giovedì 26 luglio 2012

TERZOMONDIALIZZAZIONE: L’ ORDINE ECONOMICO-SOCIALE DEL XXI SECOLO - Paolo Massucci -


E’ necessario fare luce sul processo storico in atto, per superare il sentimento di profonda impotenza e spaesamento vissuto dai lavoratori e dai cittadini italiani ed europei di fronte allo svilimento delle storiche istituzioni politiche democratiche e soprattutto alla perdita delle condizioni di relativo benessere che sembravano irreversibilmente acquisite ormai da cinquant’anni a questa parte.
Ma queste condizioni erano in rapporto con una forma politica tendenzialmente socialdemocratica affermatasi nei Paesi a capitalismo avanzato. Un quadro conseguente a determinate situazioni storiche contingenti.
Fondamentalmente, i sistemi più o meno socialdemocratici nel dopoguerra hanno costituito una modalità di preservazione del sistema capitalistico, o, se vogliamo, un compromesso per far fronte ai partiti comunisti di massa e all’Unione Sovietica a cui erano legati. Nonostante tutte le contraddizioni del socialismo reale, l’URSS ha infatti rappresentato comunque un’effettiva alternativa al capitalismo, avendo dimostrato la capacità di sconfiggere militarmente l’esercito nazista nella Seconda Guerra Mondiale, di produrre un rapido sviluppo industriale, di elevare le condizioni di vita e l’istruzione  di decine di milioni di cittadini e, non meno importante, di mantenere, almeno sul piano dell’idea, il grandioso principio dell’autogoverno dei lavoratori  e dell’uguaglianza sociale.

