giovedì 26 settembre 2013

Né questo, né quello. Polanyi riletto - Alberto Sobrero -

http://177ermanno.blogspot.it/2013/09/karl-polanyi-e-la-grande-trasformazione.html
 

 Questo intervento non ha la pretesa di dire molto di nuovo sulla figura e sul pensiero di Karl Polanyi. È davanti a tutti il recente ritorno editoriale della sua opera, le continue riedizioni di The Great Transformation (negli Stati Uniti nel 2008 e nel 2010, in Italia nel 2000 e nel 2010; e ormai in altre quindici lingue, fra le quali, più di recente, il cinese, 2007, il finlan­dese, 2009, il turco, lo sloveno, il greco etc.), i tanti saggi di commento e approfondimento (ricordo solo quelli scritti al tempo della crisi: Dale 2009, 2010b; Joerges, Falke 2011; Hann, Hart 2009, 2011; Graeber 2011; in italiano, Laville, La Rosa 2008; Caillé, Laville 2011) e, fatto nuovo e interes­sante, la presenza delle idee di Polanyi nell’attualità del dibattito politico ed economico1.

Solo tra la metà degli anni Sessanta e la metà del decennio successivo, in quel periodo che Hann e Hart chiamano “l’età dell’oro dell’antropolo­gia economica”, l’interesse per l’opera di Polanyi ha conosciuto una simile intensità (Wilk 1996; Carrier 2005; Hann, Hart 2011). C’era allora la con­troversia antropologica (confusa e magari ingannevole) fra un approccio formalista e un approccio sostantivista, c’era, poco più tardi, il dibattito marxista e strutturalista sulla nozione di modo di produzione, ma prin­cipalmente c’era sullo sfondo un incessante interrogarsi sul rapporto fra capitalismo trionfante e quello che allora si chiamava Terzo Mondo.

In quegli anni abbiamo letto Polanyi grazie ad Alfredo Salsano, che ne ha introdotto l’opera in Italia, e a Edoardo Grendi, che ne offrì fra i primi un commento, ma per lo più lo leggemmo male: o forzandolo nella lezione dei Grundrisse marxiani, o mettendolo accanto ai libri di Marcuse, Fromm, Adorno. In ogni caso una compagnia un po’ stretta. Chi scrive deve un interesse, forse solo in parte diverso, alla passione e alle aperture
interdisciplinari di Salvatore Puglisi, docente e maestro di Paletnologia alla “Sapienza”. Durante i seminari “autogestiti” leggevamo i neo-evolu­zionisti, Gordon Childe (altro autore molto amato dai giovani “marxisti”) e Polanyi. Era il 1974, quasi quarant’anni fa.


Il nostro errore non stava certo nel riconoscere un Polanyi “filosofo della politica” e un Polanyi “antropologo”; l’errore che si faceva allora (e che spesso si sarebbe fatto in seguito) era di separare i due Polanyi, o, ben peggio, di utilizzare Polanyi per cercare nel passato le fondamenta della nostra visione del presente. Era il peggior torto che, proprio dal punto di vista polanyiano, si potesse fare alla sua riflessione.

Eravamo in buona compagnia. Gli antropologi che allora condivisero o criticarono le tesi di Polanyi (Paul Bohannan, George Dalton, Marshall Sahlins, Maurice Godelier, Claude Meillassoux etc.) lavorarono princi­palmente sui suoi saggi di antropologia delle società precapitalistiche e guardarono poco o niente all’attualità del suo pensiero politico.

Come capita solo per i grandi libri, le vicende editoriali di The Great Transformation hanno seguito da vicino le curve della storia. E negli anni del dopoguerra e del miracolo economico, non poteva ottenere ricono­scimenti un libro che aveva previsto e celebrato la fine del capitalismo. Per gli stessi allievi che ne custodivano l’opera, Polanyi divenne principal­mente uno storico del capitalismo e delle sue convulsioni (in particolare, si veda Stanfield 1986; Mendell 1990; inoltre la figlia di Polanyi, l’econo­mista Karl Polanyi-Levitt). Non diversamente anche fra gli antropologi il prestigio di Polanyi subì nel tempo un deciso (e peraltro comprensibile) ridimensionamento. Negli anni Ottanta The Great Transformation non era citato neanche nei maggiori dizionari di antropologia di lingua inglese (Seymour-Smith 1986; Levinson, Ember 1996). E anche in Italia gli esperti di antropologia economica cominciavano a evidenziare i limiti tecnici del­le sue ricostruzioni etnologiche (Solinas 1993: 63; Pavanello 1993: 47).

Era difficile, del resto, anche trovargli un qualche spazio nei manuali di storia del pensiero. Per lo più lo si menzionava nel capitolo sul funzio­nalismo, magari in un paragrafo a parte, anche se sarebbe bastato pen­sare al suo comparativismo e al suo olismo metodologico, per leggerlo in tutt’altra direzione. Il suo primo referente antropologico era stato Ri­chard Thurnwald, un funzionalista, ma un funzionalista secondo i criteri di un impianto mitteleuropeo, un impianto che si muoveva nel medesimo grande scenario del diffusionismo di Padre Schmidt, o magari dell’evo­luzionismo ottocentesco, e che non aveva moltissimo in comune con il funzionalismo britannico.

Oggi il sistema capitalistico di mercato è tornato sotto accusa, e ancora una volta Polanyi è uno dei suoi giudici. A Polanyi si riconosce il merito di aver fondato l’antropologia economica proprio per avere avvicinato l’ap­
proccio antropologico a quello storico, benché ancora una volta si tenda a separare il Polanyi etnologo e storico dal Polanyi politico.

Polanyi etnologo, per la verità, è stato un po’ messo da parte. Con la crisi del marxismo l’antropologia economica è diventata sempre più ter­reno per specialisti e sempre meno terreno di battaglie ideologiche. Ed è comprensibile che Polanyi – che specialista non era – ne resti ai margini. Economisti e politologi ragionano, piuttosto, su Polanyi profeta del di­sastro dell’economia virtuale e critico delle cure iperliberiste, su Polanyi sostenitore della centralità della politica e del valore sociale dell’impresa e del lavoro. Dal canto loro i sociologi e gli antropologi accostano Polanyi a Mauss, come antesignano degli studi sulla vitalità nella nostra società di forme di scambio estranee alla logica mercantile.

Cambia lo scenario, ma rimane che, come allora, ognuno legge Po­lanyi a proprio modo. Negli ultimi anni Polanyi è diventato riferimen­to per avversari della globalizzazione e movimenti radicali, ecologisti e post-marxisti, per teorici del comunitarismo cattolico ed esponenti della destra ideologica. Nel suo lavoro del 2010, Karl Polanyi. The Limits of the Market, Gareth Dale annota come in Inghilterra, a pochi anni di distanza, si siano curiosamente richiamati al pensiero di Polanyi sia l’ex consigliere di Margaret Thatcher, John Gray, che l’ex consigliere di Tony Blair, Jona­thon Porritt (Dale 2010a: 4).

Nei lavori di Polanyi è possibile trovare questo e quello, ma l’errore sta appunto nel leggerlo in questa o quella prospettiva. La sua opera scompo­sta in porzioni di scuola non offre molto di nuovo. Non offriva molto di nuovo probabilmente già negli anni Settanta, quando la si leggeva nel qua­dro dell’analisi marxista, e meno che mai quando la si leggeva nel quadro francofortese. E non offre nulla di nuovo oggi. Altri economisti prima di lui hanno analizzato le storture del “libero” mercato, e gli esiti del capitali­smo iperfinanziario; e altri l’hanno fatto dopo e meglio. Le critiche su que­sto versante sono note e giustificate: una visione statica del capitalismo, un’idea astratta, ideal-tipica, radicalmente simmeliana del mercato, come sfera separata dai tanti aspetti della socialità umana (Zelizer 2009). E, di­ciamolo subito, anche molte delle sue riflessioni etnologiche hanno limiti non da poco. Polanyi ha il merito di criticare l’applicazione ingenua della nostra “razionalità” all’analisi delle economie semplici, ma a volte, per non cadere nell’errore di estenderla a ogni forma sociale, sembra rinun­ciare tout court a indagare su altre forme di razionalità (Pavanello 1993), e spesso (come nel caso dei saggi sull’economia del Dahomey) formula le sue tesi confidando su un materiale etnografico che molti africanisti e stu­diosi di antropologia economica avrebbero presto giudicato insufficiente. La conseguenza è quell’empirismo e quel comparativismo senza fonda­menta di cui già parlavano gran parte dei suoi critici francesi.

Del resto, il rapporto di Polanyi con l’antropologia rimase sempre più interno alla sua riflessione che non interessato a un reale confronto con sviluppi teorici della disciplina. Negli anni viennesi, in polemica con la tradizione liberale inglese e con l’approccio economicistico della scuola austriaca di Carl Menger, Polanyi fa riferimento alle posizioni dello stori­cismo tedesco, e in particolare ai lavori pionieristici di Karl Bücher (1891), ma senza mai entrare in profondità nel dibattito suscitato da quei lavori (Leroy 1925; Dopsch 1930). Alla fine degli anni Trenta, a Londra e poi negli Stati Uniti, legge un buon numero di monografie sulle economie precapi­talistiche, ma non si può negare che a volte le legga molto speditamente e le citi a proprio uso e consumo, e che, con poche eccezioni, si mostri sempre poco incline a verificare le proprie tesi al di fuori delle proprie ipotesi.

Sul versante storico è, poi, difficile non dare una qualche ragione a quanti hanno rimarcato la poca attenzione di Polanyi per la presenza del mercato nel mondo classico, la visione rose-tinted delle società precapi­talistiche, la fragilità del suo comparativismo, o la debolezza dell’utilizzo dell’opposizione töenniesiana per definire la differenza fra sistemi preca­pitalistici e capitalismo (Thompson 1972; Braudel 1979; ma, principalmen­te, Goody 1996; Friedman 1979).

Quel che mi interessa, però, non è né riscoprire l’attualità di Polanyi nella crisi economica che dal 2008 ci rovina i sogni, né ripensare singoli aspetti della sua riflessione storica o etnologica. E il fine non è neanche quello di superare il gap fra Polanyi etnologo e Polanyi profeta della crisi, di cui dicevo. O meglio, è questo, ma è, anche, qualcosa di più. Mi in­teressa capire quale sia il posto della ricerca etnologica nel suo lavoro, e quali siano le ragioni per le quali negli ultimi due decenni della sua vita Polanyi, specialista di storia economica dell’età contemporanea, studiò e scrisse quasi solo di etnologia e di letteratura, e per le quali, se alla fine della vita, avesse dovuto definirsi, avrebbe di certo amato definirsi un antropologo.

La mia convinzione è, appunto, che Polanyi vada letto, in primo luo­go, nell’ambito di un’antropologia generale, o per dirla con Salsano come promotore di «una scienza unificata delle società umane», e che, solo a partire da questo presupposto, si possa ragionare su pregi e limiti del­le sue esplorazioni etnologiche. Non sbaglia chi, come lo stesso Dale (e come allora Salsano) ha invitato a leggere Polanyi principalmente in que­sta direzione. Questo è il primo passo; poi, però, bisogna riconoscere che in Polanyi non c’è solo il tentativo di immaginare un nuovo umanesimo («la nostra concezione morale e filosofica», Polanyi 1987, trad. it.: 27), ma c’è il tentativo di dare a questo nuovo umanesimo fondamenta che non siano solo filosofico-ideologiche. Ed è, appunto, l’impianto etnolo­

gico a rendere possibile questo ulteriore passaggio. Bisogna percorrere l’intera produzione polanyiana, e non questo o quel tratto, per capirne l’interna evoluzione, ma anche per riconoscerne i punti fermi, quel che rimane costante attraverso interessi e argomenti tanto diversi. Niente di particolarmente nuovo, ma un autore e alcune questioni sulle quali può valere la pena tornare a ragionare, o per lo meno che oggi può valere la pena ricordare2.

Prima di iniziare, tuttavia, mi piace ricordare il sonetto di un gran­dissimo fra i nostri poeti, Giovanni Raboni. In pochi versi ci dice quello che io impiegherò trenta pagine per spiegare malamente. Era la crisi del Novantadue. Quella di avvertimento.

Che in tutto fra tutte suprema sia

la legge del mercato, che a lei deva

subordinarsi restando utopia

per sempre tutto quello che solleva

l’uomo da se stesso sembra alla mia

mente quasi incredibile. Ma alleva

menti per crederci l’economia

trionfante, fa che ciascuna s’imbeva

di quel credo miserabile e creda

a esso fieramente come al più santo

vangelo; e non ha scampo chi rimpianto

dell’altro s’ostina finché non ceda

di schianto il cuore a provare e di noia

trema dove per altri è ottusa gioia.

Giovanni Raboni

Aspettando Godot

Christmas, 1925. In una lettera, venuta alla luce solo nel 1975, Karl Polanyi scrive all’amico ungherese Richard Wank:

Io sono diventato una persona diversa da quella che hai conosciuto. Io non so se tu sapessi, non ricordo – impossibile ricordare simili cose – se tu sapessi il mio segreto (McRobbie, Polanyi-Levitt 2006: 316).

Era nato a Budapest nel 1886, in uno dei tanti centri dell’impero («Nello Stato più progredito del mondo, benché il mondo non lo sapesse ancora», avrebbe detto Musil). Del suo malessere giovanile abbiamo poche testi­monianze, e Polanyi tornerà poco e di malavoglia a ricordare il periodo ungherese. Lo farà negli ultimi anni, ricordando “l’eredità del Circolo Ga­lilei”, ma quasi con fastidio: «Se non conoscessi i miei obblighi, mi rifiu­terei di mettere per iscritto ciò che il titolo dell’articolo impone» (Polanyi 1960/1987: 199). Eppure l’esperienza del Circolo Galilei, l’unione radicale di studenti che aveva fondato a Budapest nel 1908 e di cui era stato primo presidente, sarà ben più importante di quanto non fosse disposto a rico­noscere. Nel Circolo si discute dei fatti di Russia, ma anche di positivismo e neopositivismo; si oppone il positivismo scientifico di Ernest Mach al positivismo metafisico di Comte e Spencer; si legge Marx, si ascoltano conferenze di Mannheim e di Sombart, si discute di estetica con Leo Pop­per e György Lukács. E principalmente si insegna a leggere e scrivere a migliaia di operai. Come ricorda Zsigmond Kende, uno degli amici più stretti del periodo ungherese:

Ci consideravamo socialisti. Eravamo tutti d’accordo che l’umanità procedeva in direzione del socialismo, ma non eravamo dogmatici in quanto alla sua natura (Polanyi-Levitt, Mendell 1987: xxix).

