giovedì 19 dicembre 2013

Contributo a una discussione - Aristide Bellacicco* -


*(Collettivo di formazione marxista "Stefano Garroni")

1) Uno dei fenomeni più caratteristici degli ultimi anni è il fortissimo prevalere, nelle analisi e nelle interpretazioni della crisi del capitale, dell’elemento strettamente economico pensato nella sua assolutezza e autonomia. In particolare nella’area europea, il dibattito appare contraddistinto dalla divisione fra i sostenitori di una linea recessiva e di austerità (alla Merkel, per intenderci) e coloro i quali sostengono che sia necessaria una politica monetaria più espansiva per ridare fiato alla produzione e al consumo. Il fatto che queste misure di carattere neo-keynesiano rappresentino l’orizzonte comune di molti economisti di ispirazione marxista o genericamente “di sinistra”, è sufficientemente indicativo dell’ impasse teorica e politica in cui si trova impigliato, ormai da molti decenni, ciò che resta del pensiero critico e dello stesso movimento comunista. La situazione si può forse riassumere in questo modo: da un lato, o meglio, sullo sfondo, il persistere della consapevolezza che il sistema di produzione capitalistico è sbagliato perché violento e irrazionale; dall’altro, o in primo piano, l’apparentemente insuperabile soggezione alle sue logiche e alle sue “leggi”. Da qui, il primato dell’”economico” e l’appiattimento, quasi ossessivo, sui temi dei “mercati”, della “ripresa”, delle banche e così via. E sempre da qui, come una specie di sottoprodotto, quella sorta di coscienza diffusa, priva di un chiaro segno politico, che porta a concepire la situazione attuale come polarizzata fra un generico “grande capitale” mostruoso e vorace, chiamato anche sbrigativamente “Europa”, e “il popolo”, vale a dire tutti gli altri.

2) Detto ciò, non ci si può nascondere che questa visione è, in buona sostanza, il riflesso necessario dei rapporti fra le classi o fra i diversi raggruppamenti sociali, su scala europea e mondiale, così come sono andati configurandosi nell’epoca della reazione neo-liberista. Del quadro fanno parte il fallimento delle due esperienze novecentesche di ispirazione socialista in paesi più o meno capitalisticamente avanzati – il Cile e il Portogallo – e la crisi e il crollo del campo socialista e dell’ Unione sovietica ad est: il famoso tramonto della centralità operaia, di cui si vocifera da un trentennio almeno, trova forse in tutto questo una delle sue radici e, se si assume un certo pessimismo della ragione, una sua almeno apparente conferma.

3) A tutto ciò si aggiunga, come causa ed effetto nello stesso tempo, uno dei vizi più antichi e gravi del movimento comunista, vale a dire il settarismo, che produce ancora oggi – e forse in grado addirittura maggiore che nel passato – sorprendenti divisioni e antagonismi su questioni che sarebbe assai più salutare aver definitivamente superato. Ma è abbastanza chiaro che le sconfitte storiche si pagano care e che una delle monete idonee al pagamento è la coazione a ripetere, per citare Marx, grandi tragedie nella forma della farsa. Per fare qualche esempio alla buona, il contrapporsi in forma organizzata di trozkisti e stalinisti, e addirittura di differenti tendenze all’interno dei rispettivi campi, è ormai semplicemente ridicolo in quanto non più corrispondente a un qualsivoglia movimento storico e appare più come il sintomo di una nevrosi che come un effettivo problema di contenuti. Ma, proprio come una nevrosi, contribuisce in maniera efficace ad impedire che i comunisti trovino un terreno comune di iniziativa politica. O ancora: forse i comunisti tutti potrebbero essere già in grado di rispondere in modo soddisfacente e unitario a domande quali “ il Venezuela di Chavez è socialista o meno?” proprio utilizzando gli strumenti critici che il marxismo ci mette a disposizione. E rispondere seriamente a domande come questa non avrebbe solo il senso di un’esercitazione accademica o astrattamente teorica ma, al contrario, porterebbe su un piano di concretezza anche la questione di come effettivamente si pensa, se lo si pensa, a una fuoriuscita dal capitalismo su scala europea. Mi sto riferendo a problemi quali il rapporto fra le classi e i partiti, al possibile ristabilirsi di una dignità della politica – che veda l’economia come una parte e non come il tutto – e alla stessa concezione di cosa possa essere oggi, nel capitalismo avanzato, un’avanguardia sociale o di classe.