Le concessioni agli interessi dei lavoratori (impropriamente definiti “diritti” dalle sinistre e dai sindacati burocratizzati) nei Paesi capitalisti sono state la risposta che si è nei fatti concretizzata agli effettivi rapporti di forza in gioco. Ed è stata una risposta più razionale rispetto a quella, pur possibile, autoritaria (si pensi agli anni Trenta in Europa) in quanto ha fornito alcuni effettivi benefici sociali ai lavoratori, creando una crescente domanda di merci e inoltre ha reso possibile un notevole sviluppo industriale e dei servizi.
In Italia una classe parassitaria, in contiguità con i poteri della mafia, si è inserita nei meccanismi nevralgici di allocazione del denaro pubblico, con il risultato da una parte di deviarlo da impieghi produttivi, dall’altra, di delegittimare, sul piano ideologico, la stessa socialdemocrazia. Negli anni ’90 infatti, con la crescita di prevalenti interessi legati al sistema finanziario globale e alle multinazionali, sono saltati gli equilibri preesistenti ed è stato consentito di denunciare le vicende di malaffare della gestione della cosa pubblica da parte dei politici (operazione “mani pulite”). In questa smarrimento si è compiuta l’operazione di promozione delle politiche neoliberiste. Nei Paesi anglosassoni, l’attacco alla socialdemocrazia è stato condotto dai governi reazionari della Thatcher e di Reagan.
La sempre più totale riduzione delle barriere statuali ai movimenti dei capitali e la globalizzazione finanziaria hanno ridimensionato drasticamente il vantaggio, in termini di profitto, di un sistema socialdemocratico. In sostanza esso, con le sue politiche economiche keinesiane che espandono la domanda aggregata della nazione, ha smesso di svolgere un ruolo favorevole all’accumulazione capitalistica. Ciò che in definitiva deve essere ben chiaro è che il sistema economico socialdemocratico non è la naturale tendenza del sistema capitalistico, piuttosto è, per così dire, una costrizione a cui esso si adegua per necessità di sopravvivenza, uno snaturamento, compiuto per una prospettiva di contingente convenienza.
Si fa spesso un parallelismo tra l’attuale crisi economica e quella degli anni ’30. Il famoso romanzo “Furore”, capolavoro di John Steinbeck, ambientato negli anni della Grande Depressione negli Stati Uniti, narra le drammatiche sventure di una  famiglia di contadini ex mezzadri, sfrattata dalla propria terra a seguito della diffusione dei trattori e della trasformazione industriale dell’agricoltura. L’offerta di lavoro, come è immaginabile, superava abbondantemente la domanda e, in un sistema di totale assenza di regole e di completa flessibilità del lavoro (oggi si direbbe un mercato del lavoro moderno ed efficiente), i lavoratori in eccesso entravano in concorrenza tra di loro e le paghe giornaliere venivano ridotte persino sotto il livello di sopravvivenza. In assoluta mancanza di tutele pubbliche, terminata la campagna stagionale di raccolta della frutta, i braccianti agricoli, privi di qualsiasi mezzo di sussistenza, erano condannati a morire letteralmente di fame insieme ai loro famigliari. Così l’Autore fa dire ad un protagonista del racconto: “è terminata la raccolta, non hanno più bisogno di noi, e ci lasciano morire di fame: ma non avranno di nuovo bisogno di noi fra qualche mese, in primavera? Non ho mai visto togliere il fieno ai cavalli nella stagione invernale quando non vengono impiegati nei campi…”.
Secondo il premio Nobel per l’economia Stiglitz,  la Grande Depressione degli anni ’30, il crollo finanziario, prese le mosse dalla diminuzione del reddito e dalla disoccupazione conseguente alla crescita dell’efficienza produttiva. La produzione aumentò più della domanda, i prezzi crollarono bruscamente e il risultato fu la distruzione di occasioni di lavoro e di vita in campagna. L’aumento della produttività ridusse in breve tempo i posti di lavoro nell’agricoltura dal 20 al 2 % del totale: dunque la crisi degli anni ’30, ritiene l’Economista, sarebbe stata determinata da una trasformazione strutturale nell’economia.
L’attuale crisi europea (di cui quella del 2008 in USA, dei cosiddetti subprime, è stato l’inizio) è una crisi strutturale, avviatasi già da diversi anni, dell’intero mondo a capitalismo avanzato, ed è legata ad un inarrestabile processo di deindustrializzazione di questi paesi, a vantaggio di quelli una volta detti “in via di sviluppo” (oggi BRICS), avanti a tutti la Cina, la quale, grazie allo sviluppo tecnologico e alla formazione di una enorme massa di tecnici qualificati ed ingegneri (ingresso nel lavoro di sette milioni di giovani laureati nel solo 2011), ha potuto acquisire produzioni ad alto valore aggiunto, un tempo confinate in Giappone, in Europa, negli USA. A sua volta la Cina ha prodotto un flusso di delocalizzazioni manifatturiere per le produzioni a più basso valore aggiunto verso gli altri paesi meno sviluppati dell’Asia.
L’elite del potere economico finanziario in USA e in Europa è diventata sempre più svincolata dalle attività industriali dei territori. Così le industrie delocalizzano la produzione dove trovano le condizioni favorevoli (in particolare bassi salari, manodopera qualificata e minori vincoli al rispetto dell’ecosistema e della salute umana) e i capitali si spostano dove i regimi di imposizione fiscale sono più convenienti. Si stabilisce perciò una gara planetaria alla riduzione delle imposizioni fiscali sui capitali. Pertanto gli ultimi decenni sono stati caratterizzati anche da questa iniquità: le risorse degli Stati per la spesa sociale si sono ridotte, mentre sono aumentate le tasse ai propri cittadini.
Dunque i paesi a più antica industrializzazione si sono indebitati oltremisura, per cercare da una parte di ridurre le imposte sui capitali e dall’altra per cercare di garantire, almeno in parte, lo stesso livello di vita della propria popolazione. Quando gli “ideologi” delle politiche di austerità dicono che “abbiamo vissuto e viviamo sopra le nostre possibilità”, questo è perfettamente vero, nella misura in cui i rapporti economico-sociali si svolgono nel libero mercato capitalistico. Infatti negli ultimi venti anni i lavoratori e i cittadini in genere (escluso quell’1 % più ricco) avrebbero già dovuto subire un forte impoverimento, ben maggiore rispetto a quello che comunque in parte si è già verificato (in realtà infatti le rilevazioni statistiche sui salari e sulla ripartizione dei redditi tra salari e profitti da capitale già sono indicativi di tale direzione): “lacci e lacciuoli”, sindacati, partiti interessati più alla “popolarità” e alle elezioni che agli “interessi generali” (cioè dei grandi capitali), hanno in qualche modo ritardato quelle “naturali” trasformazioni che ora sembrano arrivare di colpo.
Insomma la globalizzazione dei movimenti di capitale finanziario, con le connesse delocalizzazioni della produzione industriale, sta conducendo ad un dumping fiscale generale dei capitali e a un dumping dei salari che, in definitiva, anziché accrescere il benessere nei paesi di nuova industrializzazione, non fa altro che estendere il “terzo mondo”, ovvero la povertà delle masse, all’intero globo. E’ un processo, potremmo dire, di “terzomondializzazione” del XXI secolo, l’inverso delle prospettive di sviluppo del Terzo Mondo del secolo scorso.
In Europa in particolare, ma non solo, la delocalizzazione delle produzioni industriali, che si somma all’aumento di produttività legate allo sviluppo tecnologico, determina una emorragia di posti di lavoro. Di conseguenza si riducono ulteriormente le entrate fiscali per l’erario e i contributi pensionistici; aumentano invece le richieste di sostegno alla disoccupazione, portando verso la bancarotta i bilanci degli stati e i sistemi assistenziali e pensionistici.
Quando si dice, sempre con finalità ideologiche, che in Italia la causa dell’insostenibilità del sistema pensionistico è l’eccessivo invecchiamento della popolazione e pertanto si sostiene che occorre andare in pensione più tardi, incredibilmente ci si dimentica che un giovane su tre è lasciato disoccupato: la carenza di popolazione attiva è dovuta, ovviamente, alla mancanza di offerta di lavoro, non certo alla mancanza di domanda! La disoccupazione è risultato delle dinamiche globali descritte e l’aumento dell’età pensionabile non può far altro che aumentare la stessa disoccupazione giovanile (a meno che l’aumento dell’età pensionabile non si traduca semplicemente nel licenziamento dei lavoratori anziani, privati anche del diritto alla pensione).
Sarebbe altresì sensato ridistribuire il tempo di lavoro tra i diversi soggetti occupabili, se non altro per un principio di maggiore parità sociale, ma ciò non sembra essere negli interessi di chi si adopera piuttosto a porre i lavoratori in concorrenza per il salario, senza la minima preoccupazione per la disperazione dei lavoratori lasciati senza reddito insieme alle loro famiglie. Infatti il governo Monti (e anche altri governi fedeli alle oligarchie economiche) prolunga l’età pensionabile fino all’età di 67 anni e oltre,  detassa gli straordinari e propone persino di ridurre le festività nazionali o il periodo di ferie, aumentando l’orario di lavoro. Insomma anziché “lavorare tutti, lavorare meno!” si ha “lavorare in pochi, lavorare di più e con salario ridotto!”. L’affermazione marxiana secondo la quale nel sistema capitalistico i salari tendono al livello di sopravvivenza si sta realizzando effettivamente.
L’aumentata disoccupazione e la contemporanea drastica riduzione dei sostegni alla disoccupazione (è stata stabilita l’eliminazione degli ammortizzatori sociali per i licenziamenti collettivi, sostituiti da brevissimi e ridotti sussidi di disoccupazione) getterà masse di disperati alla ricerca di un posto di lavoro ad ogni costo, come nel romanzo di Steinbeck.
In conclusione il capitalismo sta gettando la maschera e tende da una parte a dispiegarsi nella sua essenza brutale e dall’altra a far convergere le condizioni economiche e di vita dei lavoratori di tutto il mondo. E’ ipotizzabile che, fermo restando la necessità di riorganizzazione un Partito Comunista (o anticapitalista) internazionale, ciò favorirà un processo di formazione della coscienza di classe del proletariato mondiale, nodo indispensabile per poter trasformare la società, liberandola dal capitalismo e dalla conseguente barbarie.                                                                                                 Paolo Massucci (Collettivo di formazione marxista "Maurizio Franceschini")                                                                                             