Nella memoria di Polanyi i pro e i contro di quell’esperienza quasi coinci­dono: all’attivo c’era il senso etico del dovere sociale racchiuso nel motto del Circolo “Imparare e Insegnare”, la condivisione di una concezione della vita come testimonianza; ma questa concezione ne era anche il li­mite, la ragione del disimpegno politico, dell’avversione verso una vita attiva, il motivo di una mancata analisi realista della società ungherese. Una morale tolstoiana, ma un intellettualismo che finiva per fare da argine a nuove aperture culturali.

Che la psicanalisi viennese si sia arrestata sul confine ungherese, che la Jungen­dbewegung tedesca non abbia conquistato Budapest; che il relativismo occiden­tale si sia trovato di fronte la realtà morale di origine russa (che compendiava Tolstoj e Dostoevskij); che l’ebraismo povero non abbia assunto i caratteri del sionismo; che l’estetica fin de siècle dell’erotismo paradossale di Oscar Wilde si sia infranta contro un muro invisibile negli animi della gioventù ungherese: tutto ciò è dipeso in maniera essenziale dal Circolo Galilei (Polanyi 1960, trad. it.: 206).

Nel 1925 sono ormai sei anni che prima per curarsi e poi per sottrarsi al regime fascista, Polanyi ha dovuto lasciare Budapest. È il primo esilio: vive a Vienna lavorando come giornalista. È un periodo felice: «Ne sono uscito. Sono cambiato. L’ho capito. Ho ritrovato la salute». Ora si sente tanto forte da poter parlare a un amico del suo segreto, dei lunghi anni della depressione (a poisoned feel of life), di quell’idea di essere «born to be a suicide» che l’ha tormentato per molto tempo. È la prima delle svolte della sua vita e della sua ricerca.  

Durante questi anni le mie idee sulle questioni sociali hanno trovato una direzione appassionata. Le scienze sociali, l’azione, ma principalmente la questione della libertà di pensiero nella società: come possiamo essere liberi, malgrado la società (in spite of society)? E non liberi nella nostra immaginazione soltanto, non chia­mandoci fuori dalla società, negando il fatto di essere legati alla vita degli altri, ma liberi nella realtà, cercando di rendere la vita in società trasparente (übersichtlich), autentica come la vita in una famiglia, così da potere raggiungere una condizione nella quale sento di avere fatto il mio dovere verso tutti gli uomini e di essere, al tempo stesso, libero e in pace con me stesso (Lettera a Richard Wank, 1925, in McRobbie, Polanyi-Levitt 2006: 317).

È il primo esilio, ma è anche la sensazione di essersi aperto al mondo. «Gli ultimi cinque anni della mia vita hanno significato di più e sono stati più importanti dei precedenti trentacinque» (ibid.). La Grande Vienna è diventata la Red Wien, la Vienna dove si tenta la seconda scalata al cielo: «Qui, in un ambiente prettamente capitalistico, una municipalità sociali­sta istituì un regime che fu aspramente attaccato dagli economisti liberali» (Polanyi 1944, trad. it.: 358).

Polanyi segue le vicende dell’emigrazione ungherese, ma presto, si ap­passiona ai dibattiti interni alla socialdemocrazia austriaca, al pensiero po­litico dei suoi maggiori esponenti, di Otto Bauer e di Max Adler. Stringe amicizia intellettuale e politica con Karl Popper. Quasi per reazione al non impegno del periodo ungherese, lavora sui problemi concreti di un’eco­nomia socialista: fa propria l’interpretazione del socialismo e il program­ma politico dello storico inglese George Douglas Cole (Guild socialism), inteso come possibile punto di convergenza fra le istanze del socialismo collettivista e del sindacalismo rivoluzionario. Si pone in termini politici una questione che resterà presente in tutto il suo lavoro: come sia possibi­le ripensare l’equilibrio dell’offerta e della domanda al di fuori del model­lo liberista (Polanyi 1922/1987: 10); come trovare il punto di equilibrio fra «la produttività tecnica che tende alla massima moltiplicazione dei beni, minimizzando il dispendio del lavoro», e «la produttività sociale che, al contrario, tende ad assicurare la massima utilità pubblica dei prodotti ot­tenuti» (ivi: 22). La conclusione, in quello scritto del 1922, sarà più che simile a quella che ritroveremo nei suoi lavori degli anni Cinquanta:

L’umanità sarà libera soltanto se comprenderà cosa le costano i propri ideali […] Soltanto se si potrà vedere un nesso più immediato, controllabile e misurabile, tra i sacrifici da fare e il progresso che dobbiamo sperare (corsivo mio).

Nel 1933 gli eventi impongono un nuovo esilio e a Londra Polanyi scopre un altro genere di capitalismo. In una lettera del 1950 all’amico Oscar Jás­zi, storico della dissoluzione dell’impero asburgico, scriverà del suo arrivo in Inghilterra come di una rinascita intellettuale che rendeva vuoto tutto

il suo passato: «Dal 1909 al 1935 non ho concluso nulla. Ho disperso le mie forze in direzioni insignificanti del tutto idealiste, andando alla deri­va» (McRobbie, Polanyi-Levitt 2006: 309). Lavora come educatore degli adulti in strutture periferiche delle università di Londra e di Oxford, e collabora con la Worker’s Educational Association (presieduta dallo sto­rico Richard Tawney) e con il gruppo della Christian Left; scopre la storia dell’economia (e presto l’antropologia); scrive saggi che anticipano molte delle tesi della sua opera maggiore: The Essence of Fascism (1935), Europe To-day (1937).

Tra il 1940 e il 1943, grazie a una borsa della fondazione Rockefeller, può trascorrere un periodo continuativo di studio negli Stati Uniti. L’America che trova non è più quella della Lost Generation, né l’America orgiastica del Grande Gatsby, ma è l’America ripiegata su se stessa, da poco uscita dalla grande depressione, l’America di Caldwell e di Steinbeck, che pro­prio nel 1939 ha pubblicato The Grapes of Wrath.

Negli anni della guerra Polanyi porta a termine The Great Transforma­tion. È un’impresa faticosa. Le tesi del libro sono ormai chiare, ma biso­gna lavorare sulle parole, confrontarsi, discuterne con i colleghi americani del Bennington College (Vermont), con i maestri inglesi, con Tawney, con Cole, e con il fratello, il chimico e filosofo della scienza, Michael Polanyi.

Nel 1947 ottiene l’incarico come visiting professor alla Columbia Uni­versity, dove tiene lezioni di Storia economica, annotate e poi pubblicate a cura di Harry Pearson (seconda parte di Livelihood of Man, 1977). Ancora una volta gli sembra che la propria vita intellettuale debba ricominciare.

La vera sorpresa mi è venuta in questi ultimi quattro anni […]. Questi quattro anni furono trascorsi nella febbre di un solo, ininterrotto giorno di lavoro. Il risul­tato, che io finisca o no il mio libro, sarà un’interpretazione delle economie delle società primitive (lettera a Oscar Jászi, 1953 in Polanyi-Levitt, Mendell 1987: xliv, corsivo mio).

Ora è appunto la sorpresa dell’antropologia a dargli la sensazione che deve rincominciare e che si può capire meglio.

Dal 1950 vivrà in Canada, a Toronto, perché alla moglie, Ilona Duczynska, per la sua militanza comunista negli anni Trenta, non è con­cesso entrare negli usa. Ritiratosi nel 1953 dall’insegnamento può dedicarsi pienamente alla ricerca antropologica. Con Conrad Arensberg organiz­za presso la Colombia un gruppo di ricerca (Margaret Mead, Marshall Sahlins, Moses Finley, Walter Neale, Harry Pearson, Paul Bohannan, Ge­orge Dalton) i cui risultati confluiranno nel volume Trade and Market in the Early Empires: Economies in History and Theory (1957/1978).

È un periodo di lavoro intenso: scrive i saggi di antropologia che ver­ranno raccolti nei testi postumi, si apre ad altri interessi, progetta e inizia nuovi libri. Accanto all’antropologia l’altra grande passione è la letteratu­ra: una passione che aveva coltivato da giovane, che era maturata attraver­so l’amicizia negli anni ungheresi con il grande critico letterario Leo Pop­per e con Lukács, una passione che traspare in The Great Transformation, e che ora diventa, come vedremo, qualcosa di più.

Negli ultimi anni della vita, insieme alla moglie, lavora a un’antologia della poesia ungherese, The Plough and the Pen, e progetta un lavoro che metta insieme il contributo degli scrittori contemporanei al rinnovamento della cultura occidentale e che risponda all’esigenza – come amava ripe­tere – di «break with the values of the world». Scriverà al fratello nell’ot­tobre del 1959:

Cerco di ascoltare il lamento di un popolo. Di qui l’antologia, la ricerca della paro­la giusta nelle ore insonni, la fatica di penetrare il significato di versi, di decifrare i modelli di vita – the inner lives – dei loro autori, i cui balbettii e le cui speranze rivelano anime rinate, il materiale grezzo di una storia che deve ancora essere (McRobbie, Polanyi-Levitt 2006: 169, corsivo mio).

Postume appaiono varie raccolte di saggi, fra cui Dahomey and the Slave trade: an analysis of an archaic economy (in collaborazione con Abraham Rotstein, 1966/1987), Primitive, archaic and modern economies (a cura di George Dalton, 1968/1980), Livelihood of Man (a cura di Harry Pearson, 1977/1983).

La vita di Polanyi è stata raccontata molte volte. Ne abbiamo molte te­stimonianze. Eppure continua a essere una vita difficile da capire. Sembra che per capire la vita si debba capirne l’opera, ma che per capire l’opera si debba capire la storia di quel primo mezzo secolo del Novecento. La vita e gli studi sembrano rincorrere il mondo, con la sensazione di essere sempre in ritardo e di anticipare il futuro: il crollo dell’impero austroungarico, le battaglie sociali del dopoguerra, il fascismo, il capitalismo inglese, il nuovo ordine postbellico, un futuro intravisto. Si ricorda spesso quanto disse di lui Zsigmond Kende: era sempre fuori tempo, «aveva la stoffa del profeta e si sentiva anacronistico».

Ogni tappa è una svolta decisa, ogni volta la percezione di un mondo che si chiude e l’aprirsi di nuovi orizzonti. Scrive in una lettera all’amica Bé de Waard nel 1958:

Il futuro viene continuamente rifatto da coloro che vivono nel presente. Solo il presente è realtà […]. La mia vita fu una vita mondiale. Ho vissuto la vita del mondo. Ma il mondo smise di vivere per vari decenni, poi in pochi anni progredì di un secolo! Così soltanto ora sto rientrando in possesso del mio, avendo in qualche modo perso trent’anni lungo la strada – aspettando Godot – finché il mondo mi ha ripreso, mi ha raggiunto. Retrospettivamente, è tutto molto strano, il martirio dell’isolamento era solo apparente, in definitiva stavo solo aspettando me stesso. Ora il piatto della bilancia pende contro di te, contro di me, perché nel giro di dieci anni sarei vendicato, se fossi ancora in vita. La mia opera è per l’Asia e per l’Africa (Polanyi-Levitt, Mendell 1987: xxiii-xxiv).

Break with the values of the world

Karl Polanyi appartiene a quella generazione di intellettuali e di romanzie­ri (Joseph Schumpeter, Karl Mannheim, Franz Kafka, Karl Popper, James Joyce, lo stesso Wittgenstein, e anche Conrad e Malinowski) che, improv­visamente, più che senza patria, si trovarono senza storia. Nei grandi ro­manzi incompiuti della cultura mitteleuropea, nostalgia e senso del vuoto si mescolano a ironia e frustrazione; si sorride sull’immagine mitica di un passato immobile, fuori del tempo, fatto di tradizioni, di certezze, di pic­cole cose. Allo stesso modo nella saggistica prevale il sospetto per ogni si­stema chiuso, una particolare cautela verso le insidie nascoste nei concetti e nelle parole, e, al tempo stesso, la disposizione a ragionare per grandi prospettive, senza temere di lasciare incompiuta la propria riflessione.

Polanyi non fa eccezione. Il suo lavoro, compresa La Grande Transfor­mazione, si presenta come un laboratorio intellettuale, a volte disordinato, affollato di esperimenti sospesi, ipotesi abbozzate, o non sempre adegua­tamente sostenute. Su molte questioni torna più volte, su altre si propone di tornare.

Eppure se di continuo superamento intellettuale si può parlare, è un superamento interno a una riflessione che prende già forma negli anni viennesi (se non ungheresi) intorno ad alcuni temi fondamentali e, in pri­mo luogo, intorno a quell’interrogativo, a quella «direzione appassionata» di ricerca, di cui scriveva già nella lettera del 1925: come possiamo essere liberi, malgrado la società?

The Great Transformation si apre e si chiude con il medesimo inter­rogativo «Quale satanico meccanismo (satanic mill) ridusse gli uomini a masse?» (1944, trad. it.: 45), «Esiste qualcosa come la libertà in una società complessa?» (ivi: 319). Freedom in a Complex Society è anche il titolo del dattiloscritto inedito del 1953 su Rousseau, ed è il titolo di un altro datti­loscritto inedito del 1957; ed è principalmente il titolo che avrebbe voluto dare a uno dei molti libri che si proponeva di scrivere.

