lunedì 1 febbraio 2016

L’economista in tuta da lavoro: Federico Caffè e il capitalismo in crisi - Riccardo Bellofiore

Da:   http://elearning.unibg.it/economia/bellofiore/2016/caffe.pdf
Leggi anche:   http://gondrano.blogspot.it/2014/11/federico-caffe-e-lintelligente_16.html  con, in appendice, l'intervista concessa da F. Caffè a "Sinistra 77"
                               https://3.bp.blogspot.com/-9k-f6y9zoL4/WDsMcEM9MwI/AAAAAAAAVRo/oc-BrlZil8k1yfCEezNs-oTsbYHv4LE1QCLcB/s1600/amo.png




  Federico Caffè: riformista solitario e sempre combattivo, ma forse anche uomo per cui i dolori privati e l’infelicità pubblica avevano superato la soglia della sopportabilità. Non è facile parlarne in modo misurato. Come recita il titolo di un libro di qualche decennio fa, sopprimere la distanza uccide. Forte la tentazione di sovrapporre le proprie preferenze e i propri giudizi su una figura che ha sempre brillato per equilibrio dottrinale nella passione conoscitiva, per volontà determinata nella battaglia riformista, per approfondimento concettuale nella costante tensione all’intervento. Un economista che non ha mai voluto farsi profeta, e che ha però saputo essere un maestro.




...Il “rivoluzionario” Keynes, sostiene Caffè, lo si capisce appieno solo se del marginalismo che lo precede e che lo segue non si dà una rappresentazione stereotipata e caricaturale: se, insomma, se ne valorizzano le precisazioni e qualificazioni, come per esempio gli sforzi incessanti di introdurre imperfezioni e indeterminazioni. È del tutto coerente che il nostro autore, sul terreno della didattica dell’economia, si dichiari favorevole a quei tentativi che, più che manuali in senso proprio, provano sin dai primi anni dell’università, non a proporre soluzioni o a solidificare certezze, ma a suggerire al lettore e allo studente «ciò che andrebbe preso in considerazione quando egli cerchi di formarsi una opinione personale sui problemi che gli vengono presentati dall’epoca cui appartiene» [Economia senza profeti: Contributi di bibliografia economica, 1977 (d’ora in poi ESP), 55]. Dando sempre conto della pluralità delle teorie, del loro sfondo storico, delle loro premesse ideologiche. Il nostro autore dedica attenzione costante alle interpretazioni del Grande Crollo degli anni Trenta, e mette in guardia dal rischio di una ricaduta in vecchi errori. Non ne trae però spunto per una applicazione immediata delle lezioni di quella vicenda storica al presente: è semmai interessato a individuare le differenze e le novità. La più recente tendenza sistematica alla inflazione, e il suo accoppiarsi al rallentamento della crescita del reddito e all’impennarsi della disoccupazione, non hanno per Caffè un legame sostanziale né con la eccessiva creazione di mezzi monetari né lo stato di pieno impiego. Al contrario, l’inflazione continua ad avere una funzione di stimolo della crescita, e ciò cui si deve porre attenzione sono le implicazioni distributive. Il nostro autore condivide, peraltro, la tesi di una difficile conciliazione dei tre obiettivi dell’aumento del salario reale, della difesa del potere d’acquisto, del pieno impiego – problema che era ben noto a Keynes, e a cui si può porre rimedio solo per il tramite di una politica dei redditi (nell’onorato, anche se problematico significato di una epoca andata: quella di una crescita parallela di salario e produttività). Quel che è chiaro è che Caffè non si lascia in alcun modo sedurre dalle proposte di partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa, o alla sua proprietà: l’autentico potere dei lavoratori sta «nella forza della organizzazione sindacale e nella pressione che quest’ultima è in grado di esercitare in sede di negoziazione contrattuale (intesa in senso non meramente salariale)» (ESP, 86).

