente, attraverso l’azione dei mass-media. La paradossale accoppiata di disinformazione e di sovrabbondante offerta delle più disparate <notizie>, prive di significato e falsificate/falsificanti, riesce a costituire un sottofondo di ‘distrazione’ e incultura, contro il quale dobbiamo lottare con scarsi e inadeguati mezzi -in un ambito, inoltre, in cui non è più possibile muoversi contro ben definiti e riconoscibili nemici: già nel 1968, lo slogan <espropiare Springer!> non era più adeguato alla situazione reale; i portatori del processo di uniformizzazione della coscienza di massa non son più singoli individui, singoli rappresentanti del capitale: piuttosto, bisogna parlare di anonimi processi gestiti dai mass-media, i quali conducono ad ottenebrare e distrarre la coscienza degli sfruttati.
Tale perfetta strategia manipolatoria non si esplica, solo, mediante la politica dei media, ma sì anche attraverso quella ‘costruzione’ dei dati, che l’attuale tecnologia consente e che costituisce una forma di dominio, capace di sfuggire completamente all’osservazione.

§. 8 - Disintegrazione culturale.
Ho gà detto qualcosa dei problemi, in cui -a seguito delle sue proprie contraddizioni sociali- si invischia il capitalismo. Ho parlato dell’immiserimento di intere regioni del mondo, che costituisce una contraddizione radicale per il capitalismo, in quanto tale sistema dovrebbe, invece, impegnarsi nella produzione di ricchezza sociale, in una sempre crescente disponibilità da parte dei consumatori di merci, proprio allo scopo di garantire l’accumulazione di capitale. E’ chiaro, dunque, che si tratta di una sua contraddizione radicale.
Una contraddizione, invece, di cui non abbiamo ancora parlato -ma che vale la pena se non altro di accennare, giusta l’importanza che ha per la nostra scientifica visione del mondo-, è questa: la tarda società borghese non è più in condizione di fornire una cultura, nel senso di una visione del mondo integrante: si danno, certo, piccoli domini culturali ‘regionali’ che giacciono l’uno accanto all’altro; si dà un assai variegato pluralismo, che a tutta prima fornisce l’immagine di una ricchezza culturale ma che, in realtà, vanifica la funzione stessa della cultura -che è quella di consentire all’uomo di orientarsi nel mondo. Nessun oriantamento, infatti, è possibile di fronte ad una varietà di alternative offerte, tutte poste sullo stesso piano e parificate in quanto a valore.
Il senso di tutto ciò è che, alle contraddizioni di cui ho già parlato, se ne aggiunge un’altra: quella della decomposizione dell’attività culturale nel capitalismo che, sotto l’apparenza di una grande dovizia culturale, in realtà non ha altro effetto se non quello di disorientare e di disgregare ogni visione del mondo: la consapevole politica di un irrazionalismo frantumante vale come un autentico segno del nostro tempo.[82]
Al contrario, i marxisti possono offrire una visione del mondo ben definita, che è il presupposto di una mobilitazione della volontà politica.
Ciò va sottolineato anche pensando a quei politici riformisti, i quali ritengono di poter costruire un partito delle riforme sociali, pur in mancanza di una visione del mondo, che funga da bussola d’ orientamento!
Al contrario, è del tutto evidente che un partito, che voglia essere strumento politico del cambiamento sociale, richiede anche una visione del mondo unificante e che non può, certo, risolversi in un club per confronti pluralistici.
Nessuna società può esistere, se non si basa su un certo accordo rispetto alla visione del mondo, senza condividere valori, scopi e senza comuni speranze. In assenza di tutto ciò, la società si riduce a pura anarchia.
In ogni epoca della storia sociale, la classe dominante fa sì che anche i dominati condividano i suoi valori, le sue norme ed i suoi criteri di senso, insomma, che riconoscano come propria la sua visione de mondo: ottenere un tale consenso fa parte delle condizioni stesse del potere ed è ciò che noi chiamiamo egemonia.
I contenuti ideali non possono essere imposti mediante violenza: essi riescono a diffondersi solo mediante accettazione; insomma, hanno da esser condivisi, per quantoillusori siano obiettivamente e per quanto risultino, dunque, da processi di manipolazione.