L’opposizione libertà vs società, appassionata scoperta degli anni di Vienna, è destinata in seguito ad esplodere in molte direzioni: diverrà op­posizione fra comunità e società, fra politica ed economia, fra il presente, come sicurezza del proprio luogo nel mondo, e il futuro, il cambiamento (tutto ciò che è racchiuso in quel titolo del terzo capitolo della sua ope­ra maggiore, Habitation versus Improvement), e, negli scritti degli anni Cinquanta, diverrà opposizione fra uomo e società delle macchine, fra possibilità di scelta e consumi di massa.

Prima di ragionare sull’opera di Polanyi e per evitarne i frequenti fraintendimenti (Graeber 2011), è necessario, tuttavia, soffermarci molto brevemente su un aspetto meno indagato del suo lavoro (con la parziale eccezione di Fleming 2001 e McRobbie, Polanyi-Levitt 2006): la strategia discorsiva, il carattere sistemico e relazionale del suo procedere intellet­tuale e del suo linguaggio. Polanyi pone la questione della lingua e per dirla con Antonio Gramsci: «Ogni volta che si affronta, in un modo o nell’altro, la quistione della lingua, significa che si sta imponendo una se­rie di altri problemi» (Gramsci 1975: 2346).

Più volte nei suoi scritti Polanyi osserva come molte controversie sia­no risultato di ambiguità verbali: «mere verbalizzazioni di questioni non definite».

Ancora una volta ci siamo imbattuti in una famigerata discussione che a un’osser­vazione più attenta si è rivelata una mera verbalizzazione di questioni non definite: l’uomo economico era reale? Ma si dava per scontato il significato di economico, il che escludeva la possibilità di qualche risposta rilevante (Polanyi 1977, trad. it.: 54, corsivo mio).

Per brevità chiamo questo modo discorsivo un “procedere per opposi­zioni”; un metodo di ricerca che costituisce quasi lo schema del ragionare polanyiano, e che, in una nota biografica del 1962, Polanyi espone come segue:

La [mia] personalità si espresse nel modo in cui questa dualità dette forma alle cose: fatto e valore, empirismo e normatività, società e comunità, scienza e reli­gione […]. Eppure, retrospettivamente risulta che questa polarità formò l’asse costante del mio mondo intellettuale (Polanyi-Levitt, Mendell 1987: xx).

Teniamo a mente queste dualità, perché in Polanyi non ci sono parole usate a caso: “fatto” e “valore”, “empirismo” e “normatività”, “società” e “comunità”, “scienza” e “religione”.

È poco importante stabilire se “questa dualità che dà forma alle cose provenga a Polanyi dall’atteggiamento antidogmatico del periodo unghe­rese, dalla lezione lukacsiana, dall’antideterminismo dell’austromarxismo, o semplicemente dall’esperienza storica. Ci saranno l’una e l’altra eredità, ma principalmente c’è la messa a punto di un modo di pensare. È una stra­tegia di pensiero, che si fa sempre più consapevole: non tanto e non sem­plicemente vedere l’altro verso della medaglia, quanto ristabilire quell’am­piezza e complessità dei fatti, quel loro carattere sempre relazionale, che la singola parola, la parola al singolare, inevitabilmente nasconde.

Diciamolo con un vocabolo che non si dovrebbe mai usare (se non in modo appropriato): si tratta, in primo luogo, di “decostruire” il linguaggio delle scienze sociali, a partire dai termini più comuni. L’errore contro cui Polanyi si impegna è presto detto: è la stessa fallacia della concretezza mal­posta di cui avevano parlato Mach e i neopositivisti, e di cui in quegli anni parlava Wittgenstein. Si potrebbe dire di più, si potrebbe definire Polanyi un esponente nelle scienze sociali di quella filosofia analitica che sembra seguirlo nelle tante tappe del suo esilio. Ad avere spazio (tempo e voglia) sarebbe interessante confrontare il linguaggio di Polanyi con quello di Ma­linowski. Tutti e due esuli del grande impero e allievi di Mach e per qualche tempo neighbors di Wittgenstein. E dunque, come suggerito da Antonino Colajanni, sarebbe interessante confrontare le riflessioni di Polanyi sulla “li­bertà” con il libro postumo di Malinowski Freedom and Civilization (1947).

Polanyi avverte che nel linguaggio si riflette una civiltà, si nasconde una concezione del mondo, e un impedimento a capirlo altrimenti. Avverte che bisogna fare i conti con il linguaggio ordinario per smontare la «translucida obiettività» della civiltà capitalistica, e per rimettere in moto la conoscenza.

Non è un vizio della civiltà capitalistica, è stato probabilmente il vizio di ogni civiltà e di ogni linguaggio. Non diceva Wittgenstein che i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo? Un doppio “errore”: ignorare la natura storica, la natura processuale dei fatti («il loro essere in movimento»), e, poi, assumere le parole come controprova dell’identità e sostanza dei fatti. È l’inganno, il circolo vizioso, in cui cadono tutte le ide­ologie: modellano i fatti nelle proprie parole e poi portano quelle parole come prova dei fatti. Ed è la ragione per la quale
dobbiamo insistere nella richiesta di una nuova sociologia, o almeno di nuove parole che ci libererebbero dal grave inconveniente di essere del tutto incapaci di descrivere gli eventi più banali del nostro tempo senza implicare esattamente l’op­posto di quel che intendiamo esprimere (Polanyi 1934, trad. it.: 118, corsivo mio).

Bisogna tornare dalle parole ai fatti per mettere in luce la natura stori­ca, relazionale e sistemica, di questi ultimi: la vita che si nasconde dietro l’univocità delle parole. Significative sono in questo senso le riflessioni di Polanyi sul pensiero di Hegel e Nietzsche. Il primo all’inizio della storia del capitalismo, quando la forma del sistema era ancora incerta, orientò la realtà verso la ragione; il secondo, quando la storia di quel sistema vacilla­va, orientò piuttosto la realtà verso l’istinto. Ma ambedue, a differenza dei loro epigoni, riconobbero al di sotto dell’ingannevole superficie il caratte­re composito e dialettico della totalità.

Sia Nietzsche, sia Hegel furono pensatori di grande passione intellettuale, ma le loro presenti incarnazioni, benché di statura inferiore, li superano di molto quan­to a orientamento unilaterale del pensiero. Klages è Nietzsche senza il superuo­mo. Spann è Hegel amputato della dialettica […]. L’uno ridotto a un animalismo esaltato, l’altro a un totalitarismo statico (Polanyi 1935, trad. it.: 102).

Basta leggere con un po’ di attenzione gli scritti di Polanyi per notare come molti saggi inizino con il riconoscere la natura soporifera, confusa e fraudolenta delle parole e con la richiesta di una loro ridefinizione. Gli esempi possibili sono molti (specie negli scritti pubblicati in vita):

Si prenda il termine rivoluzione. Nella sociologia marxista corrente è strettamente limitato a cambiamenti radicali del sistema economico. Questo tabù rende del tutto impossibile fornire qualcosa come una descrizione sociologica adeguata di un terremoto storico come, per esempio, la rivolta nazionalsocialista in Germania (Polanyi 1934, trad. it.: 119).

Il termine democrazia ha molti significati diversi e il futuro della pace di­pende oramai dalla sua corretta interpretazione (Polanyi 1945/1987: 151).

L’impiego del termine economico è affetto da ambiguità. La teoria economica lo ha investito di un significato limitato nel tempo che lo rende inservibile al di fuori degli stretti confini della nostre società dominate dal mercato (Polanyi 1977, trad. it.: 42, corsivo mio).

Non posso qui discuterne più di tanto, ma basta scorrere la corrisponden­za polanyiana tra il 1940 e il 1943, durante la stesura di The Great Transfor­mation, per rendersi conto di quale lavorio di bisturi e quale ragionare ci fosse dietro ogni parola. Specie con il fratello Michael e con George Cole lo scambio di lettere è in quel periodo particolarmente intenso. Cole si dichiara d’accordo sulle tesi di fondo del libro, ma consiglia di attenuarne alcune espressioni, di smussare alcuni passaggi che giudica «mostruosa­mente enfatizzati». Un analogo suggerimento gli viene dal fratello. In am­bedue i casi Polanyi difende la propria posizione e il proprio linguaggio, e, anzi, nell’ottobre del 1943 scrive al fratello di considerare proprio quello stile monstrous e murderous il cardine della propria scrittura.

My “murderous” description of the potential effects of a market-economy is inde­ed critical to my position. It implies a number of definitions which are necessary for the sake of clarity, mainly of the terms “society” and “institution”, as well as “incompatibility” (Fleming 2001: 20).

Il mercato capitalistico ha prodotto destruction, catastrophe, calamity, cataclysm, li­quidation devastating, unprecedent havoc, peril, ravages, collapse, desolation. Polanyi non solo non evita espressioni iperboliche, ma anzi ce ne mette quanto più possibi­le. C’è in tutta l’opera, e specie nelle prime pagine di The Great Transformation, la ricerca di una forma letteraria che lasci subito una forte impressione nel lettore.

Nessuna spiegazione che non tenga conto della rapidità del cataclisma può dirsi soddisfacente […]. Una trasformazione sociale di portata planetaria viene sor­montata da guerre di un genere senza precedenti nelle quali diversi stati sono ab­battuti e i contorni di nuovi imperi stanno emergendo da un mare di sangue. Ma questo fatto di demoniaca violenza si sovrappone soltanto a una veloce e silenzio­sa corrente di mutamento che inghiotte il passato spesso senza neanche increspar­si in superficie. Un’analisi ragionata della catastrofe deve tener conto a un tempo dell’azione tempestosa e della quieta dissoluzione (Polanyi 1944, trad. it.: 7).

Sullo stesso titolo del libro Polanyi discute a lungo. Le ipotesi consider­ate sono molte: The Liberal Utopia, The Great Transition, The Origins of the Cataclysm, Future of Industrial Man. Si decide alla fine per The Great Tranformation. Non ne è pienamente soddisfatto: vorrebbe un titolo più incisivo, più tagliente, che dia il senso dell’attualità politica. E in effetti, nell’edizione inglese dell’anno seguente il titolo diverrà Origins of Our Time: The Great Transformation.

Le parole sono importanti, devono essere scelte con cura («la ricerca della parola giusta nelle notti insonni»), perché sono la nostra prima gab­bia, il riflesso di quella che in un famoso saggio del 1947, chiamerà Our Obsolet Market Mentality. Alcuni dei termini più frequenti delle scienze sociali non trovano nei suoi lavori molto spazio, specie i termini appa­rentemente più chiari e più carichi di senso ideologico, e, dunque, più pericolosi. Se il “cercaparole” del computer non tradisce, in The Great Transformation Polanyi parla di “proletariato” (come classe) una sola vol­ta, e quando usa questa espressione ne sottolinea subito l’ambivalenza, il suo implicare un dato di sviluppo storico e al tempo stesso un dato di miseria: «Il significato originario della parola “proletariato”, che lega la fecondità alla mendicità, è un apparente riflesso di questa ambivalenza» (1944, trad. it.: 207). Polanyi sviluppa una teoria articolata delle classi so­ciali, ma non ne discute mai in termini di classe contro classe, non traccia mai confini netti fra le classi sociali, utilizza sempre termini volutamente generici come classi lavoratrici, classe media, o termini “plurali” come «the industrialists, entrepreneurs, and capitalists». E, malgrado le letture lukácsiane, utilizza molto poco anche un altro termine di grande ambuità: “dialettica”. È un termine che, come vedremo presto, non si addice al suo pensiero. Preferisce parlare di contrast, opposition, ambivalence, e princi­palmente di double movement.

È facile notare l’assenza di termini tecnici. La prosa di Polanyi (tranne, forse, nel saggio del 1922 su La contabilità socialista e nelle successive pole­miche) è quella delle lezioni preparate per i lavoratori del Circolo Galilei, o per i corsi della Worker’s Educational Association. Ha l’eleganza di non inventare mai parole poco usuali, o, se lo fa, lo fa soltanto a ragion veduta, quando si tratta di ironizzare sulla retorica del teorico dell’iperliberismo
economico Ludwig von Mises, o sulla «pseudofilosofia» della invisible hand, a cui, già nella lettera del natale 1925 a Richard Wank, oppone l’im­magine di una società e di uno scambio übersichtlich, trasparente, e l’idea che una politica trasparente richieda termini trasparenti. Altre volte la po­lemica è più sfumata. Non è lo spettro del comunismo ma quello del merca­to ad aggirarsi per la storia, e da tempi ben lontani: «Il suo spettro aleggia sugli splendidi ritmi di Le opere e i giorni e vi infonde una misteriosa nota profetica» (Polanyi 1977, trad. it.: 195). Non è la religione, ma l’utilitarismo a essere “l’oppio dei popoli”: «Perciò l’utilitarismo, che è ancora l’oppio di masse d’uomini oggetto di mercato» (ivi: 73).

Le parole devono essere ben scelte ed essere estreme, devono collocar­si al limite del concetto, devono sfidare le nostre sensazioni, sollecitare la nostra esperienza, perché sia possibile cogliere l’ipocrisia della logica del “fino e non oltre”, la gabbia del “tutto o niente”. Le parole devono essere estremizzate così da rendere palese l’inganno che si riflette nel linguaggio e nella nostra stessa “obsoleta mentalità di mercato”. Una sorta di cura omeopatica del nostro verbalismo: accentuare la malattia per rendere pa­lesi i suoi sintomi e per mobilitare l’apparato immunologico della specie.