L’attenzione alla distribuzione si conferma nelle pagine di Caffè sulla costruzione europea. La dinamica spontanea della Comunità europea la conduce verso sperequazioni e sprechi crescenti, che si legano a enormi divari nel salario e a un allargamento crescente della diseguaglianza: «lo sperpero dell’Europa consiste, appunto, nella dissipazione delle risorse per consentire un’esistenza stentata e parassitaria ai settori ritardatari, anziché indirizzare mezzi ed energie al loro ammodernamento o per la creazione di idonee attività sostitutive» (Esp, 82). La riduzione delle disuguaglianze è «la condizione per trarre l’Europa dalla via dello sperpero su quella di un costruttivo sviluppo» (Esp, 83). Non è chi non veda il contrasto con le politiche europee di oggi, da Bruxelles a Francoforte, da Berlino a Roma; come anche la distanza dalla facile via d’uscita della dissoluzione della moneta unica all’insegna di nazionalismi e protezionismi malamente nascosti (l’apertura dei mercati, direbbe Caffè, non va di per sé scoraggiata, ma va intesa come opzione storicamente adattabile). D’altro canto, il nostro autore, nel diverso contesto di allora, ha sempre favorito un uso accorto della politica del cambio, come anche l’impiego di ragionevoli, circoscritti, selettivi controlli diretti. Il punto, che Caffè applica anche all’Italia e al suo sviluppo contrastato è che un processo di integrazione fra disuguali non può evitare crisi e avvitamenti senza che si dia una programmazione, ma quest’ultima è inerme se la si vuole intrappolare nei meccanismi della imprenditorialità e del mercato, per di più da applicare nello stesso settore pubblico, stravolgendo la natura di quest’ultimo (come chiarisce nei suoi commenti a partire da Hotelling). I temi della diseguaglianza e della lotta contro la povertà sono un’altra costante di Caffè, e lo conducono a posizioni dure contro il pessimismo ecologico. È giusta, afferma, la preoccupazione per l’ambiente ma può «distrarre dai reali problemi dell’umanità, che sono ancora problemi di povertà e di inadeguatezza delle condizioni elementari di vita di larga parte dell’umanità stessa» (ESP, 67): «trascurare le capacità di adattamento dei sistemi economici, le possibilità di sostituzione, gli apporti della tecnologia significa effettuare calcoli di banale estrapolazione e non razionale valutazione economica» (ESP, 66).

...si tratta di ciò: di contrapporre, a chi reintroduce le dimensioni storiche e istituzionali dentro un’analisi che inizia da un quadro dell’economia  come grande baratto di fatto atemporale, un’analisi che all’opposto si voglia, dalle fondamenta, monetaria e attenta alla successione delle fasi capitalistiche come all’evoluzione del tempo storico. Dunque, una teoria della moneta (e, per chi scrive, una teoria del valore) che non si riducano alla dimensione dell’equilibrio, ma che incorporino al proprio interno, come dimensione altrettanto ineliminabile, l’antagonismo sociale e la crisi. Il valore come categoria che si definisce dentro il processo capitalistico come sequenza essenzialmente monetaria; una sequenza dove la moneta “conta” anche fuori dall’equilibrio, per il suo legame con la produzione. Non si parte da zero, come ben sapeva Caffè. Il paradigma dominante non è in realtà riuscito a digerire tutto. La teoria monetaria della produzione che da Wicksell, attraverso Schumpeter, giunge al Keynes del Trattato sulla moneta, rimane inaccettabile, proprio perché parte da grandezze “macro-sociali” e da flussi immediatamente monetari, che governano la produzione e l’allocazione dei beni. Analogamente, e ancor più ovviamente, incomprensibile risulta all’economia di oggi la centralità del conflitto di classe nella produzione come sorgente ultima delle trasformazioni tecnologiche e organizzative del capitalismo nell’ottica marxiana. È indubitabile che dall’inizio degli anni Ottanta queste due sono state le gambe su cui si è mossa la dinamica capitalistica e lo stesso intervento di politica economica: la politica monetaria come strumento della redistribuzione del reddito e della gestione politica della domanda; e la metamorfosi dell’impresa nelle nuove condizioni del mercato, che ha finito con il ridefinire la natura e la qualità del lavoro.