1 commento:

  1. Diceva Marx che quando il capitale non riesce più a realizzare profitto attraverso la vendita di merci, va in Borsa e specula. Almeno in parte, ciò è quanto sta avvenendo, a mio avviso.
    Il capitalismo non è sistema capace di programmare e dirigere razionalmente lo sviluppo economico; da sempre, conosce fasi di espansione e momenti di crisi, durate le quali, per la sua logica interna, non può fare altro che distruggere, anche se parzialmente, se stesso e le forze produttive che lo stesso capitale aveva prodotto. E’ evidente che la lunga fase di apparente prosperità che il sistema, scaricando i suoi costi sui paesi poveri del mondo, era riuscito a realizzare in Europa dal secondo dopoguerra in poi, aveva favorito la trasformazione in senso riformistico della maggior parte dei Partiti Comunisti europei e la nascita delle “grandi socialdemocrazie” come quella tedesca o scandinava. Con uguale evidenza, si può dire che lo stesso Stato borghese, in quella fase, aveva cambiato volto: sembrava essere diventato più “buono” grazie alle politiche di welfare e all’impronta keynesiana che aveva assunto. Era riuscito a garantire una relativa pace sociale facendo credere alla classe operaia e ai lavoratori tutti che si vivesse nel migliore dei mondi possibili, anzi, in un mondo indefinitamente migliorabile. Ora, bruscamente, ci si sveglia dal sogno: e ci si accorge che lo Stato torna ad manifestarsi nella sua natura più brutale, cioè come strumento del dominio di classe. Nessun marxista si meraviglia di ciò. Ma la domanda da porsi, io credo, è questa: le masse, e i comunisti stessi, “impareranno dalla storia”? Verrà in luce, sul piano della coscienza e dell’organizzazione, che l’abbattimento del capitalismo sarebbe un gran bene per la maggior parte degli abitanti del mondo? O, in assenza di ciò, si andrà verso una terra desolata e devastata da guerre e da terribili e distruttivi, perché privi di direzione politica e strategica, scontri di “classe”?
    L’alternativa della Rosa Luxemburg “socialismo o barbarie” si risolverà sempre di più per la seconda soluzione?

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