Il linguaggio deve essere profondo, deve coinvolgere il senso morale della storia, farne intendere la profondità. Il cristianesimo e il socialismo erano molto diversi e per certi versi opposti: lo aveva ben visto Robert Owen quando rifiutava l’idea dell’uguaglianza astratta e metafisica predi­cata dal primo. «Robert Owen fu il primo nella società industriale a vede­re che il cristianesimo negava la realtà della società» (Polanyi, 1944, trad. it.: 319). Ma, per altro verso, socialismo e predicazione evangelica (a cui spesso Polanyi si richiama) avevano in comune il riconoscimento per ogni uomo dell’obbligo e della libertà della scelta morale, come dato fondante della condizione umana, e come conquista massima della civiltà occiden­tale. Era per Polanyi la lezione che gli veniva da Dostoevskij, la lezione che sentì fortissima in tutta la vita e che si riflette nel suo linguaggio: la storia come «the war between heaven and hell» (Polanyi 1944, trad. it.: 32); la libertà della scelta contro la demoniaca alchimia (demoniac alchemy) della favola di Mandeville, contro the Inferno of early capitalism, contro il satanic mill che ridusse gli uomini a masse.

Faccio queste poche osservazioni di Polanyi sul linguaggio, e molte altre se ne potrebbero fare, nella convinzione che alcune critiche, come, del resto, alcuni applausi, vengano dalla mancata comprensione di una strategia che procede per contrasti, e, anzi, che li aggrava, ma non per scegliere un estremo piuttosto che un altro (la società piuttosto che l’indi­viduo, il proletario piuttosto del capitalista, l’economia di mercato piutto­sto dell’economia di piano), ma per contestare nella sua totalità la forma storica che li esprime.

Per Polanyi, l’errore essenziale di ogni ideologia (del liberismo – ri­formismo keynesiano compreso – come del marxismo) sta nel vedere una parte del problema e nel perdere di vista il tutto, nel confondere la parte con il tutto e nell’illudersi che il prevalere di un termine sull’altro compor­ti la soluzione, piuttosto che l’aggravamento dell’opposizione. Un errore logico, prima che ideologico, molto vicino a quello individuato e, a pro­prio modo, risolto da Bertrand Russell con la Theory of Types, un errore che porta a credere che la libertà significhi superamento della società, o, al contrario, che la socialità debba tradursi in oppressione dell’individuo, o che la sconfitta di una classe significhi la vittoria dell’altra, o, ancora, che i mali del mercato possano trovare cura nell’intensificare la logica del mercato stesso.

Sempre più gli sarà chiaro che in gioco è il sistema e non una parte di esso e che la “vittoria” sta nel superamento delle false alternative che il sistema pone, nella disponibilità di tutti a fare in modo che «le forze che premono sul presente possano liberarsi in nuove direzioni verso nuovi traguardi» (McIver 1944). Non si tratta di parlare per l’una o per l’altra parte, ma di cambiare discorso. La parola estremizzata deve evocare il suo opposto e farci sentire la falsità dell’alternativa. «L’errore logico era di tipo comune e innocuo: si rite­neva che in qualche modo un fenomeno vasto e generico fosse identico a una specie che si dà il caso ci sia familiare». (Polanyi 1977, trad. it.).

Il fatto è che in quegli anni questa obsoleta mentalità di mercato era assai diffusa e molti, come si legge in Furore di John Steinbeck (1940, trad. it.: 40), davvero pensavano e parlavano come se
La Banca (o la Società) intende […] vuole […] ha bisogno […] esige […] quasi che la Banca o la Società fosse un essere mostruoso, dotato di intelletto e senti­mento, che li tenesse prigionieri fra i suoi tentacoli […]. Alcuni rappresentanti erano orgogliosi d’essere schiavi di così possenti e inesorabili padroni. Sedevano sui cuscini della vettura e spiegavano […]. Oh, ma la Banca o la Società non può, diamine! Non è una creatura che respira aria, che mangia polenta. Respira divi­dendi, mangia interessi. Senza dividendi, senza interessi, muore, come morireste voi senz’aria o senza polenta. È triste, ma è proprio così.

La sorpresa dell’antropologia

Tornerò sul linguaggio di Polanyi, ma ora proviamo a rileggere la sua ope­ra principale tenendo presente questo suo “procedere per opposizioni”.

A metà degli anni Trenta la vita di Polanyi ha subito una nuova svolta. «Dal 1909 al 1935 non ho concluso nulla. Ho disperso le mie forze in dire­zioni insignificanti del tutto idealiste, andando alla deriva…» (McRobbie, Polanyi-Levitt 2006: 309).

A Vienna si ragionava di socialismo umanitario, di Marx e di Lenin, ma lo scenario era ancora quello mitteleuropeo, un mondo antico e sconfitto, che faceva fatica a tramontare. A Londra, invece, capitalismo e socialismo si contendevano davvero la storia. Per Polanyi è un passaggio decisivo. «Ero impegnato soprattutto nello studio delle scienze sociali, compreso l’approccio marxista» (Polanyi-Levitt, Mendell 1987: xl).

Nel 1936 con il gruppo della Christian Left Polanyi commenta i Ma­noscritti economico-filosofici del 1844, una lettura che, insieme con altre esperienze intellettuali, contribuisce a rendere gli interrogativi sulla que­stione della libertà in una società complessa (domande e risposte) molto più radicali e aggrovigliati di quanto non fossero sembrati. Il capitalismo gli si presenta sempre più come stravolgimento della stessa natura sociale dell’uomo, riduzione della società a massa informe, perdita della libertà individuale. L’ulteriore passo è quasi obbligato e consiste nel dare corpo alla critica filosofica del presente attraverso la ricerca delle sue differenze specifiche, mettendo in evidenza le sue singolarità storiche ed etnologiche. Sono le tappe della sua vita, quelle rivoluzioni che ogni volta lo avevano costretto a ricominciare: la scoperta della politica a Vienna, l’estendersi dell’indagine alla storia economica e alla filosofia del capitalismo, a Lon­dra; e infine, negli Stati Uniti, la scoperta della necessità del giro lungo. Ce ne sarà una quarta, incompleta, impossibile, ma conseguenza di tutto il tragitto: il tentativo di pensare un’antropologia generale delle forme della sussistenza umana (Livelihood of Man).

Prima di The Great Transformation nei lavori di Polanyi non si incon­trano riferimenti etnologici e anche nell’opera del 1944 la prospettiva etno­antropologica è appena accennata, più evocata che realmente esplorata. I riferimenti alle società precapitalistiche sono generici, utilizzati, direbbero gli esperti di fotografia, come maschera di contrasto, per mettere meglio a fuoco la specificità del presente. Attraverso la testimonianza etnologica si tratta di denunciare la pseudofilosofia del capitalismo, le sue pretese di universalità: l’idea che il desiderio di guadagno e profitto personale sia disposizione naturale della specie, che ogni uomo sia per sua natura homo oeconomicus; l’idea che la storia e la società siano governate dalle leggi materiali dell’economia e che i moventi ideali, i sistemi sociali e culturali, siano una mera appendice delle stesse; l’idea, infine, che il mercato self-regulating sia forma naturale di scambio, e come tale fondamento della so­cialità umana e, dunque, che la società capitalistica sia l’espressione finale e più alta della storia.

La sponda etnologica serve solo per dire quel che il presente non è, pur pretendendo di essere. E, in effetti, in The Great Transformation i rimandi alle ricerche etnologiche sono pochi. Si accenna ai lavori di Mali­nowski; si citano di sfuggita Firth, Lucy Mair, Goldenweiser, Rivers. Con ogni probabilità, e, anzi, con ogni evidenza, benché non lo citi, Polanyi legge il saggio Culture Contact and Schismogenesis di Gregory Bateson pubblicato per la prima volta in Man nel 1935 e più tardi (significativa­mente) ripubblicato da Paul Bohannan nel 1967 in Beyond the Frontier. È il saggio nel quale Bateson teorizza la schismogenesi simmetrica, teorizza, per dirlo molto semplicemente, come accada che un meccanismo simme­trico di concorrenza rischi nel tempo di rovinare ambedue i contendenti e quindi come in tutte le società si siano creati sistemi di mediazione della competizione (Sobrero 1999). Polanyi ne usa gli stessi termini, ne ricalca la strategia di pensiero.

L’unico antropologo realmente e dichiaratamente utilizzato rimane, tuttavia, Richard Thurnwald, esponente di quell’antropologia di area te­desca caratterizzata da un forte legame con la filosofia della storia, e, dun­que, in questa fase, ben più vicina agli interessi di Polanyi di quanto non fossero le ricerche dei funzionalisti inglesi.

Il quadro cambia decisamente nel periodo americano. Ora Polanyi può parlare di sorpresa dell’antropologia. Le letture antropologiche si moltipli­cano (già se ne trova ampia attestazione nelle Notes on Sources aggiunte in appendice a The Great Transformation): Thurnwald e (ora) Malinowski, per diverse ragioni familiari alla sua esperienza mitteleuropea, rimangono gli autori più citati, ma a loro, e agli antropologi inglesi, si aggiungono Lowie, Linton, Benedict, Mead, e in primo luogo gli allievi americani, Ge­orge Dalton e Paul Bohannan. Come ha osservato in un recente dibattito Matteo Aria, la “sorpresa” americana non gli offre, invece, la possibilità di confrontarsi con l’antropologia francese, con Durkheim, Mauss, Bataille, autori con i quali avrebbe avuto molto da spartire e comunque con i quali avrebbe avuto molto da discutere.

La critica è rimasta spesso vittima delle brusche svolte del percorso di Polanyi. Come accennavo, alcune ricostruzioni insistono sull’aspetto più politico del suo pensiero, dagli anni della formazione e dell’impegno viennese, attraverso l’opera maggiore, fino ai saggi di filosofia e di attualità politica degli ultimi anni, sottovalutando, se non omettendo del tutto, gli studi e gli scritti antropologici; altre – per lo più le letture degli antro­pologi – insistono sui saggi di carattere etnologico degli anni Cinquanta, perdendo spesso di vista il prima e il dopo, l’impianto generale entro il quale questi lavori si collocano e acquistano ragione d’essere. Nel primo caso si rimprovera spesso a Polanyi un astratto idealismo, una visione uto­pica magari non troppo diversa da quella di Robert Owen, l’utopista del primo ottocento, al quale Polanyi (proprio per la ragione opposta, per la concretezza che ne distingueva il pensiero) amava spesso richiamarsi. Nel secondo caso, nelle letture degli antropologi, si rimprovera a Polanyi un certo presappochismo, analisi etnografiche di seconda mano e alquanto confuse, un generico empirismo. Penso che sia gli uni che gli altri abbiano qualche ragione, ma penso anche che il limite di ambedue le letture sia privilegiare questo o quel tratto del percorso, questa o quella prospettiva parziale, perdendo di vista l’insieme.

A cercare di valutare l’opera di Polanyi nel suo complesso, come qui sto facendo, il giudizio cambia: o meglio, forse Polanyi rimane un ideali­sta che cercò, magari un po’ confusamente, la strada per non essere tale («Per quanto io protesti, me ne rendo conto, non potrei evitare di essere considerato un idealista»), ma almeno, a osservare dall’interno le molte di­rezioni del suo territorio intellettuale, si riesce a scorgere l’inizio di quella strada, una prospettiva che non è né solo critica dell’ideologia presente, né solo indagine etnologica, ma che cerca di aprirsi a una visione generale della storia umana.

Gli studi etnologici gli spalancano davanti uno spazio di cui era diffi­cile vedere i confini e lo stesso Polanyi era consapevole di come alla luce di quegli studi The Great Transformation fosse diventato solo la premessa per una riflessione ben più estesa.

La concezione filosofica de La Grande Trasformazione deve essere qui ampliata al di là dei brevi cenni con i quali si chiudeva quel libro. La civiltà tecnologica nella sua fase suprema sta spostando l’asse delle nostre preoccupazioni: dall’economia a questioni morali e politiche, alcune delle quali completamente nuove (Polanyi 1957/1987: 181).

Letta in questa chiave l’opera complessiva di Polanyi ha una tensione siste­matica, e, al tempo stesso, una circolarità espansiva che ne rende difficile un’esposizione lineare. E di questo cammino The Great Transformation è passaggio chiave e, magari, un po’ disordinato: un libro non facile, perché da una parte vi giunge a termine l’ispirazione ideale e l’analisi storica ed economica condotta nei saggi degli anni Trenta, dall’altra vi si anticipa il quadro teorico che Polanyi svilupperà negli anni seguenti, al cui centro sta appunto, “la sorpresa” della prospettiva antropologica.

A class struggle without class

Il titolo della prima edizione del libro non era forse tanto esplicito quan­to Polanyi avrebbe desiderato, ma l’incipit non lascia dubbi: «Ninete­enth Century civilization has collapsed». «Like a pistol shot», ha scritto McRobbie (2006: 92). La grande trasformazione può dirsi consumata. Nel secolo precedente il sistema economico del capitalismo sembrava avere realizzato le proprie promesse, la propria missione civilizzatrice: lunghi periodi di pace, una base aurea a garanzia della stabilità interna e della sicurezza dei grandi commerci, la progressiva evoluzione dei governi ver­so un modello liberal-democratico. Ma fra le due guerre mondiali tutto era crollato. Era giunta a termine la kantiana pace universale e con essa le speranze di benessere e di progresso civile.

L’analisi potrebbe iniziare con le parole, altrettanto scolpite, con le quali inizia il Capitale: «La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come un’immane raccolta di merci». E potrebbe continuare con la prima sezione di quel testo. Il mercantilismo del xvii e xviii secolo ha preparato il terreno e nell’Otto­cento le forze del mercato hanno completato la loro avanzata, riducendo a merce, liberando e mettendo sul mercato autoregolato anche i fattori della produzione che più di altri erano in precedenza incorporati (embedded) in altre sfere della vita sociale: il lavoro e la terra.

Era inevitabile che anche il lavoro e la terra diventassero pienamente merci, benché il lavoro sia soltanto un altro nome per la vita stessa, e la terra sia soltanto un altro nome per la natura.