Ascesa e collasso del neoliberalismo, e la terza crisi della teoria economica

... Le interpretazioni eterodosse spesso resuscitano gli aspetti più obsoleti del keynesismo, del ricardismo e del marxismo. La lettura probabilmente più diffusa della crisi la riconduce a una versione del sottoconsumismo (quando Marx, Keynes e la stessa Luxemburg sono, come Minsky, teorici del sotto-investimento come forza determinante la recessione e depressione, e certo non teorici di una crisi da bassi salari). In ambito marxista ortodosso si resuscita la caduta tendenziale del saggio del profitto. Nel primo caso, si riconduce la crisi di oggi agli anni Ottanta, nel secondo (almeno) agli anni Sessanta. Tutto ciò non può spiegare in un colpo solo la bassa crescita dopo la controrivoluzione neoconservatrice di Thatcher e Reagan, il “nuovo” capitalismo dei Novanta, il ritorno della instabilità finanziaria nel centro capitalistico dell’ultimo decennio, la crisi sistemica di oggi. E certo non tiene conto di quello che è stato nei fatti il neoliberismo. Occorre invece mobilitare un’analisi che parta non dal sottoconsumo e dalla distribuzione ma dalla finanza e dalla produzione (non solo nella loro contraddittorietà ma nella reciproca funzionalità). Un’interpretazione unitaria che sia in grado di dar conto tanto della ascesa quanto del crollo del “nuovo” capitalismo: qualcosa che sia in continuità con le osservazioni di Caffè su Minsky. E, che sia pure incompiutamente e limitatamente, il nostro economista seppe cogliere: «La forza contaminante del denaro e del potere non crea meramente problemi di “imperfezioni” del mercato, ma ne influenza l’intero funzionamento» (Problemi controversi sull’intervento pubblico nell’economia, in «Note Economiche», n. 6, 1979).

...All’inizio degli anni Ottanta, reagendo alla Grande Stagflazione degli anni Settanta, era stata attuata una svolta ad U della politica economica, con l’avvento delle politiche “monetariste”. Controllando rigidamente l’offerta di moneta, e facendo schizzare verso l’alto i tassi di interesse nominali e reali (cioè depurati dal tasso d’inflazione), si pensava di porre un freno all’aumento dei prezzi. Il risultato venne in effetti ottenuto, ma l’alto costo del denaro fece sì che crollassero gli investimenti privati. Intanto, la spesa pubblica, soprattutto sociale, veniva compressa, le condizioni del lavoro peggioravano, cadevano salari e domanda di consumi. Tornava lo spettro di una grande crisi per insufficienza di domanda effettiva, come negli anni Trenta. Con il paradosso che intanto gli alti tassi di interesse iniziavano a far esplodere l’indebitamento pubblico, visto che i governi erano costretti a trovare i fondi per la propria spesa in disavanzo emettendo titoli sul mercato.

Lo stesso Reagan, nel secondo mandato della sua presidenza, provvide a bloccare questa deriva fornendo domanda all’interno grazie a un balzo verso l’alto della spesa militare, il che produsse un aumento del disavanzo dello Stato. Intanto, la bilancia commerciale degli Stati andava in passivo nei confronti del resto del mondo, fornendo così domanda a quei paesi neomercantilisti che – come Giappone, Est Asia, Germania e Nord Europa – ottenevano profitti grazie a esportazioni di merci in eccesso rispetto alle importazioni (a questi paesi si è oggi aggiunta la Cina). Il monetarismo duro dei primi tempi si andava mutando in una sorta di paradossale “keynesismo militarizzato”. Pochi anni dopo, dal 1987, quando Greenspan sostituisce Volcker alla testa della Fed, le cose cambiano ancora. Sui mercati finanziari inizia una lunga corsa verso l’alto dei prezzi delle attività finanziarie. Le famiglie venivano incluse in modo subordinato nei mercati finanziari, i loro risparmi venivano affidati a dei gestori dei “soldi degli altri”, che imponevano alle imprese rendimenti elevati nel breve termine, e dunque una ristrutturazione continua. Le condizioni del lavoro peggioravano (si costituiva la figura del “lavoratore traumatizzato”) e la grande impresa verticalmente integrata veniva sostituita da unità produttive connesse in rete. I risparmiatori vedevano crescere, apparentemente senza limiti, il valore della loro ricchezza. Questa fase “maniacale” del risparmiatore consentiva alle famiglie di indebitarsi con le banche: la figura del “consumatore indebitato” spiega molto della crescita del capitalismo degli anni Novanta e degli anni Duemila.