Se la contraddizione fra professioni di senso e valore, da un lato, ed effettività della vita sociale, dall’altro, apparisse con chiarezza, l’intero edificio dell’egemonia ideologica crollerebbe come un castello di carta.
Abbiamo detto precedentemente che la società borghese, a causa delle sue reali e trasparenti contraddizioni, non è più in grado di fornire un’unificante visione del mondo; piuttosto, tale società si affida all’anarchia culturale, che va soto il nome di ‘pluralismo’, per offrire un succedaneo della visione del mondo. Qui -in questo sbriciolarsi della coscienza comune, che è un presupposto strutturale dell’egemonia- va individuato un punto assai vulnerabile del sistema di potere.
Noi marxisti, invece, possiamo offrire una visione del mondo, capace di raccogliere, nella prospettiva di un fondamentale modello comune, processi naturali, sociali e sistemi di valori e finalità umane. Questo è un decisivo nostro punto di forza.
E tanto maggiore è la nostra forza, quanto meno ci lasciamo invischiare in concessioni e compromessi ideologici con le deboli produzioni filosofiche del pensiero tardo-borghese -anche se ciò significa confinarci per un certo tempo nel ruolo di minoranza ed assumere posizioni, che restano isolate nell’ambiente culturale dato.
Appunto perché gli uomini cercano chiari punti di orientamento nel mondo, la coerenza della visione del mondo marxista è un punto di forza, anche politica, ed il lavoro teorico è un fattore decisivo per il nostro successo futuro.

§. 9 - Il problema organizzativo.
Con ciò siamo giunti all’ultimo punto, che resta brevemente da trattare, ovvero, quello delle conseguenze organizzative delle nostre considerazioni; infatti, non ci siamo qui riuniti per avere una discussione seminariale sulla situazione storica mondiale allo scopo di poter dire, alla fine con soddisfazione, “ecco come stanno le cose!”: il nostro scopo, invece, è trarre conclusioni operative da quanto diciamo. Le nostre, insomma, sono riflessioni teoriche, a cui siamo non comtemplativamente, ma politicamente interessati: noi ci manteniamo fermi al postulato dell’unità teoria-prassi.
Posta la situazione che abbiamo delineato, quali ne sono le conseguenze organizzative per un movimento socialista, comunista?
Secondo Hans Luft due sono i binari lungo i quali bisogna muoversi; il primo corre entro i confini dell’esistente società capitalistica: è il binario lungo il quale si muove un partito come il PDS, che ha una presenza parlamentare ed opera, attenendosi a margini di manovra interni alla società capitalistica -per cui possiamo lasciar cadere la domanda di  quanto effettivo spazio di manovra le forze dominanti possano lasciargli.
Naturalmente, un partito deve lottare, con la migliore efficacia possibile, all’interno dell’ordine sociale esistente, confrontandosi con i processi sociali che in esso si svolgono, nell’interesse degli quanti il partito rappresenta e vuole indirizzare. Insomma, il partito deve sapersi muovere su un terreno, che noi diciamo ‘sindacale’ oppure riformistico. Questo è del tutto chiaro.
In una situazione non rivoluzionaria, il binario delle riforme interne al capitalismo è l’unica linea poliica possibile ai comunisti -il che significa un oscuro, quotidiano ed instancabile lavoro politico, il quale però certamente non conduce là dove è lo scopo ultimo della nostra azione. Questo si capisce da sé.
Ciò che, invece, non si capisce da sé è l’attenersi contemporaneo al secondo binario, quello della nostra volontà rivoluzionaria.
Al fondo di ogni attività riformatrice, interna a questa società; sottesa ad ogni tentativo di limitare il dominio della classe dirigente e le pratiche disumane del capitale, deve comunque restar desta la consapevolezza che non si tratta di migliorare questo o quell’aspetto della società attuale per ottenere finalmente che tutto sia in ordine; piuttosto, l’obiettivo è rovesciare questa società.