E necessaria alla piena affermazione di un sistema di mercato era an­che la progressiva riduzione della moneta a misura astratta di un valore determinato unicamente dal suo potere di acquisto. La moneta da bene-strumento per far di conto, da bene assunto come equivalente generale per semplificare lo scambio, da “moneta-segno” diventa sempre più essa stessa merce. E con la moneta si vendono e si comprano il lavoro, la terra e la moneta stessa: merci entirely fictitious, immaginarie, beni non nati per essere merci. La vita, la natura e il denaro, come equivalente di socialità, non possono avere il carattere della merce. Isolare e alienare il lavoro, la terra e la società, e farne mercato, separare l’uomo dalla propria vita, dalla natura e dagli altri uomini «è stata forse la meno naturale di tutte le imprese dei nostri antenati» (Polanyi 1944, trad. it.: 228).

Secondo la nota formula marxiana, dalla sequenza merce-denaro-mer­ce, m-d-m, si è passati alla sequenza d-m-d; dalla merce-moneta si è passati alla moneta-merce, ma sempre più è una strana merce, una merce “fitti­zia”, una “moneta-segno”, che permette di realizzare l’antico mito della sequenza d-d, il sogno di una moneta che produce moneta, la magia in­contrastata dei beni illimitati, del potere che produce potere. In discussio­ne non è l’origine e la storia della forma-denaro: il denaro si è presentato probabilmente da sempre sia come valore reale che come valore virtuale, come “bene” e come “segno”; la ricostruzione storica di Polanyi ha cer­tamente limiti e ingenuità, ma l’importante è mettere in evidenza come la seconda forma sia non solo destinata a prevalere sempre più sulla prima, ma come questo prevalere sia intrinseco alla natura del capitalismo.

Per i teorici del liberismo il capitalismo è la realizzazione dell’istinto naturale dell’homo oeconomicus, la liberazione dalle precedenti costrizioni sociali. Per Marx è l’ultimo dei modi di produzione. Per Polanyi il sistema
capitalistico, dominato dal libero mercato, non è né la prima cosa, né sem­plicemente la seconda, ma uno spartiacque della storia, una condizione completamente nuova, un’eccezione nella storia dell’umanità.

La trasformazione della precedente economia in questo sistema è così completa che assomiglia più alla metamorfosi del bruco che non a qualunque altra alterazio­ne che possa essere espressa nei termini di crescita e sviluppo continuo (ivi: 56).

Presto dal Capitale si torna ai Manoscritti del ‘44. In termini assoluti è indubbio che il sistema capitalistico di mercato abbia prodotto uno stra­ordinario arricchimento di vasti settori della popolazione, ma altrettanto straordinaria fu la miseria e il degrado spirituale in cui precipitarono set­tori ben più vasti.

Tutto l’impianto storico-economico polanyiano pecca di un qualche schematismo, ma quel che interessa Polanyi in questo contesto, non è tan­to il processo di separazione fra capitale e lavoro, e, dunque, la teoria del valore-lavoro e la teoria dello sfruttamento che ne consegue. E il problema non è neanche quello di spostare l’attenzione dalla produzione alla distri­buzione della ricchezza (diversamente da quanto pensavano i suoi critici francesi, Dupré, Rey 1969; Meillassoux 1977).

La rivoluzione del xix secolo è figlia e madre dei progressi della scien­za, del macchinismo, dell’enorme incremento della produttività e dei con­sumi, ma in nessuno di questi fattori sta, per Polanyi, l’origine del collas­so della sua pretesa di civilizzazione. E determinante non fu neanche il mercato in quanto tale. Determinante, più dei fatti, fu l’utopia del libero mercato su cui la politica economica liberista si fondava e si fonda, e in base alla quale si giustifica: il mito dell’individualismo, della concorrenza, il mito dell’onnipotenza delle tecniche e della possibilità di uno sviluppo senza limiti, quella macchina satanica che prima isola l’uomo assogget­tandone comportamenti, attività e rapporti sociali, alle leggi del mercato, e poi ricostruisce fittiziamente una parvenza di potere sulle cose e una parvenza di socialità fra gli uomini nella forma anonima del mercato e della massa.

La causa della degradazione non è, come spesso si è voluto asserire, lo sfruttamen­to economico, ma la disgregazione dell’ambiente culturale della vittima. Il proces­so economico può naturalmente rappresentare il veicolo di questa distruzione e quasi sempre l’inferiorità economica porterà il più debole a cedere (Polanyi 1944, trad. it.: 202).

Qui non posso addentrarmi più di tanto in un’esposizione della teoria del conflitto fra le classi sociali in Polanyi. Vale la pena, tuttavia, accennare al tema per evitare possibili equivoci. Scrivono, ad esempio, Chris Hann e
Keith Hart, in un testo, per altri versi, di ottima fattura: «Non si può ne­gare che Polanyi abbia rivolto ben poca attenzione al lavoro e al conflitto di classe» (2011, trad. it.: 86). Almeno per quanto riguarda il conflitto di classe, l’affermazione mi sembra imprudente. In The Great Transforma­tion e nei lavori successivi Polanyi sviluppa una teoria articolata (a volte avvicinata a quella gramsciana) delle classi sociali e, pur non parlando mai in termini di classe in senso marxiano, non parlando, come dicevo, di proletari e di capitalisti, ma utilizzando termini molto “larghi” (groups, sections and classes, o semplicemente common people), ritiene il ruolo delle “classi” essenziale per comprendere la storia moderna.

L’accentuazione posta sulla classe è importante. I servizi alla società resi dalla classe agraria, dalla classe media e dalle classi lavoratrici modellarono tutta la storia sociale del diciannovesimo secolo. La loro parte era determinata dalla loro disponibilità a svolgere varie funzioni che derivavano dalla funzione totale della società. Le classi medie sostenevano la nascente economia di mercato (ivi: 170).

Vediamo i passaggi essenziali di questa impostazione. Di certo, scrive Polanyi, specie nella prima fase del capitalismo i rapporti fra le classi furono conflittuali e determinati principalmente da motivi economici. I processi di industrializzazione e di urbanizzazione della prima metà dell’Ottocento gettarono gran parte della società in una condizione di disperazione materiale del tutto nuova, una situazione che era difficile non vedere. «Né Charles Kingsley, né Friedrich Engels, né Blake, né Carlyle si sbagliavano nel credere che l’immagine dell’uomo fosse stata deturpata da qualche terribile catastrofe» (ivi: 125). Per tutto il xix seco­lo, il conflitto fra le classi è stato, come voleva Marx, il motore della sto­ria ed è stato in primo luogo risultato di interessi economici e di sistemi di valori antagonisti.

Più la borghesia imprenditoriale ha imposto la logica del mercato, più le classi deboli hanno messo in atto forme di difesa e tutela dei propri interessi. Il conflitto era inevitabile, ma l’errore delle classi più deboli è stato di assumere la lotta di classe come fondamento della propria politi­ca, di vedere solo una parte del problema, o meglio di vedere il problema solo dalla propria parte, dal punto di vista in cui erano costrette dalla logica imposta dal mercato. L’aspetto economico rimane la ragione mate­riale dell’antagonismo sociale, ma a vedere solo la prospettiva economica e materiale del conflitto si rischia di cadere nella trappola del pregiudizio materialista ed economicista, e, dunque, nelle teorie che giustificano le sofferenze sociali come momento di passaggio necessario, ma breve, per la realizzazione di una ricchezza diffusa.

Un liberismo illuminato ha potuto e può anche riconoscere alla lotta di classe il merito di mantenere un qualche “equilibrio” all’interno della struttura sociale. È la ragione che hanno permesso «il silenzio di ghiaccio (the icy silence) con il quale Malthus e Ricardo sfioravano le scene dalle quali nasceva la loro filosofia di perdizione del mondo» (ibid.).

Nulla di più era accaduto, insistevano questi studiosi, se non che un graduale spiegamento delle forze del progresso tecnologico aveva trasformato la vita della gente; indubbiamente molti soffrirono nel corso di questo cambiamento, ma nel complesso si trattò di una storia di continui miglioramenti. Questo esito felice era il risultato del funzionamento quasi inconscio delle forze economiche che com­pivano la loro benefica opera nonostante l’interferenza di gruppi impazienti che esageravano le inevitabili difficoltà del tempo (ivi: 207).

Lo sviluppo del mercato era destinato indubbiamente a migliorare la con­dizione di vasti strati della popolazione. La vera catastrofe non fu tanto di ordine economico; la vera catastrofe, più sottile e meno riconoscibile, fu di ordine esistenziale: era l’estensione dei meccanismi di espropriazione di cui Marx aveva parlato nei saggi del 1944, era la riduzione dei rappor­ti sociali e del senso comune alla logica del mercato, una condizione di “vuoto culturale” (cultural vacuum) che riguarda tutta la società e non una sola classe, per quanto fosse più evidente nelle classi più deboli. Come la regola aurea della società medievale era il diritto di nascita, così quella della società di mercato consiste nel separare la vita “materiale” da quella “ideale”, e nell’asserire la priorità delle motivazioni materiali rispetto a ogni altro aspetto dell’esistenza, nel fare in modo che il “benessere”, la ric­chezza e la povertà, come l’etica, l’estetica e il diritto, diventino funzioni economiche, entrino nella sfera del proprio potere.

Per quanto riguarda l’uomo, si fu costretti ad accettare l’eresia che i suoi mo­venti possano essere definiti “materiali” e “ideali”, e che gli incentivi intorno ai quali la sua vita materiale si organizza derivino dai moventi “materiali” (Polanyi 1947a/1968: 59).

La mela era avvelenata. Lo stesso popular Marxism non ha saputo sottrarsi all’inganno, ha avuto il difetto di non vedere lo sviluppo del generale die­tro il particolare, ha interpretato questo scontro solo dal proprio “punto di vista”, come una lotta economica per il dominio del mercato del lavoro. «I limiti della teoria della lotta di classe in Marx, sono pertanto i seguenti: la lotta di classe non è una realtà ultima. La realtà ultima è l’interesse di classe nel suo complesso» (Polanyi 1935/1987: 126).

Il trionfo del mercato non si celebra sul piano dei fatti, ma nella ca­pacità di tradurre i fatti in valori e di occultarli nella quotidianità del sen­so comune, nell’abilità di estendere la logica della merce, di convertire il common people agli ideali del consumo. Come in una sorta di doppio vincolo batesoniano, la vita delle classi deboli torna ogni volta a ribadire la logica generale del mercato: il consumo è percepito come una conquista e il non consumo come un colpa.

I soli interessi di classe non possono perciò offrire una spiegazione soddisfacente per nessun processo sociale di lungo periodo, in primo luogo perché il processo in questione può decidere sull’esistenza della classe stessa; in secondo luogo perché gli interessi di certe classi determinano soltanto i fini e gli scopi per i quali le classi stanno lottando, ma non anche il successo o il fallimento di tali sforzi (Polanyi 1944, trad. it.: 196).

I danni materiali del primo capitalismo potevano essere superati, ma ai danni spirituali non ci sarebbe stato rimedio. Cosa avviene quando la logi­ca della concorrenza porta il sistema sociale nel suo complesso ad avvici­narsi al punto di rottura, fino al rischio di annullare il postulato dell’unità della società e di disgregarne la sostanza umana e naturale? Lo scontro si sarebbe radicalizzato, e si sarebbe rivelato nei momenti di crisi per quello che è: conflitto fra la logica del “mercato” e il principio costitutivo del­la “società”. L’opposizione non riguarda più solo una classe, ma diventa lotta di «diverse sezioni trasversali della popolazione», lotta nell’interesse “non di una parte, ma dell’intera società”. (Da qui l’interesse di Polanyi per le middle classes, la cui vicenda è seguita in The Great Transformation dall’inizio dell’accumulazione capitalistica fino al loro ruolo nella presa del potere del fascismo).

Nel frattempo era in rapporto al problema della miseria che la gente comincia­va ad esplorare il significato della vita in una società complessa. L’introduzione dell’economia politica nella sfera dell’universale avveniva in due prospettive op­poste, quella del progresso e della perfettibilità da un lato, il determinismo e la dannazione dall’altro (ivi: 109).

Bisogna uscire dal punto di vista strettamente di classe: benché «la rispo­sta giunga attraverso gruppi, settori e classi […], la sfida è rivolta alla so­cietà nel suo complesso» (ivi: 196). La diagnosi è quella condotta da Marx nei Manoscritti del ‘44, ma la prognosi sta più nella teoria dei tipi logici di Russel che nel Manifesto del Partito Comunista.

Una volta che ci siamo liberati dell’ossessione che soltanto degli interessi par­ziali e mai quelli generali possano diventare efficaci, così come del pregiudizio che a questo si accompagna della limitazione degli interessi dei gruppi umani al loro reddito monetario, l’ampiezza e la capacità del movimento protezionista (di protezione della società) perdono il loro mistero […]. Proprio perché il mercato minacciava non gli interessi economici, ma gli interessi sociali di diverse sezioni trasversali della popolazione, persone appartenenti a vari strati economici univa­no inconsapevolmente le loro forze per affrontare il pericolo» (ivi: 198-9).

Il nucleo di The Great Transformation sono ancora le analisi degli anni Trenta: la stretta relazione fra la crisi economica come malattia endemica del capitalismo e il fascismo come risposta massimamente degradata alle contraddizioni e alle debolezze di quel sistema. «Per capire il fascismo tedesco dobbiamo ritornare all’Inghilterra ricardiana» (ivi: 39). Ma l’al­ternativa polanyiana non è più fra questa o quella classe, e neanche fra democrazia e totalitarismo, ma fra la democrazia e la rovina di ogni forma sociale. Per dirla con il titolo di un famoso saggio di Edward Thompson: non la lotta di classe, ma A class struggle without class.

La nostra tesi è che l’idea di un mercato autoregolato implicasse una grossa uto­pia. Un’istituzione del genere non poteva esistere per un qualunque periodo di tempo senza annullare la sostanza umana e naturale della società; essa avrebbe distrutto l’uomo fisicamente e avrebbe trasformato il suo ambiente in un deser­to. Era inevitabile che la società prendesse delle misure per difendersi […]. Fu questo dilemma a spingere lo sviluppo del sistema di mercato in un solco preciso (ivi: 6).