Parte dell’Europa (in cui potremmo includere alcune regioni italiane) procedeva secondo un diverso modello. La Germania e i suoi “satelliti” (essenzialmente, Olanda, Belgio, Austria, Svizzera, Finlandia) godevano di esportazioni nette, in gran parte verso il Sud Europa. Negli anni recenti questa dinamica si è rinforzata, e ha consentito di superare un disavanzo strutturale nei confronti della Cina e il ridursi degli sbocchi negli Stati Uniti. Ciò ha richiesto che gli altri paesi europei fossero “legati” o da un accordo di cambio che impedisse svalutazioni competitive (il Sistema Monetario Europeo) o la partecipazione alla moneta unica. Le aree del Sud-Europa hanno visto aumentare i disavanzi pubblici per sostenere il reddito e l’occupazione. La crescita trainata dalle bolle finanziarie si è rivelata insostenibile. Una prima grave crisi è scoppiata nel 2000 quando si è sgonfiata la internet economy. Nel 2007 veniva a termine la bolla del mercato immobiliare americano. Dalla metà del 2007 alla metà del 2008 la crisi globale è finanziaria, mentre la crisi reale colpisce solo alcuni paesi. Ma la crisi reale rapidamente diviene universale nel corso del 2008: crolla l’attività produttiva, dagli Stati Uniti alla Cina, dalla Germania all’Italia, e così via. Lo spettro del Grande Crollo degli anni Trenta spinge dapprima a politiche “keynesiane”, sia pure in un senso limitato e meccanico: le banche centrali inondano le economie di liquidità, quasi ovunque i bilanci dello Stato vanno sempre più in rosso, spesso in forza degli stabilizzatori automatici.

Questa fase “keynesiana” termina a metà 2009, quando si intravedono “germogli di ripresa”. La priorità diviene ora la stretta fiscale. È una scelta suicida. Quando la crisi scoppia, il risparmiatore passa dalla fase “maniacale” a quella “depressiva”, deve spendere meno per uscire dal debito. Lo stesso fanno le imprese, che si sono trovate all’improvviso anch’esse indebitate. È la deflazione da debiti, di cui già discorreva Irving Fisher: nessuno spende, dunque i redditi cadono, e l’atteso risparmio non si materializza. Lo Stato potrebbe evitare questo destino, ma invece di stimolare l’economia con disavanzi “buoni” che producono valori d’uso per la collettività e aumento dei salari, contribuisce alla depressione con l’austerità. È una crisi che investe con violenza il mondo del lavoro, e prelude a un attacco particolarmente violento all’occupazione e alle condizioni di lavoro nel settore pubblico. Ma ha anche una chiara dimensione di genere: benché la crisi abbia dato l’impressione di favorire le donne (i settori più colpiti erano all’inizio a occupazione prevalentemente maschile), è sempre più chiaro che gli impieghi che si aprono sono poco qualificati, precari o part-time. Sulle donne si scaricheranno anche i costi della riduzione del welfare e della ristrutturazione del pubblico impiego.

In Europa la crisi è venuta dall’esterno. Il debito privato si è trasformato in debito pubblico. Lo stato della finanza pubblica europea non è certo più preoccupante di quella statunitense, inglese o giapponese. L’unico paese che avesse dei seri problemi di finanza pubblica prima della crisi era la Grecia. Negli anni della bolla immobiliare, Irlanda e Spagna erano modelli di finanza “sana”. Sono state le politiche europee, i vincoli arbitrari di Maastricht e la resistenza (sinora) della Banca Centrale Europea ad agire pienamente e senza condizionalità quale prestatore di ultima istanza dei governi a impedire di bloccare la spirale depressiva. Trattare la propria moneta come se fosse una valuta straniera, regolata da poteri esterni, o pretendere che tra le regioni di una medesima area monetaria (dove gli squilibri non possono che essere la norma) non vi siano trasferimenti compensativi, non può che preludere al disastro. L’esistenza della moneta unica è in dubbio, e la sua sopravvivenza rischia di essere conquistata nel segno di una stagnazione permanente.

L’Italia dentro la crisi

Se volgiamo lo sguardo al nostro paese, sappiamo bene che l’Italia è spesso, e con molte ragioni, raffigurata come il malato d’Europa. Le ragioni principali che vengono addotte riguardano quattro dimensioni. La prima è la finanza pubblica. La seconda è l’andamento del reddito pro-capite e della produttività per addetto. Il terzo è il declino produttivo. Il quarto la perdita di competitività e il rosso nei conti con l’estero.

...I veri problemi italiani stanno nella bassa crescita, più che nella finanza pubblica. Semmai, le politiche per abbattere il debito pubblico si rivelano controproducenti. Negli ultimi due anni la crisi italiana si presenta di particolare gravità nel contesto europeo perché è l’Italia il paese che – con l’ultimissima fase del governo Berlusconi, prima, e il governo di Mario Monti, poi – ha fatto uno sforzo di restrizione fiscale tra i più drastici in Europa, frenando la domanda interna, e affidandosi esclusivamente (nel bel mezzo di una crisi generale) al contributo della domanda estera netta. Se guardiamo al primo decennio degli anni Duemila, vediamo che la dinamica del PIL italiano è stata praticamente nulla, a fronte di una bassa crescita francese  tedesca (salvo negli ultimissimi anni, prima di una ricaduta della stessa Germania nella recessione), e di una crescita ben più sostenuta della periferia prima della crisi. La crescita italiana aveva iniziato a essere più bassa della media europea già dagli anni Novanta; media europea che a sua volta era sopravanzata nettamente dalla velocità di sviluppo degli Stati Uniti (per non dire della Cina e di gran parte dei paesi asiatici). Un destino di stagnazione che accomuna l’Italia al Giappone. Ancora peggio vanno le cose per quel che riguarda la produttività per addetto, che sempre nel primo decennio del nuovo millennio è stata addirittura negativa.

