lunedì 9 aprile 2012

Zygmunt Bauman - La società individualizzata - Il Mulino, Bologna, 2002 -


 Se questa è la fotografia (terribile) della situazione attuale non ci resta che trarne le dovute conclusioni . E qui cominciano i problemi... come contrastare, anzi come combattere e vincere una battaglia che, appare evidente, è enormemente sbilanciata a favore del nostro nemico mortale: il potere del capitale? Chiaramente questa non è problematica risolvibile a livello individuale o di piccolo gruppo e neanche, come lo stesso Bauman evidenzia, a livello locale, nazionale. Se il potere ormai si esprime globalmente sarà lì che lo scontro dovrà giocarsi. E solo se sapremo costruire solide organizzazioni a livello internazionale ci si potrà confrontare col nemico da pari a pari. Starà alla capacità delle organizzazioni dei lavoratori  trovare fronti comuni di lotta che superino i vincoli di un  perdente localismo.

 Ma noi ancora annaspiamo, insultandoci e, peggio, massacrandoci in assurde dispute intestine additando i nostri stessi compagni come i peggiori nemici da abbattere. (c'è ancora chi inneggia a Stalin maledicendo Trockij  e viceversa... ridicolo). C'è da credere che ci sia lo zampino del nemico nel favorire tutto ciò... personalmente credo sia arrivato il momento di accantonare simili dispute e pensare seriamente a costruire Altro, che non vuole dire necessariamente nuovo, di nuovo sotto il sole c'è davvero poco. Altro significa, per esempio, recuperare quanto (tanto) di buono il movimento comunista ha saputo teorizzare nel corso della sua breve storia, rielaborarlo alla luce della situazione attuale e, possibilmente, evitare di rifare gli errori che hanno segnato le nostre dure sconfitte (allora sì, l'analisi dei comportamenti  giusti e sbagliati dei protagonisti della nostra storia passata può aver senso). Ma Altro significa anche  la consapevolezza che le idee che il movimento esprime sono il portato di un lungo cammino che vuole superare i confini, nobili ma limitati, della stessa lotta di classe, perché è dell' emancipazione di tutti che stiamo parlando.  Ma, per l'appunto da dove ri-partire? Io credo che ripartire dallo studio, soprattutto lo studio della storia, che è anche storia di civiltà, di scienza, di cultura, sia un percorso vincente. Un'altra via sarà quella di difendere il lavoro dalle bordate distruttive del potere finanziario. Chi l'ha detto che le regole del gioco che stiamo giocando siano le uniche possibili? Seguitare a giocare con regole simili significa condannarsi a priori alla sconfitta. Perché, per esempio, non rilanciare sostenendole richieste quali il ripristino di una scala mobile e l'abolizione del precariato? Perché non imporre dei limiti, sia in basso che in alto, alle pensioni, agli stipendi  ai salari? In nome di una equità che sia anche giustizia? Io, noi, pensiamo che ciò sia possibile, e che, semplicemente, serva che se ne ri-cominci a parlare. Ci dicono che bisogna flessibilizzare e precarizzare di più e noi gli rispondiamo  che vogliamo un lavoro certo con una retribuzione dignitosa che ci consenta di dedicarci alla nostra vita ai nostri figli in altri termini alla nostra felicità. Dobbiamo tornare a pretendere quelle cose che sono necessarie, per tutti, alla vita: una scuola pubblica valida, una sanità pubblica degna, una previdenza giusta, che ci garantisca una vecchiaia il più lieve possibile...  Ci diranno che allora se ne andranno dove le loro regole saranno possibili, e noi gli risponderemo di andare pure dove vogliono ma scalzi e nudi, perché solo così gli sarà permesso d'andare... (Il collettivo)


 Zygmunt Bauman e la sua società individualizzata 


"La condizione di precarietà, osserva P Bourdieu, nella misura in cui rende tutto il futuro incerto, impedisce qualsiasi forma di anticipazione razionale, e, in particolare, quel minimo di fede e di speranza nel futuro che è necessario per ribellarsi, soprattutto collettivamente, contro il presente, anche quello più intollerabile. La capacità di proiettarsi nel futuro è necessaria per poter attivare tutti i comportamenti cosiddetti razionali (...) per concepire un progetto rivoluzionario, vale a dire un'ambizione ragionata di trasformare il presente in riferimento ad un futuro progettato, bisogna avere un minimo di presa sul presente"
(Zygmunt Bauman, La società individualizzata, Il Mulino, Bologna, 2002)                                                                                