Né questo, né quello

Fin dalle prime pagine l’indagine cerca nell’etnologia una sponda per con­testare le pretese dell’ideologia capitalistica. Il liberismo ha proclamato i propri principi come principî naturali e ha fatto della propria filosofia la misura di ogni economia del passato e per fare ciò ha inteso ogni scambio, ogni forma di commercio come forme imperfette di mercato, e ogni mer­cato come forma imperfetta del “libero” mercato. Le ricerche storiche ed etnologiche offrono testimonianze di realtà differenti, di molte e diverse forme di scambio: le forme dell’economia domestica, della reciprocità, della redistribuzione, del commercio, e del mercato, tutte, compreso il se­dicente libero mercato, incorporate (embedded) nell’organizzazione delle istituzioni sociali.

Non mi soffermo su questo, peraltro centrale, argomento polanyiano, se non per notare (benché su questa lettura non tutti sarebbero d’ac­cordo) che le diverse forme economiche non configurano alcun anda­mento evolutivo, e che la singola forma, per quanto in certe condizioni storiche sia dominante, non è in alcun modo esclusiva rispetto alle altre. Nel sistema capitalistico, ad esempio, il mercato è la forma prevalente, ma certamente non l’unica. E, per altro verso, il mercato self-regulating non appare per la prima volta con la nascita del sistema capitalistico: per quanto il suo ruolo fosse marginale, il mercato è già presente in altre situazioni storiche, per esempio nella società greca del iv secolo avanti Cristo, o alla fine del Medioevo, quando per la prima volta si forma una classe media di mercanti in grado di gestire a proprio favore l’equilibrio della domanda e dell’offerta.

Convengo con diversi critici sul fatto che la stessa definizione delle forme economiche considerate (sia in The Great Transformation, sia nei saggi poi apparsi in Primitive, Archaic and Modern Economies) è molto generica e sul fatto che il rapporto fra sistema economico e assetto istituzionale è spesso poco chiaro. Se poi si dovesse scendere (o meglio salire) a livelli più tecnici non si potrebbero ignorare le confusioni del testo (Pavanello 1993): ad esempio, la nozione, confusa quanto mai, di “economia domestica”, trattata a volte come forma secondaria della reciprocità, altre volte come forma secondaria della redistribuzione, a volte come forma a se stante, praticata in stadi avanzati dello sviluppo, senza mai distinguerne adeguatamente la funzione nel quadro della forma economica dominante (Baum 1996).

Affrontare questo livello del lavoro di Polanyi ci porterebbe comun­que troppo lontano. Quel che preme evidenziare è solo come a Polanyi sia ben chiaro che tutte le forme economiche sono socialmente incorporate (come, per altro verso, ogni istituzione sociale è economicamente incor­porata) e, per altro verso, come quel che caratterizza il mercato capitalisti­co non sia il libero mercato in sé, ma l’illusione di una possibile autonomia del piano economico, illusione che si esprime in una (pseudo)filosofia e prende corpo in conseguenti istituzioni.

Lasciate che lo sottolinei ancora: accanto ad altre forme di scambio, di certo si sono date nella storia forme di contrattazione di una parte dei beni sul libero mercato; quel che, secondo Polanyi, non si è mai data è stata l’ideologia che pretende di separare la sfera economica da ogni altra sfera sociale. La stessa nozione di economia -come attività autonoma finalizzata al profitto - è tanto marginale ed eccezionale nelle società precapitalistiche, che spesso manca anche il termine (o vi sono molti termini) per separarla e distinguerla dalle altre sfere della vita sociale. E, come ha osservato Vic­toria Tauli-Corpuz, Presidente del Forum Permanente delle Nazioni Unite per i Popoli Indigeni, per il mondo non capitalistico il benessere è ancora il vivere bene, il buen vivir, il fare ciò che è giusto fare: «Per gli Igorot Kan­kana-ey (Filippine), a cui appartengo, il gawis ay biag (letteralmente, buona vita) implica numerosi tabù e regole, legati all’idea innata, che potremmo tradurre come “questo non si fa”» (Tauli-corpuz 2010, trad. it.: 151).

Ciò che rende embedded il mercato capitalistico è proprio la sua illu­soria pretesa di essere not embedded. Qui sta l’origine del suo parados­so. Polanyi parla di pseudo-filosofia (ma anche pseudo-humanitarianism, pseudo-problems, pseudo-liberal regimes) non perché sia genericamente una cattiva filosofia, ma perché, come i diversi pseudo-problemi, è frutto di un’illusione, di quel che altri avrebbero chiamato falsa coscienza.

Noto, solo di sfuggita, che, a differenza di quanto hanno pensato alcu­ni suoi critici francesi (Le Velly 2008), non vi è, a questo proposito in Po­lanyi alcuna contraddizione, né vi sono due Polanyi: un Polanyi che pensa ogni economia come encastrée, e un Polanyi che descrive l’economia ca­pitalistica di mercato come désencastrée. La contraddizione sta piuttosto nello stesso sistema capitalistico, nella continua, esasperata tensione fra fatti e valori, fra quel che il mercato fa e quel che dice di fare.

E prima di chiudere questa breve parentesi osservo come anche l’anti­ca, vexata quaestio dell’opposizione fra approccio formalista e approccio sostantivista andrebbe ripensata in questa prospettiva. La questione nella sua forma essenziale è presto detta: per un approccio formalista i principi e le categorie elementari dell’economica sono gli stessi ovunque e la stessa classica definizione di economia come scienza che studia il comportamen­to umano come relazione tra fini e mezzi scarsi suscettibili di usi alter­nativi, è valida ieri come oggi e come domani; per contro, un approccio sostantivista dà rilievo alle varianti sociali e culturali, e contesta che uno stesso astratto modello possa essere applicato a società diverse. Quanto detto finora porta alla conclusione che anche in questo caso si tratti di una falsa opposizione, sulla quale non si dovrebbe più di tanto insistere se non fosse che alcuni allievi di Polanyi fecero dell’approccio sostantivista una sorta di bandiera della propria scuola (come, peraltro, accade sul versante opposto), finendo così per condizionare malamente l’eredità di Polanyi e per qualche tempo lo stesso dibattito sul rapporto fra economia e cultura. Leggiamo Polanyi:

Naturalmente non vi è nulla da obiettare contro la fusione dei due significati in un unico concetto, purché si sia consapevoli dei limiti del concetto così ottenuto […]. Tuttavia, accettare il concetto composto di mezzi materiali scarsi ed econo­mizzazione come se avesse validità universale, deve rendere molto più difficile rimuovere la fallacia economicista della posizione strategica che tuttora occupa nel nostro pensiero (Polanyi 1977, trad. it.: 43).

Quel che Polanyi dice è semplicemente che assumere in modo astratto la posizione formalista rende poi più difficile distinguere il comportamento razionale, proprio di ogni uomo, dalla razionalità propria del capitalismo. In sé la prospettiva formalista non ci dice nulla di nuovo, o meglio ci dice una cosa ovvia: che tutti gli uomini sono razionali e vale per l’economia come per ogni altro comportamento umano. «In parole povere: non com­portarti come un pazzo» (ivi: 51). A ben guardare i mezzi sono sempre scarsi (e comunque – punto essenziale – non illimitati!, Polanyi 1977, trad. it.: 48; Pavanello 1993: 36) e ci sono sempre scelte da fare. E varrà sempre il principio in base al quale il primo fine che determina la scelta dei mezzi è in ogni sistema economico (diciamolo con Marx) la riproduzione del­ le condizioni di produzione della propria esistenza. Ma la relazione fra mezzi e fini (“la logica della scelta”) non si presenta mai nella sua pura astrazione: questa è l’illusione e l’inganno che ci portiamo dietro. Come la natura si presenta sempre incarnata nella cultura, così la razionalità eco­nomica si presenta sempre incarnata nelle situazioni concrete. È lì, nella storia, che la incontriamo e che la studiamo. È nella sua forma incarnata che Polanyi comincia a studiarla dal 1922, quando si pone il problema di conciliare in un’economia socialista «massima produttività» e «bisogni so­ciali», ed è nella sua forma incarnata che storicamente la studia nel sistema economico del mondo classico o nei sistemi economici acquisitivi. La di­stinzione fra le due prospettive può essere solo di metodo, può avere solo la funzione di non farci cadere nella trappola, di non assumere la logica del mercato come l’unica logica possibile.

Altra cosa è poi osservare le incertezze di Polanyi etnologo; osservare come lo stesso Polanyi non si accorga, ad esempio, di come per fuoriuscire dalla logica del presente non basti moltiplicare le forme dello scambio, ma si debba andare molto più in profondità e “moltiplicare”, ad esempio, la categoria di “socialità” e la categoria di “lavoro” (Pavanello 1993). E a scavare in questo senso, come ha più volte osservato Aria, sarebbe stata a Polanyi non poco utile la lettura della scuola sociologica francese e del lavoro di Marcel Mauss in particolare. Si tratterebbe di essere più po­lanyiani di Polanyi, ma questo è altro discorso. Quandoque bonus dormitat Homerus.

Dal punto di vista storico The Great Transformation si snoda esatta­mente lungo questa tensione fra fatti e valori, fra quel che il mercato fa e quel che dice di fare. Nella società nata dalla grande trasformazione i due piani si sostengono reciprocamente, ma si incontrano, tuttavia, con una torsione mai troppo sottolineata: il pensiero liberale fece sorgere l’illusione di una libertà senza confini, promise una «società dalla quale potere e coercizione fossero assenti e un mondo nel quale la forza non avesse alcuna funzione», ma quelle idee si formarono in una ambiente ancora preindustriale, in una società nella quale lo status prevale an­cora sul contractus, dove le relazioni della Gemeinschat prevalgono su quelle della Gesellschaft. L’ideologia del mercato nacque già vecchia e costituzionalmente incapace di risolvere il problema della pratica della libertà e della democrazia in una società complessa. A una teoria econo­mica astratta e illusoria corrisponde un’illusoria e astratta pratica della democrazia. E il difetto genetico della società borghese. È la tesi che percorre tutta l’opera di Polanyi ed è la principale ragione che lo porta ad assumere Robert Owen, rispetto ad altri utopisti, come proprio ri­ferimento. Nell’utopista gallese, più che in ogni altro anticipatore del pensiero socialista, Polanyi riconosceva la capacità di porre il problema della democrazia non in astratto, e non “da una sola parte”, ma come conquista generale nel contesto dei problemi economici, sociali ed etici di un ambiente urbano-industriale.

Il travolgente processo di urbanizzazione e di industrializzazione della seconda metà dell’Ottocento è lo sfondo storico sul quale questo scarto fra valori e fatti era destinato a palesarsi pienamente. Uno scarto che non poteva certo essere riempito dal miracolismo della favola di Mandevil­le, o dall’altrettanto miracolosa immagine della invisible hand, né dalla buona volontà dei riformatori; uno scarto che in poco tempo trasformò il mercato in un mostro senza volto e la promessa di libertà in alienazione e solitudine.

Il tessuto della società divenne veramente visibile soltanto al contatto con la mac­china. Così la tecnologia in parte creò e in parte rivelò l’esistenza di una struttura interpersonale che ci circonda, dotata di una sua consistenza autonoma; non più un mero aggregato di persone, e nemmeno il Leviatano di Hobbes, ma una realtà inesorabile come la morte, non nelle sue forme mutevoli, ma nella stabilità della sua esistenza (Polanyi 1957/1987: 177).

Alla società dominata dal mercato Polanyi si oppone con tale forza con­cettuale e verbale che la bilancia sembra pendere quasi dalla parte della Gemeinschaft, e giustificare le accuse di romanticismo e di nostalgismo. Famoso rimane il giudizio in questo senso di Scott Cook in uno dei sag­gi centrali della polemica formalisti/sostantivisti (1966: 324): l’approccio polanyiano è considerato «a by-product of a romantic ideology rooted in an antipathy toward the “market economy” and an idealization of the “primitive”». E basta spingersi un po’ oltre e s’incontrano i consensi della Nuova Destra (la destra del fondamentalismo cattolico, la destra di André de Benoist in Francia, e di Marco Tarchi in Italia).

Polanyi diventa rappresentante del neo-comunitarismo. Ma anche in questo caso è bene capire la grammatica “per opposizioni” che guida il pensiero di Polanyi. Altrove, e non solo negli scritti del secondo dopo­guerra, di fronte al macchinismo trionfante e al mito del progresso, Po­lanyi prende piuttosto le difese liberali dell’individuo, contro un astratto principio di uguaglianza.

La vita interiore dell’uomo (the inner life) sta per estinguersi perché egli ha per­so la fiducia nella libertà individuale che nutriva quella vita. La sopravvivenza interiore ed esteriore richiede un realismo che ancora non possediamo. Non c’è soluzione in vista senza una riforma della nostra coscienza che postuli la libertà di fronte alla realtà della società (Polanyi 1957: 181, corsivo mio).

Si potrebbero citare molti, analoghi passi, ma Polanyi non è né questo, né quello, non sta né all’uno, né all’altro estremo. Il suo problema è di uscire dalla logica dei «filosofi di statura inferiore», di rifiutare la logi­ca delle «inadequate alternatives that are usually offered», «la logica del fino e non oltre il liberismo, o del tutto o niente del collettivismo, o della pura e semplice negazione dell’individualismo». Non si tratta di mediare meglio, si tratta di ridefinire i termini in modo tale da rendere evidente la possibilità di rigettare la stessa alternativa. Scrive bene Robert Morrison McIver, nella Prefazione all’edizione americana di The Great Transfor­mation.