I fattori che hanno condotto a questo esito sono noti. L’Italia ha vissuto una tendenza di lungo periodo alla riduzione dell’occupazione nell’industria manifatturiera, con un crollo in particolare nelle imprese di grandi dimensioni. La grande industria è quasi scomparsa, a parte la Fiat, in crisi sul mercato interno ed europeo. Ciò ha significato l’abbandono, o la marginalizzazione, di numerosi settori (elettronica, telecomunicazioni, chimica e petrolchimica, farmaceutica, macchine per uffici, mezzi di trasporto). L’ondata di privatizzazioni ha trasformato molte concentrazioni pubbliche in imprese private collettrici di rendite. Predomina la dimensione piccola e piccolissima delle unità produttive, il cosiddetto “nanismo”. I distretti industriali, una volta fiorenti, sono in molte zone in crisi. La specializzazione dei produttori italiani è per lo più in settori tradizionali. Basso è l’impegno nella ricerca e sviluppo o nell’innovazione di prodotto. Gli investimenti sono stati adattivi, e la domanda di nuovi beni capitali si traduce sovente nell’importazione di macchinari dall’estero.

Tutto ciò non stupisce. Non stupisce perché (come si è ricordato) la bassa produttività è la naturale conseguenza, innanzi tutto, di una massiccia ondata di privatizzazioni. Non stupisce, poi, perché alla carenza di innovazione e politiche industriali si è sopperito con una continua deregolamentazione del mercato del lavoro, quale che fosse il colore dei governi, che pretendendo di aumentare la flessibilità del lavoro ne produceva invece una vistosa precarizzazione. Non stupisce, infine, perché quanto precede si traduceva in una dinamica ridotta dei salari unitari (anche se il costo del lavoro unitario poteva nondimeno aumentare, vista appunto la bassa produttività per lavoratore). Diveniva quindi possibile ottenere profitti o sopravvivere sui mercati senza rinnovare gli impianti, ma sfruttando di più la forza-lavoro, lungo la via bassa di una più intensa e lunga durata del tempo di lavoro. Sono i bassi salari e la precarizzazione del lavoro a dare conto di un dato che altrimenti potrebbe stupire: che questa realtà produttiva declinante si sia accompagnata per molto tempo a una significativa riduzione della disoccupazione.

A questo punto pare trovare spiegazione il crescente disavanzo della bilancia di conto corrente. In un contesto di investimenti non particolarmente dinamici, di bassi salari, di disavanzi pubblici tenuti sotto controllo, la spinta a trovare domanda nei mercati esteri si è scontrata con il problema della ridotta competitività (dovuta alla bassa innovazione, alla precarietà, alla dimensione d’impresa, alla specializzazione settoriale). Ciò si è accoppiato al fatto che nell’UME l’Italia ha subito il cambio ormai irrevocabilmente fisso: la sua inflazione più elevata e la sua produttività azzerata hanno determinato l’ascesa relativa del costo del lavoro per unità di prodotto. Dentro l’area dell’euro, la possibilità della svalutazione competitiva è stata cancellata, e si è rimasti disarmati rispetto alla deflazione competitiva. Le difficoltà sempre più gravi nella bilancia delle partite correnti si riflettevano in un forte indebitamento con l’estero, e in una crescente quota del capitale straniero nel rifinanziamento del debito pubblico – quest’ultima circostanza, se all’inizio ne riduceva i costi, nel lungo periodo accresceva la vulnerabilità dell’Italia alle fughe dei fondi e agli attacchi della speculazione.