L’apparente successo del capitalismo non deve farci dimenticare che viviamo nell’epoca della sua disintegrazione e superamento. Il che significa: al di sotto dell’interno processo dei piccoli, continui cambiamenti -che riconosciamo nella società ed a cui contribuiamo-, deve mantenersi la consapevolezza che questa società in quanto tale -così come essa è- né può essere mantenuta in piedi attraverso le riforme, né varrebbe la pena di mantenerla in piedi ma che, piuttosto, il compito è ‘togliere’ questa società mediante un’altra, la socialista, che dell’attuale è la negazione determinata.
Fin quando si vive in una fase di piccoli cambiamenti e di riforme e finché la necessità politica impone di contenere in questi limiti la lotta, è un problema di formazione teorica quello di mantener desta negli aderenti ad un partito rivoluzionario (che, però, non ha da dirigere alcuna rivoluzione) la coscienza di quale sia l’effettivo scopo ultimo, insomma, di quale sia il radicale mutamento sociale che si persegue; è suo compito far avvertire costantemente lo scarto fra la pratica politica quotidiana e l’obiettivo di lungo periodo -ma non solo lo scarto, sì anche la sua intollerabilità.
Liberiamoci da ogni illusione: in una fase storica di riforme, la prospettiva politica, che realisticamente si offre alle masse, è solo quella <socialdemocratica>. Riuscire a mantenr viva la tensione interna, che può condurre la politica riformistica dei piccoli passi all’accoglimento di più radicali finalità rivoluzionarie - e riuscire a far ciò, senza lasciarsi invischiare nelle maglie del riformismo- è un compito dell’avanguardia, la quale, facendosi forte della propria chiarezza teorica, può riuscire a divenire quel punto di coagulo, in cui sempre più possano raccogliersi uomini, sulla base del crescente approfondirsi delle contraddizioni interne alla società presente.
Mantenersi avanguardia non sporcata da compromessi, anche al prezzo di restare per lungo tempo minoranza numericamente insignificante, è compito storico di un PC.
Una linea teorica combattiva è momento ineliminabile della politica dei comunisti. Il superamento del capitalismo mediante una società alternativa dev’essere, in ogni caso, l’obiettivo strategico, che funga da presupposto per quanti, vivendo e soffrendo in questa società, si impegnano -tatticamente- nella ricerca di mutamenti e correzioni da apportare pur all’interno di questa stessa società.
Si tratta di una lotta, che si dispone su vari piani. L’esperienza fatta delle strutture burocratiche ed anti-democratiche, presenti nei Paesi una volta socialisti, ha condotto spesso ad una raffigurazione idealistica della democrazia parlamentare borghese ed a considerare le sue istituzioni come l’unico scenario della lotta politica.
Al contrario, noi dobbiamo vedere nella democrazia parlamentare borghese, per come essa è nata e per come si è trasformata, la forma di organizzazione statuale, che corrisponde agli interessi dei gruppi di potere; dobbiamo renderci conto che, nell’ambito di tale democrazia, l’universale partecipazione dei cittadini alla vita dello Stato non costituisce affatto il momento decisivo.
I grandi Stati -nei quali ogni cinque anni i cittadini si recano alle urne a scegliere i loro rappresentanti (in realtà, già designati nelle liste di partito)- rappresenta solo un minimo livello di coinvolgimento e partecipazione dei cittadini alla formazione della volontà poliica. In Paesi coma la Svizzera e l’Olanda la situazione muta di poco, solo di poco.
In Svizzera, perché esiste anche la diretta democrazia referendaria che, ora, -sotto la pressione della Comunità europea, che potrebbe avocare a sé molte funzioni- corre il pericolo di essere revocata (e si sta lavorando in questo senso).
All’interno di questa forma di ordinamento, vi è stata finora la possibilità di promuovere iniziative dal basso; come anche una democrazia comunale eccezionalmente ben funzionante, dato che -a confronto dei grandi Stati centralistici-, in Svizzera, i comuni hanno una gamma di competenze ben più ampie. Non è questa, però, la regola della democrazia borghese; lo è, invece, quella degli Stati fortemente centralizzati, dato che -ovviamente- non sono situazioni eccezionale che possono fornire i criteri di valutazione di tale democrazia.
Piuttosto, bisogna osservare come tale democrazia funzioni in grandi Stati, quali la Germania, l’Inghilterra, la Francia, l’Italia, gli Usa, dove i processi decisionali si volgono anonimamente ed il potere dei grandi gruppi sfugge ad ogni controllo.