Il cambio di paradigma da una «modernità pesante» o «solida» ad una «liquefatta».                                                                                                                                                          
La “modernità pesante”:                                                                                                                                                                                             
Concepiva e trattava il lavoro, per la prima volta, come merce.                                                                                 
Col suo sistema di grandi fabbriche, sussisteva sulla necessaria interdipendenza tra capitale e forza lavoro. 
Si caratterizzava per la lunga durata dei legami che univano dipendenti e datori, entrambi interessati a far sì che il rapporto lavorativo perdurasse nel tempo. 
Poneva quindi le basi per la contrattazione e la negoziazione di migliori condizioni lavorative.
Era contraddistinta da una visione assistenzialistica del welfare, indirizzato al sussidio del  non-lavoro in un’ottica di mantenimento di un bacino di forza lavoro “di riserva”.                                                                                                                                                                                                     
La “modernità liquefatta”:                                                                                                                              
Vede l’assoluto prevalere di una “mentalità a breve termine” e fa della flessibilità il suo slogan.
Determina il divorzio dal lavoro e dal territorio del capitale, adesso libero di spostarsi dove la rendita è maggiore e le costrizioni sono minori. Divenuto intangibile e inafferrabile, detta in tutto e per tutto “le regole del gioco”.
Si caratterizza per l’incertezza delle condizioni e delle circostanze della vita umana, precarietà che investe tutti i principali aspetti dell’esistenza a partire dal lavoro, passando per gli affetti, fino a compromettere l’identità stessa dell’individuo.
Determina un sentimento di impotenza e di timore per ciò che il futuro potrebbe riservare e sul quale si sente di non aver alcuna presa.                                                                                                                      
«L'epoca dell'industria ad alta intensità di lavoro è ormai chiusa, almeno nella nostra parte di mondo, ed anche il grande esercito di leva appartiene al passato. Gli armamenti moderni significano anche pochi soldati professionisti e il progresso tecnologico nella produzione di merci consiste al giorno d'oggi in una riduzione del fabbisogno di manodopera; investimento significa una riduzione dei posti di lavoro, non un loro aumento, e in tutto il mondo le borse premiano prontamente le "cure dimagranti" e i ridimensionamenti aziendali reagendo invece nervosamente ai dati sulla diminuzione del tasso di disoccupazione». (Z.B.)                                                                                                           
Fine della completa occupazione a tempo indeterminato.                                                                                         
Le persone estromesse dal mondo del lavoro diventano "inutili". Non sono necessarie come produttori e, in quanto poveri, non lo sono anche come consumatori.                                                                                            
Una "sottoclasse" che:                                                                                                                        
«si guadagnerà da vivere attraverso lavori occasionali, casuali, di breve durata, senza garanzie contrattuali né il diritto alla pensione  o alla liquidazione, ma con la concreta possibilità di essere licenziato con breve preavviso e secondo il capriccio del datore di lavoro». (Z.B.)                                                                                                                                                 
Ulrich Beck:                                                                                                                                             
"Ciò che emerge dal decadimento delle norme sociali è un ego aggressivo, nudo e spaventato, bisognoso di amore e di aiuto, che alla ricerca di se stesso e di una socialità degli affetti rischia di perdersi nella giungla dell'io. (...) Chi rovista nella nebbia del proprio io non è più in grado di accorgersi che questo isolamento, questa 'prigione solitaria dell'io', è una sentenza di massa". (Z.B.)                                                                                                                                       
                                                                                                                                  
Bauman fa il ritratto di un’epoca smarrita, in balia di forze fuori controllo, ansiosamente alla ricerca di conferme che non trova: 

«Questa nostra epoca eccelle nello smantellare le strutture e nel liquefare i modelli, ogni tipo di struttura e ogni tipo di modello, con casualità e senza preavviso» (Z.B.)                                         
Nell’era post-moderna l’identità non è più qualcosa di predeterminato, anch’essa si fa fluttuante e aleatoria, instabile e precaria.
Non si è sicuri se la condizione peggiore sia il non “trovare” la propria identità, o piuttosto trovare quella sbagliata, rimanervi intrappolati, esservi condannati.
Si procede un passo alla volta, una frazione temporale alla volta, di episodio in episodio, e lo sguardo non arriva oltre i confini del frammento di esistenza occupato, si è solo consapevoli che la propria condizione è temporanea e che ad ogni momento bisogna esser pronti a cambiare rotta, essendo il mettere radici il più grande dei pericoli.
L’idolo dell’identità ossessiona le menti perché sfugge ad ogni controllo, scade e si svaluta, diventa oggetto di consumo.                                                                                                                                            
«La principale e più snervante delle preoccupazioni non è quella di trovar posto all’interno di una solida struttura della classe o della categoria sociale e, una volta trovatolo, di difenderlo e scongiurare lo sfratto; ciò che preoccupa è invece il sospetto che questa struttura faticosamente conquistata possa venire repentinamente lacerata o dissolta.»(...)«Le guerre di identificazione non si contrappongono né ostacolano la tendenza globalizzatrice: sono la prole legittima e le ancelle naturali della globalizzazione e, lungi dal frenarla, ne lubrificano i meccanismi»  (Z.B.)          