Il quadro negativo sulla produttività e sulla bilancia commerciale va peraltro qualificato. Qui ancora una volta si conferma la correttezza dell’atteggiamento di Caffè: che non ha mai tessuto lodi di presunti “miracoli” italiani («non ho mai condiviso l’abbaglio del “miracolo economico” proprio per la costatazione quotidiana delle carenze che si venivano determinando in uno sviluppo trainato unicamente dal “mercato” e per l’assenza di una coerente politica dell’occupazione», in ESP, 113), ma si è altrettanto guardato dal levare alti lai su un ineluttabile declino («non ritengo d’altra parte che colgano nel segno le visioni pessimistiche sul futuro del paese», in ESP, 113), semmai sottolineando gli aspetti di adattamento e di vitalità.

Per quanto riguarda la produttività, il suo basso livello è dovuto, oltre che alle carenze strutturali che ho ricordato, alla bassa produzione legata alla bassa domanda. Prima della crisi, l’Italia cresceva sì poco, ma più della Germania; e le aree che crescevano di più lo facevano sulla spinta del debito privato, che si è rivelato insostenibile. Per quanto riguarda la bilancia commerciale, basti segnalare che l’Italia è pur sempre  il secondo esportatore manifatturiero d’Europa, e che il suo passivo scompare se si escludono le importazioni legate alla dipendenza energetica. In particolare, si riscontra un surplus manifatturiero in settori come l’abbigliamento, la moda, il vino, l’automazione e la meccanica non elettronica: ovvero il made in Italy di qualità, e la subfornitura dell’apparato produttivo del centro-Europa.

Già nella crisi del 2000-2003 l’Italia ha visto una sorta di selezione forzata all’interno dell’universo delle piccole e medie industrie: da un lato, vedendo andare in crisi o esternalizzare ad Est i segmenti più poveri; e, dall’altro lato, vedendo ridurre le quantità prodotte ma crescere la qualità e il valore aggiunto per quel che riguarda le imprese più dinamiche. In questa parte dell’apparato industriale italiano la produttività oraria è significativa (e certo i salari non ne tengono il passo). Il declino dei vecchi distretti industriali si accompagna al parto di quello che viene chiamato il “quarto capitalismo”: le c.d. multinazionali tascabili, forti nell’innovazione e nel marketing, capaci di penetrare i mercati d’oltrefrontiera e di effettuare investimenti diretti all’estero. Il limite di questo fenomeno, come già era stato nel caso dei distretti, è che non può esaurirsi in queste imprese la presenza industriale di un paese avanzato come l’Italia. È una configurazione fragile: le piccole e medie imprese sono incapaci di raggiungere autonomamente una massa critica nella ricerca e sviluppo; la crescita dipende dalle alterne vicende della domanda estera; non si costruisce una coerenza e completezza della struttura intersettoriale dell’economia. Ciò obbliga, per sopravvivere, a una ristrutturazione continua e, in molti casi, a un peggioramento progressivo delle condizioni del lavoro, quanto più migliora la qualità della concorrenza della Cina e dei paesi emergenti.

Il caso italiano mantiene una sua eccezionalità esemplare, anche dopo l’esaurirsi prima dello sviluppo economico dentro la c.d. golden age del secondo dopoguerra (gli anni Cinquanta e primi Sessanta), poi la crisi capitalistica della fine dei Sessanta e Settanta. Dagli anni Ottanta, il declino relativo dell’economia italiana ha assunto caratteri contraddittori, presentandosi progressivamente come il negativo fotografico della dinamica capitalistica mondiale nell’era del neoliberismo, e come paradigmatico del possibile destino della stagnazione europea esito del neomercantilismo. In Italia, come altrove, una possibile via di uscita sarebbe possibile solo a condizione di procedere su vie radicalmente nuove, che coniughino politiche attive dal lato della domanda ad una ridefinizione strutturale dal lato dell’offerta.

La socializzazione dell’economia, i disavanzi buoni, e il piano del lavoro

È qui che l’insegnamento di Caffè torna ad essere prezioso, “inattuale” nel senso di Nietzsche – fonte fertile di una riflessione e di un agire contro il tempo, e in tal modo sul tempo, a favore di un tempo venturo. È un altro punto di convergenza con Minsky. Per approfondire questo punto, è bene tornare ad alcuni saggi contenuti nei volumi Studium.