Da quanto detto ricaviamo che quella parlamentare e borghese non offre certo un modello di democrazia partecipativa.
Oltre a ciò, va detto che la democrazia parlamentare è sottoposta costantemente al potere della burocrazia ministeriale.
I parlamentari ed i ministri non sanno pressocché nulla di tutte le complessità in materia di amministrazione e di attività legislativa: chi effettivamente ha in mano la produzione di leggi e, dunque, è in condizione di influenzare i processi sociali è la burocrazia ministeriale, che nel migliore dei casi è supportata da esperti, il cui punto di vista politico non ha alcuna importanza. Come si vede, tutto ciò non ha nulla a che spartire con la partecipazione democratica.
Credo che la democrazia parlamentare venga valorizzata come medio per la costruzione di una volontà generale e, dunque, come lo scenario della lotta politica degli oppressi, quando la si concepisce come la forma di movimento della libertà politica.
La battaglia -che noi, da comunisti, dobbiamo condurre- ha da cominciare con lo sviluppare poco a poco una coscienza di classe, a partire da quei punti, in cui si riannodano con chiarezza i conflitti di questa società; ciò non significa solo lottare per la soluzione di questo o quel conflitto, ma anche -e più ancora- legare a ciò un ampliamento della consapevolezza che ogni conflitto determinato non è altro che un aspetto particolare, in cui si esprime una più ampia connessione sociale e che solo dal modo in cui si inserisce in questa più ampia connessione il problema particolare riceve il suo senso. Non si tratta solo di combattere, ad es., questa o quella progettata istallazione atomica, ma sì un’intera prospettiva politica. Naturalmente la singola lotta è pur giusta, ma più ancora lo è legarla alla lotta contro l’insieme dei rapporti sociali a cui rimanda.
Per poter fare ciò, abbiamo bisogno di una valutazione teorica della situazione storica, in cui ci troviamo; in altre parole, abbiamo bisogno di un Partito consapevole sul piano teorico e di lottare in modo organizzato.
La linea politica ed i suoi obiettivi non possono essere il frutto dell’opinione personale di questo o di quello; naturalmente, gli obiettivi della lotta debbono essere discussi, ma perché la volontà politica possa acquistare forza è necessario che si traduca in organizzazione politica.
Per evitare equivoci: non sto parlando di una forma organizzativa con tutte le deformazioni, apportate da un apparato burocratico e che noi, purtroppo, ben conosciamo; sto parlando, piuttosto, di un autentico PC, capace di condurre la lotta di classe, il cui apparato sia sottoposto al controllo dei militanti.
Insomma, un Partito democratico che, però, non si diluisca in un pluralistico club di discussori, ma che sia piuttosto dotato di una sicura capacità orgnizzativa e di lotta, sulla base appunto della sua interna democrazia.
Pur in quanto piccola minoranza -come in questa società siamo-, non possiamo sottrarci al compito di dare una precisa forma organizzata al nostro fare politico, se vogliamo riuscire ad essere il punto di coagulo di più larghi movimenti sociali ed il riferimento di un più ampio numero di persone.
In breve, abbiamo bisogno di un Partito marxista e leninista.
(domenica 12 aprile 1998).

[1]  - D’ora in avanti, DKP -secondo la sigla tedesca.
[2]  - D’ora in avanti, SPD - secondo la sigla tedesca.
[3]  - Unione dei perseguitati dal regime nazista.
[4]  - D’ora in avanti, SDS -secondo la sigla tedesca.
[5]  - “Sono proibite tutte le associazioni, le cui finalità e la cui pratica siano contrarie alle leggi dello Stato o che si orientino contro l’ordinamento costituzionale o contro la comune convivenza.” (Art. 9); “I partiti cooperano alla costruzione della volontà politica del popolo. La loro fondazione è libera. Il loro ordinamento interno deve essere coerente con i principi democratici. I partiti debbono render pubblico conto della provenienza dei loro mezzi. Sono incompatibili con la Costituzione quei partiti che, per i loro scopi o per il comportamento dei loro aderenti, finisco coll’arrecare pregiudizio  od a sospendere il libero ordinamento democratico o a minacciare l’esistenza stessa della Repubblica federale di Germania.” (Art. 21).