Consumo, quindi sono:                 

«Il mercato tiene in vita l’ambivalenza e l’ambivalenza tiene in vita il mercato»                            
«Le società, che un tempo si sforzavano di dare trasparenza, sicurezza e prevedibilità al proprio mondo, si ritrovano a dipendere, nella loro capacità di agire, dagli umori mutevoli e imprevedibili di forze misteriose come la finanza mondiale e le borse azionarie» (Z.B.)                                                                                              
Alla fuga dalla politica e dalle battaglie sociali, percepite come enormemente al di fuori dalla portata non solo dei singoli individui, ma delle stesse istituzioni, ridotte ormai a fare gli interessi di un incontrollabile mercato-tiranno, corrisponde un rifugiarsi nel proprio universo privato di sofferenze affrontate in solitudine.
Queste stesse sofferenze diventano oggetto di consumo mediatico, atto a lenire le ansie e le angosce tramite altra ansia e altra angoscia condivisa.
Il consumo di beni non solo materiali, ma anche intellettuali e spirituali, diventa un modo per riappropriarsi della perduta autodeterminazione, per soddisfare nell’immediato bisogni indotti e riaffermare un controllo di poco conto che, se pur brevemente, attenua il grande sentimento d’impotenza.                                                                                                                                            
La crisi del welfare state:                                                                                                                     

C’è ancora posto per l’assistenza degli indigenti nella società individualizzata?
Come riaffermare le ragioni dell’etica in un’epoca in cui tutto viene giudicato in base al rapporto costi-benefici?
Come arginare il risentimento dei malati di precarietà verso coloro che possono contare almeno  sulla certezza, per quanto miserevole, dell’appoggio statale?
E non sono forse necessari gli indigenti quando ricordano ai più fortunati quale sia l’alternativa al terribile orizzonte aperto di possibilità che affligge questi ultimi come una condanna?
«Il futuro del welfare state, una delle più grandi invenzioni dell’umanità e tra le più grandi conquiste della società civilizzata, si combatte sul fronte della crociata etica. […] La morale non ha altro che se stessa per sorreggersi: è meglio avere a cuore qualcosa che lavarsene le mani, anche se questo non arricchisce le persone e non incrementa la redditività delle aziende»  (Z.B.)                                                                                                                                                           

La crisi dell’istruzione:                                                                                                                          

Quando saltano tutte le regole si può ancora parlare di conoscenze utili alla riuscita esistenziale?
Si può essere sicuri che gli apprendimenti di oggi non costituiranno, domani, una zavorra all’adattabilità?
Esiste un ritorno effettivo degli investimenti e delle fatiche scolastiche?
È auspicabile trasformare le università in imprese commerciali, attuando una completa mercificazione del sapere e accettando di subordinarle alle forze di mercato?
Si dovranno abbattere tutti i ponti con l’esterno e fare dell’universo accademico una realtà a se stante, parallela, non-comunicante e autogestita, decretandone infine il ruolo di «fortezza» assediata?
Sarà, invece, necessario ripensare da principio tutti gli assetti teorico-filosofici dell’insegnamento, teorizzando un nuovo processo formativo?                                                                                             
Non sembra essere l’«apprendimento terziario» l’unico in grado di preparare (non-preparando e insegnando ad aspettarsi l’imprevisto e a stravolgere all’occorrenza quanto imparato) al futuro?                                                                                                                                                     
«In un mondo in cui nessuno è in grado (anche se molti lo fanno, con conseguenze che vanno dall’irrilevante al disastroso) di prevedere il tipo di conoscenza che può essere necessario domani […], il riconoscimento di molte modalità diverse e di molti canoni diversi negli studi superiori è la condicio sine qua non di un sistema universitario capace di rispondere alla sfida post-moderna»                                                                                                                                                                                                   

Leibniz: «La soppressione del giudizio (epoché) come "dubbio" e il dubbio come uno stato involontario di ignoranza che ci  abbandona alla mercé degli impulsi che nascono dalle passioni. Ovviamente l'uomo in preda alle passioni è perturbato, e sarebbe assurdo cercare di conquistare l'imperturbabilità attraverso le perturbazioni.» (Z.B.) 

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