We must not abandon the principle of individual freedom but we must re-create it. We cannot restore a past society, even if the haze of history hides its evils from us; we must rebuild society for ourselves, learning from the past what lessons and what warnings we are capable of learning. Perhaps in doing so we might also bear in mind that the causation of human affairs is too deeply tangled to be wholly unraveled by the wisest minds. There is always a point where we must trust our values in action, so that the urgent forces of the present world may release them­selves in new directions towards new goals […]. Here he [every intelligent man] may gain new glimpses of a deeper faith. Here he can learn to look beyond the inadequate alternatives that are usually offered to him, the thus far and no farther of liberalism, the all or nothing of collectivism, the sheer negation of individual­ism, for these all tend to make some economic system the primary desideratum, and it is only as we discover the primacy of society, the inclusive coherent unity of human interdependence, that we can hope to transcend the perplexities and the contradictions of our times.

Una prefazione (purtroppo assente nell’edizione italiana) che bisogna leg­gere attentamente prima di affrontare il libro. McIver aveva, infatti, un’as­sidua frequenza intellettuale con Polanyi, di cui fu collega come docente di Scienze Politiche e Sociologia alla Colombia, e tutto lascia pensare che le parole della Prefazione siano risultato delle loro discussioni, se non sug­gerite dallo stesso Polanyi per evitare interpretazioni riduttive, in un senso o nell’altro, del proprio lavoro.

La prospettiva etnografico-comparativa ci aiuta a fuoriuscire dalla gabbia del linguaggio, ci indirizza per un’altra strada, ci dà conto della specificità del sistema capitalistico e lo fa liberandoci dall’evoluzionismo del materialismo volgare che la sua ideologia racchiude, ci insegna a pen­sare i diversi sistemi economici per quello che erano, e non per quello che si suppone mancasse loro per diventare sistemi liberisti, e ci rende palese l’inganno dei fatti nascosto nelle parole del presente. La ricerca storico/etnologica ci incalza, in primo luogo, a trovare le differenze al di sotto di una pretesa, astratta identità della natura umana.

Il metodo della ricerca etnologica di Polanyi (o meglio il metodo che sottostà alla lettura polanyiana delle ricerche etnologiche) si definirà ne­gli scritti successivi, ma già in The Great Transformation la riflessione di
Polanyi si rivolge verso quella prospettiva e quel progetto che diverrà cen­trale negli ultimi scritti.

Il percorso della conoscenza, per così dire, s’inverte: l’altra faccia della prospettiva comparativa offre la possibilità di trovare principi unificanti al di sotto delle apparenti differenze, di fare del piano etnologico materia di una teoria antropologica generale. È un passaggio importante, e, forse, il nodo di tutto il libro: ma è un passaggio che richiede prudenza. Rese manifeste le torsioni dell’iperliberismo, si rischia di cadere in un nuovo teleologismo; magari nel sostenere con Rousseau, o peggio con Engels, un qualche comunismo primitivo e naturale: «In realtà i suggerimenti di Adam Smith sulla psicologia economica dell’uomo primitivo erano tanto falsi quanto la psicologia politica del selvaggio di Rousseau» (Polanyi 1944, trad. it.: 58-9).

L’incontro di queste due direzioni costituirà l’impalcatura di quello che Polanyi chiamerà «il mio sistema». Restiamo, tuttavia, al lavoro del 1944. “Al positivo” le ricerche etnologiche non ci dicono molto sulla na­tura umana; ne evidenziano solo pochi e generici tratti. Ci dicono che l’uomo non è per natura né homo religiosus, né homo oeconomicus, quando si faccia l’errore di intendere la religione come la nostra idea di religione e l’economia come la nostra idea di economia. Ma già in The Great Tra­sformation ci dicono che l’uomo si è sempre interrogato sul senso della propria esistenza, e che ha sempre avuto a che fare con i problemi della propria sussistenza; e, di certo, e principalmente, ci dicono, che l’uomo è un animale sociale, e che la socialità è stata ed è, anzi, un fattore di prima­ria importanza per lo sviluppo e la sopravvivenza della specie.

Se, infatti, una conclusione emerge più chiaramente di altre dagli studi recenti sulle società primitive, è l’immutabilità dell’uomo come essere sociale […]. L’ec­cezionale scoperta delle recenti ricerche storiche ed antropologiche è che l’econo­mia dell’uomo, di regola, è immersa nei rapporto sociali […]. La spiegazione in termini si sopravvivenza è semplice (ivi: 61).

Più la ricerca procede più il sistema capitalistico appare a Polanyi non solo specifico, ma exceptional e unnatural. La società fondata sulla pretesa del mercato autoregolato è innaturale non perché etnologicamente si pos­sa costatare l’assenza del mercato presso tutti i precedenti sistemi sociali, e non perché il mercato autoregolato sia tale “nei fatti” (la mano che regola quella legge è sempre stata molto meno “invisible” di quanto, la teoria abbia potuto desiderare e prevedere), ma perché la sua forza è tale da oc­cultare la stessa natura di quei fatti, confondendo le cause con gli effetti, portando lo scontro ai i limiti stessi della natura e della specie.

Anche in questo caso, tuttavia, dobbiamo sapere intendere l’opposi­zione fra “libero mercato” ed “economia di piano”. Abbiamo visto quan­to radicale sia la polanyiana nei confronti del self-regulating market. Non c’è argomento per il quale Polanyi usi espressioni più violente. Anche in questo caso, tuttavia, basta andare a qualche scritto degli anni del secondo dopoguerra, ai saggi sull’economia pianificata dei paesi interni al siste­ma sovietico, perché la prospettiva de La Grande Trasformazione sembri ribaltarsi: la richiesta diventa piuttosto quella di introdurre nei regimi dell’economia pianificata più libero mercato. La citazione che segue è tratta da una conferenza tenuta a Budapest nel 1963, e se ne intende, dun­que, l’aspetto politico, ma riflette bene il modo di pensare di Polanyi.

Ora, mentre il capitalismo si vedrebbe costretto a introdurre elementi di pianifi­cazione nella sua struttura eccessivamente influenzata dal mercato, il socialismo a sua volta prenderebbe in considerazione la possibilità di migliorare i risultato del­la pianificazione economica, introducendo certi elementi di mercato (Duczynska Polanyi 1977, trad. it.: xviii).

Polanyi usa spesso il termine “paradossale” per descrivere questo “dupli­ce movimento” che caratterizza la vita e la storia degli uomini. Ogni siste­ma contiene in sé i pericoli della propria autodistruzione e deve mettere in moto meccanismi di salvaguardia. Ma nella società capitalistica il para­dosso si manifesta in maniera estrema, fino a coinvolgere la sopravvivenza della natura e della specie.

Abbastanza paradossalmente non soltanto gli esseri umani e le risorse naturali, ma anche l’organizzazione della stessa produzione capitalistica doveva essere protetta dagli effetti devastanti di un mercato autoregolantesi. Ritorniamo a quello che ab­biamo indicato come un duplice movimento. Esso può essere rappresentato come l’azione di due principi organizzativi nella società, ciascuno di essi ponendosi fini istituzionali specifici, avendo l’appoggio di precise forze sociali ed usando i propri metodi particolari. L’uno era il principio del liberismo economico […] l’altro era il principio della protezione sociale che mirava alla conservazione dell’uomo e della natura […]. Su questo paradosso se ne innestava un altro: mentre l’econo­mia del laissez-faire era prodotto di una deliberata azione da parte dello Stato, le successive limitazioni al laissez-faire iniziarono in modo spontaneo. Il laissez-faire era pianificato, la pianificazione non lo era (Polanyi 1944, trad. it.: 170, 180).

Ogni sistema deve trovare un punto di equilibrio fra i vincoli sociali e le ragioni della propria sussistenza. E in questo il capitalismo non è diver­so da altri sistemi. Paradossalmente il mercato aveva e ha bisogno che dall’esterno si pongano limiti alle proprie interne tensioni distruttive: ha bisogno di una controparte che impedisca, attraverso un estremo sfrut­tamento della forza-lavoro, una distribuzione aberrante della ricchezza e una conseguente diminuzione della domanda; ha bisogno di un potere centrale che salvaguardi i beni limitati della natura; e, infine, ha bisogno
di istituzioni che garantiscano il valore della moneta, che limitino il pro­cesso attraverso il quale la moneta-segno permette alla ricchezza fittizia di moltiplicarsi senza limiti.

Il capitalismo vive finché queste sue interne tensioni fra mercato e società trovano un qualche equilibrio: soluzioni di spirito socialdemocra­tico o keynesiano, nel migliore e più augurabile dei casi, ma soluzioni che Polanyi giudica alla lunga provvisorie, perché se «il laissez-faire era piani­ficato, la pianificazione non lo era».

La nostra tesi è che l’idea di un mercato autoregolato implicasse una grande utopia. Un’istituzione del genere non poteva esistere per un qualunque periodo di tempo senza annullare la sostanza umana e naturale della società; essa avrebbe distrutto l’uomo fisicamente e avrebbe trasformato il suo ambiente in un de­serto. Era inevitabile che la società prendesse delle misure per difendersi, ma qualunque misura avesse preso, essa ostacolava l’autoregolazione del mercato, disorganizzava la vita industriale e metteva così in pericolo la società in un altro modo (ivi: 6).

Abbandonato a se stesso, o restando prigioniero «del modo in cui questa dualità dette forma alle cose: fatto e valore, empirismo e normatività, so­cietà e comunità, scienza e religione […]» (Polanyi-Levitt, Mendell 1987: xx), il sistema è condannato a implodere. È quel che oggi si rende eviden­te, ma sostenitori e avversari del mercato sono spesso intrappolati nella logica generale del sistema, non sono più capaci di distinguere.

Se voi, che possedete le cose di cui le masse hanno bisogno assoluto, poteste ren­dervi conto di questa realtà, allora sareste in grado di salvarvi. Se foste capaci di distinguere le cause dagli effetti, di persuadervi che Paine, Marx, Jefferson, Lenin furono effetti e non cause, allora potreste sopravvivere. Ma non ne siete assolu­tamente capaci. Perché il possesso vi congela in altrettanti “io” e vi aliena i “noi” (Steinbeck 1940, trad. it.: 167).

Ripeness is all. La coscienza dei limiti è maturità

Sempre più negli scritti degli anni Cinquanta l’accento si sposta dalla criti­ca economica e sociale alle conseguenze antropologiche generali del capi­talismo. Negli anni trenta e durante la guerra Polanyi ha annunciato la fine della civiltà capitalistica, ma nel dopoguerra la ripresa economica torna a illudere. Il potenziamento della civiltà delle macchine, la diffusione dei sistemi di comunicazione, le nuove fonti energetiche, l’utilizzo massiccio delle risorse naturali, imprimono nuovo slancio all’economia. Grazie alla natura fittizia della ricchezza il sistema promette e distribuisce nuovi beni e consumi per tutti: illusioni, promesse e “debiti”. Per gli economisti era il trionfo del mercato, la progressiva presa di possesso di tutti gli strati della società e di tutte le aree del mondo. Per Polanyi la nuova rivoluzio­ne tecnologica era un prolungarsi dell’agonia: ridava spazio alle illusioni di un mondo e di un mercato senza barriere, all’utopia di superare ogni limite biologico, ogni limite posto dalla natura e dalla vita sociale. Mentre il corpo del capitalismo si estende gli agenti patogeni ne aggrediscono gli spazi più fittizi, più innaturali e per questo più deboli: lo spazio del lavoro, della natura, del denaro. E, dunque, la disgregazione sociale, la minaccia degli equilibri ecologici, il crollo delle economie costruite sulla ricchezza virtuale e illimitata delle monete-segno.

Ma oggi la preoccupazione fondamentale non ha per oggetto l’uguaglianza, la giustizia, la carità e una vita umana per i lavoratori, ma piuttosto la libertà e la sopravvivenza di tutti (Polanyi 1977, trad. it.: 16)

L’indagine si sposta sempre più verso una teoria generale delle condizioni materiali di vita della specie umana, come storia generale dell’«economia umana», come «processo istituzionalizzato di interazione che ha la funzio­ne di provvedere ai mezzi materiali della società» (ivi: 60).

A un testo incompiuto al quale Polanyi lavorò per buona parte de­gli anni Cinquanta, Harry Pearson diede il titolo Livelihood of Man, La sussistenza dell’uomo. Titolo più che pertinente, quando non si intenda il termine economia in un’accezione economicistica. L’ipotesi del libro era “semplice”: un saggio sull’«economia umana», senza altri aggettivi, libe­rando il termine dalle costrizioni dentro le quali la storia recente lo aveva ingabbiato, un libro che ricostruisse il posto delle ragioni economiche nel­la storia dei sistemi sociali. Un libro che ovviamente Polanyi non portò e non avrebbe mai potuto portare a termine. Le ricerche etnologiche, però, non avrebbero avuto, come in The Great Transformation, solo la funzione di maschera di contrasto, ma si sarebbero dovute moltiplicare e diventare fondamento di una filosofia più generale, «la nostra concezione morale e filosofica» (Polanyi 1977, trad. it.: 27). Il lavoro sarebbe iniziato con le seguenti parole:

Quest’opera è il contributo di uno storico dell’economia agli affari mondiali in un periodo di rischiose trasformazioni. Il suo scopo è semplice: per accrescere la no­stra libertà di adattamento creativo, e in tal modo aumentare le nostre possibilità di sopravvivenza, si dovrebbe riconsiderare completamente il problema dei mezzi materiali di sussistenza dell’uomo (ivi: 7).

Un libro rimasto interrotto, un libro difficile per la vastità del proget­to, ma principalmente un libro che ancora una volta si sarebbe rivelato “anacronistico e profetico”, fuori tempo, se, anche nei periodi di crisi, i suoi lettori fossero stati prigionieri di quella che chiamava «una obsoleta mentalità di mercato», quella stessa mentalità che porta oggi a una lettura economicista, prima che politico-antropologica, della crisi.