[6] - Cerco di rendere così in italiano il ‘gioco’ consentito dal tedesco: “was bekannt ist, ist noch nicht erkannt”, anche se, letteralmente, sarebbe più opportuno tradurre: non conosciamo (erkennen) ciò a cui siamo abituati, con con cui abbiamo famigliarità (bekennen).
[7]  - Lenin, Opere, vol. 2: 346.
[8] - Lenin, Opere, vol. 1: 333.
[9] - Lenin, Che fare?, Torino Einaudi 1971: 28.
[10] - Lenin, Opere, vol. 23: 344.
[11] - MEW. 13: 632s.
[12] - Lenin, Opere, vol. 5: 322.
[13] - Lenin, Opere, vol. 4: 206).
[14]  - K. Marx - F. Engels, Manifesto del PC, Napoli Laboratorio politico 1994: 37.
[15]  - K. Marx - F. Engels, Il Manifesto..., op. cit.: 50s.
[16]  - K. Marx - F. Engels, op. cit.: 43s.
[17] -  K. Marx - F. Engels, op. cit.: 44s.
[18] -  K. Marx - F. Engels, op. cit.: 45
[19] -  K. Marx - F. Engels, op. cit.: 37.
[20] - K. Marx - F. Engels,Manifesto... , op. cit. : 47s.
[21]  - v. il volume 5 dei Lenins Werke  (d’ora in avanti, LW).
[22]  - v. LW. 5: 362.
[23] - LW. 5: 58s.
[24] - LW. 5: 338.
[25] - LW. 5: 361s.
[26]  - v. LW. 5: 364.
[27]  - ivi: 375.
[28]  - ivi: 379s
[29] - MEW. 3: 5s.
[30] - LW. 5: 385.
[31] - LW. 5: 394.
[32] - LW. 5: 396.
[33] - ivi: 385s.
[34] - L.W. 5: 396.
[35]  - LW. 5: 395, 395n.
[36]  - ivi: 395.
[37] - LW. 5: 394.
[38] - MEW. 25: 892.
[39] - ivi: 614.
[40] - MEW. 23: 407.
[41] - Das KapitalIII, in MEW. 25: 404s.
[42]  - LW. 24: 471s.
[43]  - LW. 27: 118.
[44]  - LW. 35: 426s.
[45]  - Stalin, Werke, Band 7: 81, 229. (d’ora in avanti, SW.)
[46]  - SW. 13: 254.
[47]  - SW. 13: 266.
[48]  - LW. 31: 215.
[49] - A. Gramsci, Quaderni dal carcere. III, Torino 1975: 1756.
[50] - A. Gramsci, l.c.
[51] - LW. 31: 216.
[52] - Il Partico Democratico per il Socialismo, costituitosi dopo lo sfaldamento del campo socialista europeo.
[53] - In proposito rimando ai miei precedenti lavori: Tendenze e correnti nel neomarxismo, Monaco 1972; L’avventurosa ribellione. Movimenti protestatari borghesi in filosofia, Dartmandt e Neuwied 1976; “Pensiero metafisico” in La nuova sinistra dopo Adorno, a cura di W. Schoeller, Monaco 1969; “La dissoluzione del concetto” in Marxismo e movimento dei lavoratori, a cura di F. Deppe, W. Gerns, H. Jung, Francoforte sul Meno 1980.
[54] - K. Marx, Das Kapital. II, in MEW. 24: 84.
[55] - K. Marx, Das Kapital. I, in MEW. 23: 674s.
[56] - Confronto che, se fatto correttamente, dimostrerebbe che il livello di vita nella DDR non era essenzialmente inferiore rispetto a quello della Repubblica federale, ovviamente se nel conto vengono messe tutte le prestazioni sociali dello Stato socialista. Ma quello stesso confronto diviene una cosa astratta, quando si paragonano sistemi di bisogni, che erano strutturalmente differenti. Cf. H. Jung ed altri, Repubblica federale tedesca e Germania democratica: confronto di due sistemi sociali, Colonia 1971.