In un saggio di “reminiscenze” sul Piano del Lavoro della CGIL, Caffè osserva che «all’epoca del Piano i giochi erano fatti in tutti i sensi» (ESP, 94), economico e politico: la scelta irreversibile verso una economia aperta non era capace di erodere le posizioni monopolistiche e parassitarie, né conduceva a contrastare le esportazioni illegali di capitali; l’emarginazione delle forze politiche progressiste frustrava la partecipazione popolare e le potenzialità di rinnovamento. Ciò, peraltro, non significava che non vi fosse un fondamentale insegnamento valido nel Piano del Lavoro: il «collegare l’obiettivo dell’occupazione con un programma di “cose da fare”, senza condizionare l’attesa drammatica del posto di lavoro all’aspettativa inconcludente del crollo del sistema capitalistico» (ESP, 96). Caffè qualifica questa prospettiva come «riformismo gradualistico», ma non si vede proprio cosa vi sia di moderato in tutto ciò, tant’è che lui stesso rimanda a Gramsci che scrive che si tratta di «proporre fini discreti, raggiungibili pur nell’intento di approfondirli ed estenderli» (ESP, 97).

È questo lo stesso Caffè che poche pagine dopo, citando Franco Fortini, pare intendere con trent’anni di anticipo il senso dell’ascesa e del crollo del neoliberismo come si è davvero dato: è «la conferma che lo sviluppo capitalistico, grazie alle sue crisi e ai suoi ritorni, drena sempre nuovi strati sociali, produce anzi sempre nuovi colonizzati interni, almeno da noi, da usare come deterrente nei confronti del lavoro comunque privilegiato» (ESP, 115). L’alternativa è una economia di piena occupazione, ma questa richiede una riforma fondamentale del contesto istituzionale, e richiede verosimilmente «controlli sul commercio con l’estero, controlli sui prezzi, controlli sulla localizzazione delle industrie, estensione dell’azione dello Stato anche ai fini della regolamentazione complessi- postfazione 161 va dell’investimento privato» (EC, 174). Una vera e propria «economia dei controlli» (EC, 176), o ancora una «amministrazione globale della offerta» (EC, 185).

Siamo non lontani dal cuore della riflessione di Minsky, per quel che riguarda la sua proposta di politica economica (e di politica tout court) negli stessi anni, nel John Maynard Keynes recensito da Caffè. L’orizzonte è quello di una socializzazione industriale e della struttura produttiva, una socializzazione della banca e della finanza, una socializzazione dell’occupazione: di fatto, della rimessa in questione del che cosa, quanto e come produrre. Un punto di vista che va ben oltre il keynesismo che ora torna di moda, come dimostrano queste frasi dell’economista statunitense: «Siamo quindi costretti a ritornare alla questione normativa di fondo: per chi deve essere fissato il gioco e a che tipo di produzione dobbiamo dar vita? Se il fine perseguito è il raggiungimento di uno stato vicino alla piena occupazione, allora possiamo dire che, finora, il sistema della rincorsa tra bisogni e sprechi si è dimostrato efficace. Grazie a investimenti che non hanno apportato incremento alcuno (o quasi) a un capitale utile, grazie a costanti preparativi bellici e grazie a un consumismo sfrenato si è riusciti a mantenere la piena occupazione. Risolto così il problema della disoccupazione e del ristagno, il risultato però non è stato un senso di miglioramento del benessere degli individui. Ricchi e poveri si sentono al centro di un insensato vortice inflazionistico, mentre tutt’intorno l’ambiente biologico e sociale si inquina. Inoltre, siccome livelli elevati e sostenuti di investimenti e profitti dipendono da, e favoriscono, la speculazione sulle strutture delle passività, le fasi espansive diventano sempre più difficili da controllare; l’unica alternativa sembra essere quella di far galoppare l’inflazione o provocare un processo di deflazione da debiti che potrebbe concludersi in una grave depressione economica» (Keynes e l’instabilità del capitalismo, Bollati Boringhieri, Torino 2009, pp. 215-216, traduzione leggermente modificata).

Si potrebbe chiedere: dov’è la novità? Non era stato Keynes stesso a parlare di socializzazione degli investimenti? Le cose stanno diversamente, a chi abbia pazienza di leggere davvero le pagine di Minsky. La Teoria Generale è stato il prodotto degli anni “rossi”, e Keynes ne sottolineava piuttosto le implicazioni conservatrici, dove Minsky invece è alla ricerca di una virtuosa combinazione di capitalismo e socialismo. Per il keynesismo “bastardo” (per impiegare il termine reso famoso da Joan Robinson), una volta raggiunto il pieno impiego grazie ad adeguate politiche di stimolo a un elevato investimento privato, non vi sarebbe ragione di criticare l’allocazione di mercato delle risorse. Queste tesi hanno, secondo Minsky, la loro radice nelle ambiguità dello stesso Keynes. Minsky (come probabilmente lo stesso Caffè) obietterebbe a un mero “ritorno” al keynesismo, un approccio che a suo parere non è mai stato adeguato. Ha prodotto una forma di capitalismo dove la tassazione e i trasferimenti governavano il consumo privato, la politica monetaria regolava l’investimento privato, la spesa pubblica portava con sé spreco e armamenti, le rendite di posizione venivano favorite, la finanza tornava in posizione di comando. Una strategia “alti profitti-alti investimenti” [privati], che portava con sé consumi artificiali e metteva a rischio l’equilibrio ambientale e sociale. Per questo, insiste Minsky, occorre tornare alla prima casella, al 1933: pensare per la prima volta davvero un New Deal keynesiano che dia risposta alle domande cruciali: per chi è condotto il gioco? che tipo di prodotto vogliamo, come società?