Una cosa è comunque certa: il libro non avrebbe proposto una nuova illusione. Come dicevo, anche aprendo il più possibile l’orizzonte della ri­cerca, spianando il territorio dall’intralcio delle parole, e tornando a met­tere in rilievo l’insieme dei fatti e le loro relazioni, la natura dicotomica della vita non si risolve e non si risolvono le sue tante contraddizioni. Is a Free Society Possible? La risposta era già data nell’ultima pagina di The Great Transformation:

La scoperta della società è l’ancora della libertà. La coscienza umana è nata da limitazioni alle quali l’uomo si è rassegnato […]. Rassegnandosi a quella realtà così come si è rassegnato alla morte, egli diventa maturo e capace di esistere come essere umano in una società industriale […]. Impariamo che la libertà che abbia­mo perso era soltanto un’illusione, mentre la libertà che acquistiamo è reale.

Rispetto al marxismo popolare (ma anche rispetto a Marx) le differenze sono molte, ma la principale sta nel riconoscere come queste opposizio­ni – l’opposizione fra libertà e giustizia e fra individuo e società, come tutte le altre che ne conseguono – non siano risolvibili. Non c’è un’utopia da realizzare, un qualche paradiso da portare in terra, che sia il paradi­so consumistico o quello comunistico. Non scriveremo mai come voleva Marx nella Critica del Programma di Gotha (1875): «Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni!». Carlo Marx, dopo gli anni Quaranta, dopo la definitiva rottura con gli utopisti, non scrisse mai di quel che sarebbe stata la “società futura”. E questo fu, anzi, uno degli aspetti decisivi dell’ingresso nella maturità della sua opera. Ne scrisse solo una volta, nel 1875, appunto, in quello scritto infelice, e fu peggiore utopi­sta di tutti gli utopisti.

La differenza rispetto al marxismo sta nel riconoscere che, se si torna dalle parole ai fatti «il mio sistema» non può mai arrestarsi e pacificarsi, ma, come la vita, è sempre un processo, «un sistema in movimento», un territorio di incontri e di scontri, un insieme di molteplici mediazioni sul piano storico come su quello antropologico. Le ragioni della storia e quelle dell’antropologia marceranno sempre insieme: abbiamo bisogno dell’una e dell’altra prospettiva, ma marceranno sorvegliandosi reciprocamente, perché non sia concesso all’una o all’altra prospettiva farsi interprete uni­co nel teatro delle differenze, o nel teatro delle identità.

Torniamo a lavorare sulle parole usate da Polanyi. Paradox è termine usato molto spesso. Paradossale è uno stato di cose che contiene in sé e ali­menta il proprio contrario: paradossale storicamente è stato il tentativo di espandere la logica del mercato; paradossali sono quelle filastrocche («fa­mous doggerels») del dottor Mandeville sulla società delle api, quell’idea balsana che dalla libertà di ognuno nasca miraculously la libertà di tutti; paradossale è l’idea stessa del mercato autoregolato, l’idea che gli equili­bri del libero mercato possano tradursi, altrettanto miracolosamente, in equilibri sociali; paradossale è la lotta delle due classi, una lotta destinata alla lunga e oltre un certo livello, a diventare tossica e a far tracollare tutto il sistema.

Il fatto è che al paradosso non c’è soluzione. Paradossale, irrisolta e irrisolvibile, è la società dominata dal mercato capitalistico e paradossale sarà ogni società futura, a meno che non sia pensata da utopisti per esseri che stanno fuori della storia, «per angeli o demoni, per fanciulli o filosofi» (Polanyi 1977, trad. it.: 44). Per antropologi e storici la domanda sulla li­bertà che Polanyi si era posto negli anni di Vienna, non può che avere una non-risposta. «Bisogna riconoscere che sul piano puramente normativo il paradosso della libertà nella società resta irrisolto» (ivi: 168).

Si intende bene ora la ragione per la quale, come dicevo, Polanyi non non usa quasi mai il termine dialectic (solo una volta in The Great Tran­sformation) e gli preferisce piuttosto contrast, opposition, ambivalence etc. Come forse aveva imparato in Inghilterra da Bertrand Russel, o negli Stati Uniti leggendo Bateson, davanti al paradosso ogni mediazione si rivela im­possibile, l’unica cosa che si può fare è un salto di livello. È bene, dunque, che le scienze sociali, se vogliono parlare della realtà, comincino a trovare parole più semplici, non altre parole, ma parole “più ampie”, apparente­mente meno tecniche, ma che permettano di rendere visibile il paradosso e, al tempo stesso, consentano di rendere più evidente la possibilità di superarlo.

Termini quali offerta, domanda e prezzo, dovrebbero essere sostituiti da termini più ampi, quali risorse, richieste ed equivalenze […]. Una volta usciti dalla gabbia di nozioni che si contraddicono da sole, si può entrare in contatto con la realtà. (ivi: 42, corsivo mio).

Coniare nuovi termini è un vizio antico delle nostre discipline, per coprire il vuoto delle idee, o per riprovare a ingabbiare la storia. Po­lanyi non ci offre nuove soluzioni sociali, e non ci offre nuovi termini. Anzi, a volte sembra che tutte le definizioni offerte alla fine vadano a incontrarsi all’interno di uno stesso spazio tautologico. Le definizioni sono quanto di più ampio e semplice possibile. La migliore “economianon ha bisogno di aggettivi che la qualifichino: diventa semplicemente «economia umana» come ricerca dei meccanismi di “equivalenza” fra “risorse” e “richieste”. E così per “socialismo”, per “libertà”, o per “democrazia”.

Bisogna usare le parole più “spaziose”, dentro le quali gli storici possa­

no riconoscere la pluralità delle forme, e i politici le molte strade possibili: parlare di “mercati” e non di mercato, osservare le molte strade verso una maggiore democrazia (ragione che spiega – come nel caso di Popper o di Wittgenstein – una sua attenzione per le vicende sovietiche, per poi pren­derne decisamente le distanze).

Nei saggi degli anni Cinquanta il tema della libertà rimane centrale, ma assume una rilevanza nuova e pesante almeno per tre ragioni storiche: il diffondersi di una potenza tecnologica ben maggiore di quella speri­mentata fra le due guerre; la paura di un conflitto atomico fra le due gran­di potenze; il fallimento dell’esperienza del socialismo sovietico, nel quale in alcuni momenti Polanyi aveva confidato. La questione della libertà si ripropone con più immediatezza e forza.

Per un altro libro, in collaborazione con l’economista Abraham Rotstein, aveva già firmato il contratto e aveva già indicato il titolo Free­dom and Technology.

Brancoliamo in cerca di risposte […]. L’utopia liberale del mercato del xix secolo, e il socialismo antiliberale dei russi, ci hanno insegnato alcune delle inevitabili alternative. Siamo alle prese con un dilemma (Polanyi 1957/1987: 182-4).

Ogni idealismo è messo da parte. Davanti al paradosso la risposta retorica non può essere che l’ossimoro: «In ultima analisi l’individuo deve essere costretto a essere libero» (Polanyi 1953: 168). O detto altrimenti, la società deve essere costretta a garantire la libertà individuale:

Non c’è soluzione in vista senza una riforma della nostra coscienza che postuli la libertà di fronte alla realtà della società […]. La libertà in una società complessa è un passaporto inviolabile (Polanyi 1957/1987: 182, 185).

E ossimorica è anche per Polanyi la nozione di «cultura popolare»: l’idea che il passaggio a una nuova epoca abbia come premessa e condizione il progresso della cultura, ma di una cultura che sia popolare, «senso collet­tivo del lavoro, della vita e della quotidianità» (Polanyi 1932/1987: 67).

In conclusione Jean Jacques Rousseau legò indissolubilmente il concetto di una società libera all’idea di una cultura popolare. La contraddizione tra libertà e eguaglianza solo in parte risolta nella polis, era destinata a diventare un problema in ogni comunità più grande della città di Rousseau (Polanyi 1953, trad. it.: 169).

Dietro quel (tanto criticato) forced to be free c’è gran parte della vita di Polanyi, l’impegno, da Budapest a Londra, nell’educazione degli adulti. E, per altro verso, dietro quel “passaporto inviolabile” della libertà indi­viduale, c’è la repressione della rivolta ungherese, la dittatura del regime sovietico, il soffocamento di quei balbettii e di quelle speranze degli scrit­tori ungheresi ai quali in quegli anni cercava nell’antologia The Plough and the Pen di ridare la parola.

Come Lukács aveva teorizzato in molti suoi lavori, e come la storia so­vietica era destinata a dimostrare, Polanyi riconosceva il carattere efficien­te della letteratura, la capacità di porre domande, di anticipare gli eventi, la forza di guidare i fatti. Ma principalmente trovava nella letteratura e nell’arte in generale la possibilità di contrapporre al processo di degrado culturale indotto da un mercato sempre più anonimo e autoreferenziale, un nuovo Occidente. The New West è il titolo di un altro possibile pro­getto di libro, un libro che avrebbe dovuto ripensare la cultura europea proprio a partire dai valori delle diverse arti, dalla letteratura, al cinema, alla pittura, alla danza. Nel materiale preparatorio per quel libro ci sono annotati in ordine alfabetico fra gli altri: Auden, Brecht, Camus, Chaplin, Gide e Lukács, Sartre, Silone, Sinclair, Steinbeck, ma anche Einstein e Russel. Si trattava di portare alla luce quel che in altra occasione aveva chiamato bergsonianamente l’élan vital dell’umanità, il principio naturale della sua resistenza. Scrive bene McRobbie:

Non solo Polanyi trovò nella letteratura la conferma di quanto vitale fosse nell’uo­mo la capacità di una visione creativa, ma altrettanto fecero alcuni dei suoi stu­denti e collaboratori. Così, Geroge Dalton ricorda in una sua lettera di essere stato molto influenzato dai romanzi di Romain Gary, Isak Dinesen (Karen Blixen) e Paul Medow (McRobbie, Polanyi-Levitt 2006: 98).

Una nuova versione de The Great Transformation sarebbe stata l’insieme di tutti questi progetti: i saggi etnologici che Dalton pubblicò nel 1968 in Primitive, Archaic and Modern Economies, i saggi delle sue lezioni che Pearson raccolse in Livelihood of Man, ma anche Freedom and Techno­logy, il saggio su Jean Jacques Rousseau, il progetto di New West e molti altri.

Dicevo che negli anni Settanta leggemmo Polanyi accanto a Marcuse e Adorno. E, in effetti, negli ultimi scritti Polanyi si avvicina e anticipa i temi che di lì a poco Herbert Marcuse avrebbe sviluppato in One-Dimensional Man, e più in generale temi che erano propri della scuola di Francoforte e di buona parte della sociologia emigrata dall’Europa negli Stati Uniti. La strada che gli eredi francofortesi di Hegel predicavano, sembrava, tuttavia, a Polanyi interna allo stesso sistema che volevano combattere. La rivolta individualistica, la polemica antitecnologica, e anche le diverse teorie della decrescita, che pure al suo pensiero si ri­chiamavano, dovevano sembrargli, e gli sarebbero sembrate, tanto impo­tenti, quanto in altri tempi gli erano sembrati inadeguati e insufficienti, e comunque interni alla natura innaturale del capitalismo, il marxismo e la lotta di classe. Il problema non stava nel recuperare la soggettività degli individui o della classe, né nel liberare la politica, nel negare quel che la filosofia del xix secolo aveva negato, ma nel fuoriuscire da quella logica, nel superare alla radice la dicotomia fra individuo e società, tra politica ed economia, e riconoscere quella legge antica della sussistenza umana, stravolta dalle presunzioni degli ultimi due secoli, per la quale alla natura si comanda ubbidendole.

Polanyi era sempre stato un accanito lettore di Shakespeare e il saggio polanyiano del 1957 su La libertà in una società complessa finisce con un’annotazione shakespeariana che è bene (ogni tanto) ripeterci e riscrivere a lettere maiuscole: «ripeness is all» (King Lear Atto v, Scena ii).

Le forze spirituali pronte a prendere la successione nelle nostre vite personali sono oggi disperse in una lotta donchisciottesca contro la realtà della società. Il coraggio morale rivelerà i limiti interni del progresso tec­nologico e della libertà. La ricerca dei limiti è maturità.

Nei saggi antropologici che seguono The Great Transformation non appare più un’affermazione che in qualche modo richiami le prime parole di quel testo: Nineteenth Century civilization has collapsed. Più avanza nei suoi studi più il processo di superamento della civiltà di mercato gli sem­bra lontano e difficile. La conquista della libertà in una società complessa avrebbe richiesto un percorso molto più lungo di quanto alla fine degli anni trenta aveva supposto, e principalmente avrebbe coinvolto presto l’intera umanità. Polanyi si sarebbe riconosciuto bene nei due aggettivi con i quali l’amico di gioventù aveva caratterizzato il suo pensiero: “profe­tico e anacronistico”; ma avrebbe amato di più quel che di lui lasciò scrit­to la moglie: «Pur essendo un umanista, egli fu soprattutto un realista» (Duczynska Polanyi 1970, trad. it.: ix).

L’opposizione che il mio sistema di pensiero ha infine suscitato, è un buon segno. Mi sarebbe piaciuto durare più a lungo e prendere parte alla lotta, ma l’uomo è un essere mortale (ivi: xix).

Note

1. Per la diffusione dell’opera di Polanyi e per una descrizione dell’Archivio Polanyi, si può vedere il sito del Karl Polanyi Institute of Political Economy della Concordia University di Montreal. Per la forte ripresa internazionale del suo pensiero si può consultare – in rete – anche il numero 38 del 2008 della rivista “Interventions économiques/Papers in Political Economy”, Le renouveau de la pensée polanyienne. La bibliografia più recente è in Dale 2010a e 2010b.

2. Ringrazio tutti i colleghi che hanno letto e commentato il testo. Un grazie particolare a Antonino Colajanni, massimo esperto di storia dell’antropologia sociale, e a Matteo Aria, ben più di me esperto di antropologia economica. Come altre volte è capitato, devo ringra­ziare Eugenio Testa per l’attenta lettura e per i molti suggerimenti di contenuto e forma.

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