[57] - H. H. Holz, Sconfitta e futuro del socialismo, Milano Vangelista 1994: 113ss.
[58] - E’ ciò che Hegel chiamava übergreifendes Allgemeine, cioè un universale che ha con se stesso e con il proprio opposto un rapporto, analogo a quello di una <classe>, che comprende  in sè (senza risultarne con ciò esaurita) una <sotto-classe propria>.
[59] - Importante, qui, considerare la nozione di contraddizione, elaborata da Mao Tzedong, all’interno di una tradizione dialettica cinese.  Cf., il mio Contraddizione in Cina, Monaco 1970ristampa di “La contraddizione oggi”, compreso in Streitbarer Materialismus, Quaderno 17, maggio 1993: 127ss.
[60] - MEW. 4: 468.
[61] - Per la critica alla prospettiva del “gran rifiuto”, cf. il mio L’avventurosa ribellione, op. cit.
[62]  - MEW. 23: 674s.
[63] - Qui Marx mette in forma concreta quanto già Hegel diceva nella sua Filosofia del diritto §. 182ss; ad es., in §. 195, così si legge: “La tendenza della condizione sociale all’indeterminata moltiplicazione e specificazione dei bisogni, dei mezzi e dei godimenti, la quale, come altresì la differenza tra bisogni naturali e di civiltà, non ha limiti - il lusso- è un aumento, appunto, infinito della dipendenza e della necessità...”; in §. 185: “La società civile, in queste antitesi e nel loro intreccio, offre, appunto, lo spettacolo della dissolutezza, della miseria e della corruzione fisica e etica, comune ad entrambe.”
[64] - Cf. il mio, già cit., Sconfitta e futuro...
[65] - Cf. W. Hofmann, Stalinismo ed anticomunismo, Berlino 1956.
[66] - MEW. 23: 675.
[67] - ivi.
[68] - MEW. 23: 674.
[69] - ivi: 675.
[70] - Cf. GF. Pala,”Marcato, internazionalizzaione del lavoro e  internazionalismo  proletario”, in Topos 1-1933.
[71] - MEW. 23: 530. Sugli aspetti economico-politici del rapporto con la natura, cf. il mio articolo in Marxistische Studien 1-1982: 155ss.
[72] - Cf. H.H. Holz, “Crisi generale del capitalismo ?!”, in Marxistische Blätter 4-1993: 50 ss, “Materialismo storico e crisi ecologica” in Dialektik 9, “Uomo, natura e ambiente nell’Opera di F. Engels”, in Marx - Engels- Stiftung, Quaderno 5 -1986.
[73] - D - M - D’ sta per denaro - merce - denaro con un surplus.
[74] - La merce (M) si scambia con denaro (D), il quale a sua volta compra nuova merce: di qui la formula  M - D - M.
[75] - MEW. 23: 167.
[76] - Per tutto ciò rinvio al mio “Riflessioni sul concetto di situazione politica”, in Marx - Engels -Stiftung, Teorie  politiche  marxiste  nel mutare degli sviluppi storici, Bonn 1991: 7ss.
[77] - Cf. il mio già cit. Sconfitta e futuro...
[78] - Cf. Wolf-Dieter Gudopp-von Behm, “Note sui problemi dell’epoca”, in Marxistische Blätter 4-1991: 76ss. ed, inoltre, “La  misura dell’epoca” in  Scritti dell’ Associazione Scienza e socialismo, Frankfurt/Main 1991.
[79] - cf. Antonio Gramsci. Prospettive attuali della sua filosofia, a cura di G. Prestipino ed H.H. Holz, Pahl-Rugenstein-Verlag, Bonn 1991.
[80] - LW. 29: 410.
[81] - G. Klaus - M. Buhr, Vocabolario filosofico, vol. 1, Leipzig 1974: 618.
[82] - Cf. il mio “Segni dell’anti-Illuminismo”, in Enciclopedia della filosofia borghese del 19 e 20 secolo, a cura di M. Buhr, Leipzig 1988: 44ss; ed anche il mio “Contro il nuovo irrazionalismo” in Scritti per un umanismo scientifico, a cura di J. Schleifstein e E. Wimmer, Frankfurt/Main 1981: 19ss.


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