4) Le manifestazioni di protesta di queste ultime settimane – il cosiddetto movimento dei forconi – ci danno sufficientemente il senso di quali siano invece le risposte che si fanno avanti, a fronte della crisi, quando di quest’ultima non si riesca a dare un’interpretazione che rimetta sul serio in discussione le categorie del pensiero borghese e che riporti al centro il tema della liberazione del lavoro dal capitale.
E il senso è questo: la piccola borghesia interpreta a modo suo i rapporti di classe e, poiché per ragioni oggettive non può pensare a una trasformazione radicale del sistema di produzione capitalistico, rivendica – con prospettive senz’altro fallimentari - una forma di capitalismo addolcito, più a buon mercato, più “giusto”o meno spietato (più credito, meno tasse ecc.). E poiché – con una buona dose di ragione- vede nella totalità del mondo politico null’altro che una stampella o una pura e semplice emanazione degli interessi dominanti, ne invoca la pura e semplice sparizione, così come fa Grillo.

5) Però Grillo, sia pure in modo effimero, ha portato il suo movimento a diventare il secondo partito in Italia: e lo ha fatto agitando in modo rozzo e primitivo il malessere sociale diffuso fra tutte le classi e le categorie che oggi pagano il prezzo della crisi, e che rappresentano la grande maggioranza della popolazione. Ma, sia nel caso di Grillo che in quello dei forconi, non ci troviamo di fronte a una “classe” che si organizza. Perché oggi l’unica “classe” che riesce a darsi un assetto benché precario è quella rappresentata dai Monti, dalla Merkel, dalla BCE, dalla trojka e così via. Tutti gli altri sembrano essere confluiti nel’insieme indistinto del “popolo” che suscita, proprio in quanto tale, simpatie – anche da parte di qualche comunista – e paure: queste ultime certo non nella grande borghesia o nell’imperialismo, che hanno dalla loro bombe e bombardieri pronti ad ogni evenienza, ma piuttosto in quella vastissima parte del mondo politico che, soprattutto in Italia, deve (ma non vuole) fare i conti col crescente astensionismo e che, da un lato, manca totalmente di strumenti culturali e interpretativi all’altezza della situazione, e dall’altro pare interessata esclusivamente al mantenimento dello stato quo in particolare per quanto riguarda la tutela dei propri privilegi.

6) Sembra oggi quasi velleitario porsi il problema di quali siano i compiti dei comunisti nella attuale fase storica. Si potrebbe azzardare che il compito più importante sia quello di fare i conti con se stessi e con la propria storia e di cominciare a rendersi conto che, in assenza di tale revisione critica, è possibile il definitivo tramonto della propria identità storica e politica o, peggio, il suo restringersi a qualcosa di puramente residuale e malinconico. E’ possibile sostenere che il movimento comunista non sia culturalmente attrezzato per affrontare i problemi posti dai conflitti sociali in paesi capitalisticamente avanzati e, per di più, sotto il morso della crisi? Forse sì. Sapremo uscire dallo sterile contrapporsi di riformismo e/o rivoluzione e ritrovare un rapporto vitale e concreto con le classi lavoratrici e con quegli stessi settori della piccola borghesia produttiva che non hanno speranze di sopravvivenza all’interno del capitalismo? E’ auspicabile, ma richiede un intenso lavoro ancora tutto da fare. Non dimentichiamo che alle spalle di tutti noi c’è la straordinaria – e anche terribile – esperienza del PCI nel cui corso, sebbene in condizioni storico-politiche diverse dalle attuali, buona parte dei nodi che abbiamo davanti furono già affrontati.


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