Per Minsky, come per il Caffè di queste pagine, la struttura reale del consumo va in fondo determinata dalla domanda dello Stato, e più in generale del “pubblico”, in quanto spesa per investimenti (che può perciò essere permanentemente in disavanzo). Una socializzazione dei settori guida dell’economia (dei towering heights), un consumo collettivo (communal), con controlli di capitale, finanza regolata, banche come public utilities, lo Stato quale creatore diretto di occupazione, e così via. Non è Lenin: è la tradizione di Paolo Sylos Labini, Ernesto Rossi, di Alberto Breglia così amato da Caffè (cfr. ESP, 93). Trova qui spazio – come ci ricorda Alain Parguez – una politica di disavanzi “buoni” dello Stato: pianificati ex ante, per dar vita a, e ampliare costantemente, una quantità e qualità crescente di risorse produttive utili al fine del benessere collettivo, ovvero investimenti di lungo periodo in beni tangibili (infrastrutture, trasporti, ambiente, etc.) e intangibili (salute, ricerca, educazione, etc.).

Residua evidentemente un problema, che noi abbiamo squadernato davanti ai nostri occhi, ma che già percepiva Caffè. L’insegnamento keynesiano non è apologetico del capitalismo, ma si colloca all’interno del sistema capitalistico, di cui vuole solo correggere i difetti più evidenti; ma l’attuazione «necessariamente gradualistica» (ESP, 117) delle riforme correttive spetta alle persone poste in posizione di responsabilità. Possiamo contarci? Nelle pagine dei due volumi Studium è evidente che Caffè sfugge a un confronto in profondità con un autore che pure stima profondamente, e che al tempo stesso lo inquieta: Michał Kalecki («uno studioso di straordinaria levatura, ma la cui del tutto inappropriata strumentalizzazione finisce per dar giustificazione persino alle pesanti annotazioni sul filo della memoria di Harry G. Johnson», EC, 91).

In Kalecki abbiamo a che fare con un economista da cui per molti versi si possono derivare conclusioni analitiche vicine al Keynes del Trattato sulla moneta e della Teoria Generale, ma in un’ottica dichiaratamente di classe, e che (forse per questo?) è in grado di individuare i limiti sociali e politici di Keynes e del keynesismo. Un autore che a differenza di Caffè (che se la sbriga riducendo a «suggestive espressioni letterarie» le proposizioni profetiche dell’economista polacco), e forse dello stesso Minsky, non cade nella illusione di ritenere che il capitalismo sia compatibile con una piena occupazione (con lavori e salari “decenti”) che sia duratura.
Potrebbe non aver torto il Paul M. Sweezy citato dallo stesso Caffè, che con tutta evidenza rispetta il marxista americano, ma che chiaramente non condivide questa sua conclusione, che invece a me pare di permanente attualità (ESP, 51): «parlare di riformare il capitalismo significa peccare di ingenuità o di doppiezza. Ricchezza, privilegio, potere vanno insieme ed appartengono ad una classe che combatterà sino in fondo per preservare il loro monopolio, consentendo soltanto quelle riforme e quel margine di libertà ai riformatori che rispondano ai loro interessi». D’altra parte, quella realtà paradossale che è il capitalismo è tale che forse proprio soltanto se si è radicali, e persino rivoluzionari, e in questo lontani dal “gradualismo” tanto caro a Caffè, si è in grado di strappare quelle riforme che tornino al significato originario del termini, che siano cioè avanzamenti significativi nel benessere e nella civiltà, e non invece lo strumento di un loro drastico (e per certi versi barbarico) ridimensionamento. Da che parte penderà la storia è un compito lasciato alla nostra responsabilità.

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